Sanders, l’anticapitalista che appoggiò Biden

In questo appuntamento con la rubrica "Rileggiamoli insieme" parliamo di: Bernie Sanders, “Sfidare il Capitalismo”, e Roberto Mangabeira Unger, “Democrazia ad alta energia – un manifesto per la Sinistra del XXI secolo”.

Pierfranco Pellizzetti

Il socialismo è sorto anch’esso dai presupposti dell’era
dell’abbondanza, proprio come l’individualismo, il laissez-
faire e il libero gioco delle forze economiche”[1].
John Maynard Keynes
Le forze socialiste esistenti sono oggi di
fatto neoliberiste e continuano a commettere
l’errore di allearsi con le forze neoliberali
contro i ceti popolari”[2].
Nancy Fraser

Socialista? Newdealista.
La coppia di vecchietti terribili che all’inizio del XXI secolo agitarono il campo silente della Sinistra occidentale – il britannico Jeremy Corbyn e l’americano Bernie Sanders – si presentava esibendo un antico appellativo da tempo passato di moda: “socialisti”. Alla luce della consunzione del termine, bisognerebbe definire a che cosa ci si riferisce. A nostra memoria, una delle più recenti formulazioni di questa veneranda araba fenice la dobbiamo al francofortese di terza generazione Axel Honneth; il quale, nel linguaggio oscuro e involuto della sua scuola di appartenenza, teorizza che “nel socialismo, l’ampia e feconda concezione di una risoluzione dell’eredità contraddittoria della Rivoluzione attraverso l’istituzionalizzazione delle libertà sociali è stata sviluppata entro il quadro di una forma di pensiero ancorata pressoché in tutti i suoi aspetti alle esigenze tipiche della Rivoluzione industriale”[3]. Una definizione che posiziona quello socialista come pensiero indissolubilmente radicato nella Modernità emersa dalla rivoluzione industriale, quando ormai da tempo i nostri passi si muovono su un terreno che riconosciamo come post-industriale. Quando non è più una fisima da situazionista alla Guy Debord prendere atto che la riproduzione del capitale a Occidente non avviene più nei luoghi delle manifatture ma è migrata nello spazio dei flussi; materiali come logistica, immateriali come finanza. Eppure, mentre il socialista britannico Corbyn è scomparso ai radar della cronaca politica, il socialista vintage americano continua la sua battaglia politica come se la working class fosse ancora la levatrice della storia; la classe generale incarnata nel proletariato di marxiana memoria.
Questo è il mantra di Sanders, la terapia con cui vorrebbe curare i mali di una società ingiusta, trascurando il non banale aspetto che la transizione dal vecchio al nuovo modo di produrre non è “naturale”, bensì strategia lucidamente perseguita dal capitale.
La deindustrializzazione a Occidente e il decentramento produttivo a Oriente come abbattimento di costi, ma anche (soprattutto) come eliminazione di un contrappeso antagonistico al comando d’impresa. Un aspetto della questione che – invece – dimostra di avere ben chiaro il socio-giurista brasiliano Roberto Mangabeira Unger che, sebbene sia stato a lungo docente ad Harvard, ha sempre conservato un radicalismo molto latino-americano: “l’idea che gli interessi di gruppo abbiano un contenuto chiaro e oggettivo è soltanto un’illusione, che dipende dal contenimento o dall’interruzione del conflitto reale e simbolico. […] Incompatibile con qualsiasi ostinato tentativo di barricare la forza lavoro organizzato del sistema industriale all’interno della sempre più debole roccaforte della tradizionale produzione di massa” (R.M.U. pag. 31). Per cui, “mentre la socialdemocrazia europea scava nella sua agenda storica alla ricerca di un’ipotetica sintesi tra la solidarietà sociale di stile europeo e la flessibilità economica di stampo americano, si affievolisce la speranza di considerare la socialdemocrazia europea come un punto di partenza per lo sviluppo di un’alternativa di interesse mondiale” (R.M.U. pag. 81). Quella socialdemocrazia europea che – invece – continua a essere la stella polare cui fare riferimento di Sanders. Anche se – da bravo cittadino degli States – di quell’esperienza continua ad avere una conoscenza molto approssimativa. Difatti mentre il Vecchio Continente, tardivo inseguitore dell’american way of life, assiste all’inesorabile avanzata di forze intenzionate a sbaraccare lo Stato Sociale, il vecchio ami du peuple stelle-e-srisce favoleggia di “Paesi europei, che hanno sistemi di welfare molto più avanzati degli Stati Uniti, stanno già sviluppando piani per estendere e potenziare i programmi che assicurano l’assistenza sanitaria, l’istruzione e le pensioni” (B.S. pag. 275).
D’altro canto, esaminando la lunga carriera politica del nostro autore, rivolta a ottenere ciò che in sindacalese si chiamavano “risarcimenti”, più che a sovvertire i rapporti di classe vigenti, invece che “socialista” si potrebbe etichettarlo “newdealista rooseveltiano”. Avendo chiaro che la strategia di Franklin Delano Roosevelt – nell’intento riparatore degli aspetti critici emersi nella “Grande Crisi” del ’29 – era quella di contenere la rabbia sociale attraverso trasferimenti; non certo mettersi alla testa di masse proletarizzate per la conquista del Palazzo d’Inverno (una prospettiva che aleggiava e aleggia solo nelle menti ossessionate dalla propaganda reazionaria di allora come di ora. Anche dalle nostre parti). Del resto il vero maître à penser del presidente americano si chiamava John Maynard Keynes, il cui obiettivo dichiarato era quello di riparare “il motorino d’avviamento” dell’economia. “Per salvare il capitalismo”[4], non certo installare i soviet.

Le due nazioni
In fondo anche Sanders è animato dallo stesso proposito, salvare l’America da se stessa con terapie improntate al buon senso più compassionevole (e – si potrebbe dire – scontato). Da qui i costanti richiami ai bei tempi in cui Roosevelt conquistava la maggioranza degli elettori dichiarando quanto ancora oggi ripete il senatore progressista del Vermont.
“Dobbiamo renderci conto con chiarezza del fatto che la vera libertà individuale non può esistere senza la sicurezza e l’indipendenza economica” (B.S. pag. 223). Ma ciò di cui Sanders continua testardamente a non rendersi conto è quanto – ad esempio – ci ha spiegato “con chiarezza” lo storico Howard Zinn, di cui pure Sanders si dichiara conoscitore e fan (B.S. pag 248), relativo all’immutabile DNA dello Soggetto nato dall’accordo fra le 13 colonie sotto la guida di una plutocrazia coloniale. E “questo sarebbe diventato un tratto caratteristico della nuova nazione: possedendo una ricchezza enorme, poté creare il ceto dominante più ricco della storia e avere ancora risorse sufficienti a far sì che i ceti medi fungessero da cuscinetto fra i ricchi e i diseredati”[5]. Quel marchio di classe originario che accomunava tanto il conservatore John Adams e il progressista James Madison nella difesa del privilegio proprietario, che conferma la costante natura duale della società anglosassone; per cui il primo ministro della regina Vittoria Benjamin Disraeli “aveva definito l’Inghilterra la patria di due nazioni: i poveri e i ricchi”[6]. Per cui – se volessimo seguire Michel Foucault nelle sue scorribande archeologiche nel sapere come mentalità – arriveremmo a ipotizzare matrici etniche nell’ostilità di classe sottotraccia che risale alla conquista normanna dell’Inghilterra sassone; dopo la vittoria del 1066 a Hastings, che lascerà un memento indelebile nella memoria collettiva della Gran Bretagna. “Il nemico – o piuttosto il discorso nemico contro il quale si rivolge Hobbes – è quello che si poteva intendere nelle lotte civili che a quell’epoca laceravano lo Stato in Inghilterra. Era un discorso a due voci. L’una diceva: ‘noi siamo i conquistatori e voi i vinti. Noi siamo forse degli stranieri, ma voi siete dei servi’. A cui l’altra voce rispondeva: ‘siamo stati conquistati, ma non lo resteremo. Noi siamo a casa nostra e voi ne uscirete’”[7].
Un retro-pensiero che attraversa l’oceano e ritroviamo nell’élite Wasp del Nuovo mondo, per cui Charles Wright Mills esplora negli anni cinquanta del secolo scorso la struttura del potere nella società americana arrivando a svelare, dietro le cortine fumogene della riservatezza, la presenza di una classe – “i quattrocento metropolitani” – che si trasmettono il potere di padre in figlio: “a Boston, a New York, a Filadelfia, a Baltimora, a San Francisco esiste un solido nucleo di famiglie di antica ricchezza. […] Questi ceti, in ciascuna delle grandi città, guardano in primo luogo a se stessi”[8]. Sicché, nell’evoluzione dalla plutocrazia coloniale all’oligarchia urbana, solo pensare che questo concentrato di avidità e potenza, tutelato da valli sociali invisibili quanto invalicabili, possa rinunciare ai propri privilegi senza colpo ferire, colmando lo spartiacque abissale tra le due nazioni, sembra il parto di un’ingenuità incredibile. E anche la breve stagione newdealistica lo conferma a contrario; in cui le riforme rooseveltiane profittarono, per riuscire a farsi approvare, di una crisi socio-economica devastante degli equilibri plutocratico-oligarchici dell’America come mai in passato. E adesso per fare che cosa? Il modello retrò della socialdemocrazia? E con quali forze? Dovrebbe far riflettere la stessa ammissione di Sanders che i “nuovi quattrocento” si sono comprati buona parte del ceto parlamentare americano, sia repubblicano che democratico, per bloccare ogni iniziativa che potrebbe intaccarne i privilegi (“noi oggi viviamo in una ‘democrazia’, ma è la loro democrazia. Spendono decine di miliardi di dollari in contributi elettorali per sostenere ambedue i maggiori partiti, per comprare politici che eseguiranno i loro ordini. […] Ecco perché negli ultimi cinquant’anni abbiamo continuamente assistito a politiche pubbliche che avvantaggiano gli ultraricchi a scapito di tutti gli altri” B.S. pag. 7). E lui stesso dovrebbe riflettere sulla propria parabola personale di tribuno della working class finito a fare campagna per un tipico esponente dell’establishment quale Joe Biden. Che neppure risponde quando gli vengono ricordati i punti programmatici progressisti su cui aveva basato la sua campagna elettorale (pag. 242). Eppure il Nostro continua a ripetere, da vero sovversivo da talk show; come il suo prefatore Fausto Bertinotti: “conosco Biden da anni e lo considero un amico e una persona assolutamente rispettabile” (B.S. pag. 10).
Mangabeira Unger propone tutt’altra prospettiva: “il fallimento dei progressisti americani nel dare, dentro e fuori il Partito Democratico, un seguito effettivo al progetto roosveltiano, li ha resi incapaci di rispondere ai grandi cambiamenti verso il basso che hanno colto di sorpresa la democrazia americana dagli anni Sessanta in poi” (R.M.U. pag. 87). In altre parole: l’obiettivo nel conflitto con l’ancien règime stelle-e-strisce, per contrastarne l’opera regressiva, non è una vaga socialdemocrazia ma la ben più concreta democrazia. Il campo politico attivato dal conflitto – simbolico o effettivo che sia – sistematicamente rimosso dall’America plutocratico-oligarchica; non certo dalle inani pratiche parlamentari che impastoiano sistematicamente il cambiamento; come ce ne dà conferma la lunga carriera sandersiana nei Palazzi del potere (“volevo che i democratici del Senato portassero in aula provvedimenti che affrontavano i bisogni delle famiglie di lavoratori e costringessero i repubblicani a votare a favore o contro” Pag. 121). Una prospettiva illusoria, reiterata nonostante le dure repliche ricevute, all’insegna dell’inutilità. Come il suo saggio conferma.

Alla fine del sogno americano
Semmai il testo di Bernie Sanders risulta un ricco repertorio di informazioni sulla fase terminale del “sogno americano” che si è trasformato in incubo. “Oggi decine di milioni di americani nutrono una rabbia profonda verso l’establishment politico, economico e dei media” (B.S. pag. 13). Un risentimento che trova la sua prima ragione di essere nelle non-politiche pubbliche per la salute: “ora come ora abbiamo un sistema sanitario disfunzionale: 87 milioni di non assistiti o sotto-assicurati, 500.000 americani che ogni anno vanno in bancarotta a causa delle spese mediche, 30.000 persone che stanno morendo mentre l’industria sanitaria ha decine di miliardi di utili” (B.S. pag. 324). Ricordare tutto questo, per poi stupirsi delle conseguenze. Da Candide. Per cui “l’assurdità dell’attuale situazione è [sarebbe] che Trump – un ciarlatano, un pilastro dell’establishment, un miliardario e un imprenditore ostile agli interessi dei lavoratori – è stato capace di riempire quel vuoto politico e sfruttare quella rabbia” (B.S. pag. 14). E probabilmente farà il bis alle prossime presidenziali degli Stati Uniti…
Eppure Sanders lo ripete “a disco rotto”: “dobbiamo cambiare sistema” (B.S. pag. 9). Con tanta predica e un po’ di risarcimenti? Ma se dobbiamo cambiare sistema, ne consegue che “ci dovrebbe essere un altro modo”. Il tasto su cui batte Mangabeira Unger, seppure restando ancora a livello di preliminari: “la democrazia non corrisponde soltanto all’autogoverno popolare e alla sua riconciliazione con i diritti individuali. Democrazia è anche la creazione permanente del nuovo. Le politiche collettive per la creazione permanente del nuovo sono il punto in cui si incontrano i nostri interessi fondamentali: l’interesse materiale al progresso pratico, l’interesse sociale al sovvertimento della predestinazione per classe e cultura, l’interesse morale alla riconciliazione delle condizioni conflittuali dell’autoaffermazione e l’interesse spirituale a impegnarsi senza arrendersi” (R.M.U. pag. 126). Insomma – come disse Napoleone – “on s’engage et puis on voit”. Sperando – da ferventi democratici – di non finire a Sant’Elena, magari con Bernie Sanders e Roberto Mangabeira Unger. Mentre Donald Trump rientra a vele spiegate nella Casa Bianca.
Le puntate precedenti di Rileggiamoli Insieme.

[1] John Maynard Keynes, Sono un liberale? Adelphi, Milano 2010 pag. 170
[2]Nancy Fraser, “Un socialismo per il XXI secolo”, MicroMega 6/2019
[3] Axel Honneth, L’idea di socialismo, Feltrinelli, Milano 2016 pag. 71
[4] John Maynard Keynes, Esortazioni e profezie, il Saggiatore, Milano 2017 pag. 242
[5] Howard Zinn, Storia del popolo americano, il Saggiatore, Milano 2005 pag. 62
[6] George L Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano 2015 pag. 386
[7] Michel Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998 pag. 88
[8] Charles Wright Mills, La élite del potere, Feltrinelli, Milano 1966 pag. 51

 



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