Tra fideismo e diffidenza. La cittadinanza scientifica sotto scacco pandemico

Trattata come un oracolo dalle cui parole dipende il nostro destino o, al contrario, come covo di interessi che lucrano sulla nostra salute, la scienza in questi due anni di pandemia non ha avuto vita facile. Molto dipende da un dato ineludibile: nella scienza moderna l’incertezza è un dato strutturale con il quale solo una cittadinanza scientifica correttamente formata (e informata) è in grado di relazionarsi.

Elena Gagliasso

Un interessante rapporto tra ricerca scientifica e collettività civile che si andava tessendo lentamente a partire dagli anni Settanta del XX secolo, con quasi due anni di pandemia sembra entrato in una serie di testa-coda preoccupanti. Vediamo come e perché, e cosa insegna questo passaggio epocale.

Negli anni Settanta fisici italiani come Marcello Cini e la sua scuola avevano scoperchiato il vaso di Pandora della non-neutralità della scienza, influenzata com’è nel cuore stesso delle sue domande, dai contesti storici ed economici (Parisi, 2011). Negli stessi anni comitati tecnici e operai prendevano la parola, si “alfabetizzavano” sui temi della salute nelle fabbriche e nei territori inquinati. Da interlocutori critici pretendevano ascolto e insieme formazione scientifica, mentre nasceva tra i tecnici la prima medicina del lavoro, la futura epidemiologia ambientale. Nel mondo anglosassone negli stessi anni sorgeva un movimento politico e di ricerca che realizzava formazione e dibattito sui rapporti tra ricerca e apparati militari tra biologi, fisici, tecnici e vi si univa la comunità civile democratica: Science for the People.

Insomma, già da più di mezzo secolo, soprattutto nelle scienze della vita e dell’ambiente, il numero degli attori e delle pratiche di ricerca cresceva anche al di fuori dei laboratori. Si ragionava per collettivi tematici con intenti propositivi e critici e con una circolazione di reciproca fiducia epistemica. “La responsabilità degli intellettuali”, tanto per parafrasare Pierre Bourdieu, era chiamata in causa a pronunciarsi e si discuteva, in modi certo non indolori (Aa.Vv., 1990) sui rapporti di forza tra scienziati, politiche e società.

È da lì direi che s’impostano ordito e trama di ciò che più avanti sarebbe confluito nell’attenzione per la cosiddetta “cittadinanza scientifica” (citizen science) (Funtowicz, Ravetz, 1993; Nowotny et al., 2001; Jasanoff et al., 2013; Tallacchini, 2017; Rufo, 2019).

Per molti di noi epistemologi l’esigenza d’andar oltre il discorso sulle sole regole interne del metodo fu cruciale. Parlare di filosofia della scienza diventava culturalmente sensato, «realistico» (Ziman, 2000), nel momento in cui si integravano le politiche e il ruolo dell’economia nella ricerca (la Science Policy) nonché, appunto, quello interlocutorio delle cittadinanze informate (la citizen science).

Perché accennare a questa storia dell’altro ieri? Quale la sua morale per il nostro presente? Intanto che serve rinominarla e tornare a studiarla per farne un termine di confronto significativo.
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