Sanremo, come l’oppio dei popoli, anzi del popolo

Sanremo è una delle tante distrazioni che ci aiutano ad anestetizzare il dolore di vivere in un mondo imperfetto. Ma le distrazioni non fanno altro che allontanarci dalla possibilità di ricercare un cambiamento nella società. E ci hanno allontanato anche dal voto.

Teresa Simeone

E anche la 73esima edizione di questo interminabile Sanremo è finita. Con le sue inevitabili e produttive polemiche, che lo nutrono, gli danno visibilità, replicano e rilanciano, come le risposte al post di un social, le sue necessarie esigenze di vivibilità ed eternità, per consentirgli di continuare e volare verso la 74esima.

È un grande rito collettivo che ci narcotizza e ci distoglie, per cinque giorni, dalla realtà che si dispiega intorno a noi, troppo drammatica e disperata, con la guerra, e il suo devastante carico di morti e di angoscia per il futuro, e quel terremoto, che ce ne ricorda altri del passato, ma non più in grado di sollecitare riflessioni come accadde a Voltaire, quando, sulla scia del tragico sisma di Lisbona del 1755 che provocò tra i 60.000 e i 90.000 morti, scrisse, nel 1759, il Candido. Nel libro, Voltaire, usando la ragione illuministica, criticava l’ottimismo leibniziano del migliore dei mondi possibili: un mondo in cui prevalevano soprusi, ingiustizie, violenze di ogni tipo dell’uomo su altri esseri umani.

E allora, invece di soffermarci, nel rifugio delle nostre solitudini a pensare, ad analizzare, a chiederci il perché di una sorte che distrugge uomini, donne, bambini e cose e città, non vediamo l’ora che arrivi il momento di allungarci  sul divano, davanti a quello schermo che ingoia ogni riflessione e capacità di discernimento e, in una rinuncia alla consapevolezza, cedere finalmente al pascaliano divertissement: tutto purché si dimentichi il dolore, la sofferenza, purché si esorcizzi la morte, oggi più vicina e probabile. D’altronde, potrebbe rispondere qualcuno, nel villaggio globale in cui viviamo siamo bombardati ogni minuto di notizie terribili che non siamo in grado di gestire: troppo oneroso il suo carico di angoscia. Non possiamo accollarci tutta la sofferenza del mondo, dobbiamo difenderci dall’ansia che ci immobilizza e ci impedisce di pensare e di continuare a vivere. Ben venga, allora, anche un evento leggero come il Festival di Sanremo che, per ore, in una maratona estenuante ma stregante, in una cerimonia collettiva unificante ed esorcizzante, ci regala evasione a basso costo, la distrazione dalla miserevole condizione di esseri fragili esposti alla precarietà della sorte, quell’oblio di sé che ci anestetizza, con l’illusione della libertà che l’arte ci trasmette.

Le critiche che l’accompagnano confermano la sua necessarietà e contribuiscono a mantenerci in un presente che, almeno per cinque giorni, non passa, e ci fa sentire vivi, impegnati a schierarci per Elodie o per Giorgia, a criticare Lazza o Mr Rain, a prendere parte alla kermesse della società che si polarizza secondo la consueta logica binaria. Ed ecco ripresentarsi la contrapposizione politica tra destra e sinistra, le accuse di parzialità, di comunismo (nella sempiterna riduzione semplificata con cui la sinistra, che di comunista non ha più nemmeno il ricordo, dovrebbe essere “ferita”), di monopolio culturale e superiorità morale che, in realtà, riflettono piuttosto il complesso di inferiorità di chi vi ricorre, in un’autovittimizzazione che non smette di rivendicare la sindrome dell’underdog.

Sorprende che i corifei del governo, nel momento in cui attaccano Benigni sul monologo col riferimento a quell’articolo 21 nel rispetto del quale possono scrivere e fare titoli offensivi, così come i politici della destra quando alzano gli scudi contro le testimonianze di donne che parlano di femminismo, di identità di genere, di razzismo, non si rendano pienamente conto che, col dire che il festival è in mano alla sinistra, stanno confessando il fastidio per la Costituzione, per i diritti delle donne, degli omosessuali, per i cittadini di etnia e di pelle diversa.

Anche i messaggi di Fedez, degli Articolo 31, di Rosa Chemical in fondo sono parte integrante e indispensabile del carrozzone sanremese con quella trasgressione che rientra nelle libertà che non fanno alcun danno, nemmeno a chi denuncia la deriva di una Rai completamente fuori controllo, in realtà da voler censurare. Anzi, piuttosto che promuovere la presa di coscienza, queste intemperanze finiscono per indurre una resistenza anche nelle persone più bendisposte verso i temi che si affrontano e avere l’effetto opposto a quello annunciato. Quando non generano completa indifferenza. Non è un caso che l’adesione a problematiche considerate di sinistra si traducano, come dimostrato dalle elezioni regionali, in un astensionismo che finisce per premiare proprio la destra: ci si illude che basti, comodamente seduti su una poltrona, esprimere sui social la propria opinione per evitare di alzarsi, prendere la tessera elettorale e recarsi, come ogni cittadino consapevole, benché critico nei confronti del sistema, alle sezioni e votare. Votare. Perché è così che si esprime il dissenso in un paese maturo e democratico.

Di altro peso politico sono, invece, le esternazioni di un Berlusconi che, in netta rottura con la maggioranza, arriva a fare l’ennesimo endorsement a Putin. Salvo poi rientrare nei ranghi. Ma questa è un’altra storia, anzi sempre la stessa, che ritorna periodicamente e che esprime ciò che il leader di FI realmente pensa e che ogni tanto, quando la vigilanza dell’Io sull’Es cala, erompe prepotente contro ogni ragion di scuderia. È su questo che la destra, impegnata invece a disinnescarne la portata senza spiegarla, dovrebbe dare risposte agli italiani e ai suoi elettori. Una confusione che, una volta da Salvini un’altra da Berlusconi, rischia di esporre proprio a quell’instabilità politica che la legge elettorale, nel preferire le coalizioni, vorrebbe allontanare. Più che temere Fedez e bacchettare Amadeus, la maggioranza di governo dovrebbe guardare in casa propria e, al di là dei distinguo su “atti” formali e dichiarazioni informali, dal sen fuggite, capire e dire cosa vuole realmente fare in politica estera e come posizionarsi nell’Unione europea.

 

Foto Flickr | Luca Galli



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