Sarah Vaughan: l’impertinente regina del jazz cent’anni dopo

A cent’anni dalla sua nascita ricordiamo una delle indiscusse regine del jazz a livello mondiale. La “Divina”, “Sass”(l’impertinente), comparabile solo a Ella Fitzgerald in quanto a fama e talento, è stata un pezzo irripetibile della storia della musica.

Giovanni Carbone

È il 27 marzo del 1924, cent’anni adesso, quando Sarah Vaughan nasce a Newark, nel New Jersey. La ascolto dal vivo per una pausa universitaria in un concerto a Siracusa, nel 1988. Ne vengo fuori estasiato. Non è solo per quella spaventosa estensione vocale, – lei parla di quattro ottave, “forse sono cinque”, dichiara – per l’innata possibilità di cantare in modo diverso ogni volta i pezzi che esegue, cambiando impostazione, improvvisando sempre nel modo giusto, ma anche per la capacità unica di tenere il palco, con un magnetismo che cattura. Pare giochi, ammicchi al pubblico per poi farsene gioco divertita un paio di minuti dopo. Sarah Vaughan è una cantante che non può avere eredi, è troppo semplicemente Sarah Vaughan. A quel concerto vado non solo per sentirla, voglio vedere quella donna così “altra”, voglio capire se si merita il soprannome di “Sass”, l’impertinente, che le hanno appiccicato addosso, oltre a quello di “Divina”. Mi capita, un po’ prima, di leggere il resoconto d’un suo concerto a Dusseldorf. Sta cantando i versi di Karol Wojtila messi in musica jazz da un gruppo di grandi del mestiere. In platea ad ascoltarla c’è un alto prelato, ha pure il cappellino porpora d’ordinanza. Lei si fa il segno della croce, non nasconde troppo il gioco, scatena le risa del pubblico con un “pregate per me”. Dal vivo Sarah pare il centro dell’universo, intorno non c’è altro che non sia lei e la sua voce. Certi virtuosismi sono l’espressione più tipica della sua personalità, d’una carriera straordinaria. Compete con i fiati di Gillespie, di Charlie Parker per come trascina fuori dai binari dell’ascolto consueto, per come indica la necessità di esplorare una possibilità altra, quella che racconta che ce n’è ancora una più in là.
Comincia in modo abbastanza tipico per le donne del jazz della sua generazione, in una modesta famiglia di afroamericani dell’America profonda. Sua madre è una lavandaia, canta nel coro della chiesa, suo padre fa il falegname ed anche lui ha la passione per la musica, suona la chitarra, il piano. È l’ambiente giusto, Sarah comincia a strimpellare il piano a soli tre anni e se ne palesa subito il talento. Il palco più vicino è quello della chiesa, fa la solista nel coro, suona l’organo. Ma è irrequieta, quella roba non le basta. Ascolta la radio, si appassiona alla musica popolare e comincia a frequentare i locali della sua città, si esibisce lì in modo non troppo lecito. È la sua strada, quella che a soli quindici anni le fa abbandonare la scuola per dedicarsi a ciò che sa fare meglio.
È ambiziosa e parte per la grande città. Al mitico Apollo Theatre di Harlem, tempio indiscusso della musica, c’è un concorso canoro. Quasi dieci anni prima debutta proprio lì Ella Fitzgerald, la regina indiscussa del Jazz, che dovrà dividere il suo trono proprio con Sarah, in un dualismo emozionante che dura per un bel po’ tirando dentro anche la più anziana Billie Holiday. Sarah ha solo diciotto anni, si iscrive al concorso e canta Body and Soul. Si prende dei rischi, sta sul trapezio del circo più prestigioso senza rete, quello è un brano che hanno fatto proprio gente come Louis Armstrong, Paul Whiteman, Benny Goodman, Coleman Hawkins. Ma l’impertinente, irriverente Sarah vince. Ad ascoltarla c’è Billy Eckstine che canta con l’orchestra di Earl “Fatha” Hines. È proprio lui che suggerisce ad Hines di prenderla come seconda cantante, se occorre anche per suonare il piano. Da quelle parti ci sono un altro paio di ragazzi interessanti che si muovono nel bop, si chiamano Dizzy Gillespie e Charlie Parker. Quando Eckstine forma la sua orchestra li porta con sé tutti e tre. Un paio di anni dopo Sarah lascia l’orchestra per intraprendere una carriera di successo da solista. Ma il legame con Eckstine non si rompe mai, per Sarah è una sorta di padre, “il mio sangue”, dice di lui, lui che le sta vicino, l’aiuta a superare le ansie e le fragilità di quell’altra sé, le sue paure dissimulate nelle istrioniche presenze sceniche sul palco.
Nel ’47 si sposa con George Treadwell, un trombettista piuttosto attivo che collabora, tra gli altri con Budd Johnson. George diventa il suo manager, si occupa di lei, della sua musica, anche del suo look, lo trasforma dagli abiti alla pettinatura, persino le fa applicare una corona protesica per chiuderle il diastema tra i due incisivi. Comincia a far parlare di sé, fa conoscere al mondo la versatilità di un’artista che sa cos’è il bebop, ne armeggia sapientemente la tecnica, ne conosce l’essenza, ma non si priva di dedicarsi alla musica più commerciale. Porta al successo brani mitici come Tenderly, It’s Magic, Nature Boy che registra con la sua sola voce accompagnata da un coro a cappella perchè i musicisti in quel momento sono in sciopero.
Negli anni a seguire continua a fare Jazz, lavora con Charlie Parker, Miles Davis, Kenny Clarke, Cannonball Adderley, una delle registrazioni più significative della sua storia artistica la produce con Clifford Brown, l’apripista dell’Hard Bop. Si esprime in territori sempre più vasti, esegue ancora classici come Misty, Broken-Hearted Melody, con Eckstine canta in duetto in Irving Berlin Songbook e con Passing Strangers mette sul piatto uno dei duetti uomo donna tra i più memorabili di sempre.
Si ritrova a fianco di giganti del Pop americano come Quincy Jones, Lalo Schifrin, Benny Carter, e canta la Bossa Nova come non avesse fatto altro per tutta una vita. Trova il tempo per sposarsi altre due volte, con un giocatore di football, Clyde Atkins e con Marshall Fisher, pure per partecipare al film Sindacato assassini. Se ne va nell’aprile del 1990 dopo una malattia che non le ha dato scampo. Con lei è andato via un pezzo di storia del Jazz, di quella della musica. Rimangono le sue canzoni, quel modo “impertinente” di rivendicare quanto fosse la più brava, “Sass”, Divina.
CREDITI FOTO: CREATIVE COMMONS / Los Angeles Times / Aurelio Jose Barrera



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