Uno sciopero simbolo dello scontro tra la resistenza e la restaurazione

Non serve perdersi nei tecnicismi, tra il chiedersi se in questo appuntamento ci siano o meno le condizioni per parlare di sciopero generale o il disquisire sulle prese di posizioni della Commissione di Garanzia. La questione sta tutta sugli equilibri dominanti di potere: l’attacco alle organizzazioni dei lavoratori si inserisce nella più generale tendenza del nuovo corso politico avviato il 25 settembre 2022 con la vittoria dell’estrema destra.

Pierfranco Pellizzetti

A fronte della bagarre politica attorno allo sciopero nel settore trasporti indetto da CGIL e UIL per venerdì 17 novembre (ma non da CISL, tradizionalmente filogovernativa a priori), ci sarebbe la tentazione di lasciarsi andare al sarcasmo personale prendendo di mira l’antagonista dei Segretari Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri. Quel Matteo Salvini, fancazzista cronico, che da bravo politicante non perde l’occasione di scavalcare la premier Giorgia Meloni a destra sulle tematiche più forcaiole (che comunque si è subito affrettata ad apporre l’imprimatur governativo sulle mattane del suo pittoresco vice-presidente). Così come non serve a molto perdersi nei tecnicismi chiedendosi se in questo appuntamento ci siano o meno le condizioni per parlare di sciopero generale; o disquisire sulle prese di posizioni della Commissione di Garanzia in materia di conflitti del lavoro, i cui membri sono solitamente molto allineati sugli equilibri di potere dominanti.

Appunto, gli equilibri dominanti di potere, perché la questione sta tutta qui. Di cui l’attacco alle organizzazioni dei lavoratori, non in linea con lo spirito del tempo, si inserisce nella più generale tendenza del nuovo corso politico avviato il 25 settembre 2022 con la vittoria dell’estrema destra, in un agone elettorale svuotato dall’insipienza e dagli autogol della sinistra-centro. Da quel momento – passo dopo passo – è iniziata una lunga marcia tutta politicante per smantellare il contesto socio-politico emerso dalla Resistenza al Nazi-Fascismo e formalizzato nella carta costituzionale. Per questo i vari passi vanno visti come tappe di un unico itinerario: l’attacco ai ceti meno abbienti, a rischio di povertà assoluta, sotto forma di demonizzazione del Reddito di cittadinanza (l’ignobile invenzione comunicativa delle torme dei poltronisti finanziati nel loro ozio dal Conte II elargendo qualche cento euro) per consolidare il patto elettorale con il ceto medio commerciante/impiegatizio e la Confindustria del lavoro sottopagato; la sepoltura tombale del progetto di salario minimo da 9€ nel CNEL del premio Nobel de noialtri Renato Brunetta; la schiforiforma del premierato, progettata per lesionare la Costituzione del 1948 e instaurare una simil-dittatura dell’uomo forte al comando, sgravato da controlli e contrappesi. Ossia “un duce”.

Insomma, sulla scia tracciata dai cari amici del Gruppo di Visegrad, i reazionari oscurantisti propugnatori della “democrazia illiberale”, Giorgia Meloni si impegna nel far fare all’attuale democrazia post-democratica, in cui viviamo, il definitivo salto verso la Democratura (la democrazia trasformata in un guscio vuoto a copertura di pratiche autoritarie). E qui arriva allo scontro con il lavoro e le sue organizzazioni, per cui una volta tanto le va benissimo il ruolo da provocatore-guastatore svolto dal Salvini: perché è proprio il lavoro che continua a essere l’antemurale democratico a difesa della Costituzione. Del suo spirito, prima ancora del suo dettato. Da battere politicamente e umiliare mediaticamente.
Del resto è dall’ultimo quarto del secolo scorso che a Occidente ogni disegno reazionario ha richiesto la sconfitta dell’occupazione, della classe operaia. Come ci ha mostrato con estrema chiarezza un sicuro modello per la Meloni: Margaret Thatcher.

Ricordate Orgreave, nello Yorkshire del Sud; il 18 giugno 1984?  Il luogo dove avvenne quanto riferito dalle cronache del tempo come lo scontro più violento tra i minatori guidati dal leader sindacale Arthur Scargill e il primo ministro britannico, intenzionata a stroncarne la resistenza. Una vera “battaglia”, al culmine di un anno di scioperi, segnata dall’inaudita violenza della forza pubblica che, in pieno assetto militare e anche con reparti a cavallo, assalì, arrestò, picchiò selvaggiamente i lavoratori, per poi abbandonarsi alla devastazione di case e villaggi, mandando in galera 39 manifestanti con accuse risultate false (a seguito di un processo per tali abusi, la polizia dovette risarcirli con 425 mila sterline). Alla fine della terribile giornata di quel giugno due minatori erano caduti sul campo, migliaia di feriti, 11 mila i fermati. Ma soprattutto niente fu più come prima nell’antica patria della democrazia laborista. Al tempo stesso partì il messaggio definitivo, dopo le prove generali nel Cile di Pinochet, dell’inizio di una nuova epoca. E magari anche domani: la fine dell’operosità come soggetto costituente dell’Italia sognata dai nostri Padri Costituenti. Perché una non trascurabile parte della posta sarà in gioco proprio domani. Seppure in un Paese come il nostro, sfinito da decenni di collusioni politiche e marginalizzazioni sociali. Dunque anestetizzato sul fronte della combattività, a differenza di quei minatori britannici d’allora e – magari – dei nostri cugini d’oltralpe francesi di oggi.

CREDITI FOTO ANSA/ MASSIMO PERCOSSI



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