La parabola dei 5 Stelle e la politica che ci aspetta

Quali prospettive per la sinistra dopo la scissione del Movimento.

Mario Barbati

«Se vieni eletto con il Movimento 5 Stelle e scopri di non essere più d’accordo con la sua linea, hai tutto il diritto di cambiare forza politica. Ma ti dimetti, torni a casa e ti fai rieleggere, combattendo le tue battaglie. Chi cambia casacca, tenendosi la poltrona, dimostra di tenere a cuore solo il proprio status, il proprio stipendio e la propria carica. Non so voi, ma a me piace l’art. 160 della Costituzione del Portogallo: “Perdono il mandato i deputati che s’iscrivono a un partito diverso da quello per cui erano stati eletti”» (Luigi Di Maio, pagina Facebook, 11 gennaio 2017). Ecco non so lei, ministro Di Maio, ma fossimo al suo posto cambieremmo non continente ma sistema solare dalla vergogna. Spiace dirlo, perché chi scrive viene dalla sua stessa regione, anzi dalla stessa cittadina, e conosce la fatica e lo stigma che si porta dietro chi viene dal Sud. Chi fa informazione, tuttavia, e fornisce strumenti di conoscenza all’opinione pubblica ha il dovere di essere onesto intellettualmente.

Questa che si va a concludere è stata la legislatura del trasformismo: i passaggi da un gruppo parlamentare all’altro sono stati 415, secondo uno studio di Openpolis. Quasi un parlamentare su tre ha deciso di lasciare il partito con cui era stato eletto nel 2018. All’inizio della legislatura i 5 stelle avevano un terzo dei seggi in Parlamento (329), oggi si ritrovano il gruppo parlamentare dimezzato (167). Questa parodia della politica e questa che continuiamo a chiamare democrazia, con un presidente del Consiglio non eletto e con i parlamentari scelti non dagli elettori ma dai capipartito, ha prodotto quello che oggi è il primo partito italiano: quello dell’astensione. Solo quattro elettori su dieci hanno partecipato al voto dei ballottaggi delle amministrative, al primo turno si è presentato meno del 55%. Parafrasando Gaber, la libertà non è più partecipazione ormai da tempo.

In seguito alla scissione dei 5 stelle, che – attenzione – non è soltanto un’operazione trasformista, ma anche una “garanzia” offerta agli alleati del Patto atlantico (ingenuo pensare che Di Maio non si sia consultato con Draghi), è successo un po’ di tutto. «Draghi ha chiesto a Grillo di rimuovere Conte dal M5S» titola il Fatto quotidiano il 29 giugno; «Grillo: Draghi vuole che molli Conte» su La Stampa dello stesso giorno. Il premier è a Madrid per il vertice Nato, Conte si dice sconcertato, solo in serata una velina di Palazzo Chigi smentisce, quasi in contemporanea smentisce anche Grillo venuto a Roma per dire tutto e il suo contrario, in serata telefonata di fuoco Draghi-Conte e in seguito entrambi al Quirinale da Mattarella che stempera. Solo ieri Draghi puntualizza: «Non ho mai fatto le dichiarazioni che mi sono state attribuite sui 5 stelle, non entro nei partiti… Non sono disposto a guidare un governo con un’altra maggioranza… Questo è l’ultimo governo di legislatura in cui sono premier». Quindi potrebbe esserlo nella prossima.

Al di là di chi dice il vero e chi no, non c’era bisogno delle presunte indiscrezioni per sapere che questo governo è nato con la volontà di rompere l’inizio di una possibile area progressista, con Zingaretti che stava portando il Pd verso posizioni socialiste rispetto agli anni in cui Renzi lo aveva spostato a destra e Conte che stava traghettando un Movimento pieno di contraddizioni verso istanze di giustizia sociale e ambientale, alleandosi anche con LeU di Bersani & c. Per portare l’operazione a compimento, c’era bisogno che accettasse di fare il premier una figura autorevole come Draghi.

Come abbiamo già raccontato qualche mese fa, le elezioni del presidente della Repubblica hanno evidenziato le intenzioni di esponenti di spicco trasversali a tutti i partiti di riproporre il “modello Draghi” anche dopo le elezioni del 2023. Per farlo è necessario sabotare il M5S, privandolo di consensi e iniziativa politica (e ci stanno riuscendo benissimo) e drenare consenso anche a Meloni (ci stanno riuscendo malissimo). In più, bisogna sperare che l’elettorato rimanga immobile, con un’astensione alta più o meno come quella dell’ultima tornata. La guerra in Ucraina, che si è trasformata in una guerra di logoramento, non fa altro che acuire i posizionamenti politici.

Siccome qui però non ci interessano i destini personali né le simpatie o antipatie per i singoli leader, ma abbiamo a cuore chi attua la Costituzione con politiche concrete e chi propugna progetti di giustizia sociale e ambientale, denunciamo che il prossimo rischia di essere un Parlamento senza nessuna forza politica progressista che metta in primo piano i temi sociali.

Il campo largo del Pd di Letta è talmente largo da essere già scoppiato. Il disegno di Letta sarebbe quello di presentarsi con una coalizione disomogenea, proporsi come candidato premier mettendo insieme tutti: Renzi e Calenda che non vogliono Conte, Conte che si è separato da Di Maio, Di Maio irriso da Calenda, Bersani e Speranza che uscirono dal Pd in dissenso con Renzi. Un errore simile a quello che fece proprio Bersani nel 2013, quando si presentò alle elezioni in coalizione con Monti e Vendola, cioè il premier dell’austerità e il suo oppositore. Non si capisce poi perché un governo dell’ammucchiata, dove c’è tutto e il suo contrario, debba essere guidato da Letta, visto che può farlo benissimo un tecnico come Draghi. O se Draghi non sarà disponibile, qualcun altro come Cottarelli, una scelta super partes che possa permettere a politici che nulla hanno in comune di dire che stanno al governo insieme nel nome della “responsabilità”, “dell’unità nazionale”, per le emergenze e altre formule retoriche che conosciamo.

Il Pd, tra l’altro, ha rinunciato da tempo alle istanze sociali, si potrebbe definire come il partito della stabilizzazione, un partito che garantisce un governo sempre e con chiunque. Pur essendo sensibile ai diritti civili, pur avendo non pochi esponenti con una visione socialdemocratica (Orlando, Provenzano, Fiano), rischia di apparire se non di essere già di fatto un partito conservatore (basta vedere la geografia elettorale), il partito dell’establishment. Che beninteso, non sarebbe nemmeno un male in un sistema politico, se fosse affiancato da forze progressiste e di sinistra.

Il M5S rischia di avere esaurito la sua funzione politica e di estinguersi. Viene dato tra l’11,5 e il 10% nelle ultime rilevazioni dei sondaggi. A parte che il garante e fondatore del Movimento, ci riferiamo a Grillo, dovrebbe farsi da parte e sospendersi, visto che è indagato per traffico d’influenze, e invece continua a dare le carte come un Renzi qualsiasi. Ma poi, non si capisce cosa ci faccia Conte, che non merita un ruolo poco dignitoso da “commissariato”. Se vogliono provare a sopravvivere, i 5 stelle e Conte dovrebbero uscire dal governo non domani ma oggi e rilanciare sui temi che questo governo non potrà mai affrontare: lotta all’evasione, politiche fiscali redistributive, dignità del lavoro, salario minimo legale, politiche ambientali e non greenwashing.

Lo stesso discorso vale per chi è rimasto a sinistra in modo quasi ininfluente. Articolo 1 di Bersani nei sondaggi non raggiunge il 3% e ancora valuta se rientrare o meno nel Pd. Sinistra italiana di Fratoianni ed Europa Verde di Bonelli annunciano di fondersi in un’unica lista. Capiamo che vengono da storie diverse, capiamo che rinunciare alla propria casa è sempre difficile, ma in una situazione del genere federarsi e unire le forze potrebbe essere l’unica possibilità di ottenere una manciata di seggi.

Insomma, Conte e quello che resta del M5S, Speranza e le altre liste di sinistra, le migliori e residue esperienze della società civile e del radicalismo civico (Elly Schlein) facciano gioco di squadra e si preparino a una sana e robusta opposizione. In attesa che il Pd faccia i suoi giri per i campi larghi e i campi stretti. Almeno ci sarà qualcuno, con una recessione alle porte e un crescente impoverimento, che si occuperà proprio di chi non vota. Una democrazia che non si occupa più dei conflitti sociali è disfunzionale.

È oggettivo constatare, tra l’altro, come ogniqualvolta in Italia si stato prefigurato un progetto politico progressista – unendo le forze di sinistra al migliore cattolicesimo riformista e solidale – una serie di vicende interne ed esterne al Paese hanno cambiato traiettoria e il corso della storia. È successo a Prodi, impallinato prima da estrema sinistra e poi dalle “mastellate” centriste. Era capitato in modo drammatico, anni prima, con la vicenda Moro.

Guardare Esterno Notte di Marco Bellocchio sulla tragica evitabile fine di Aldo Moro è insieme una lezione di cinema e una di documentazione giornalistica e storia contemporanea. Moro fatto passare per pazzo, mentre invece era lucidissimo e attaccato alla vita nella prigionia delle Br. I servizi segreti che confezionano un documento falso delle Br per annunciare la morte di Moro e “preparare” l’opinione pubblica. Moro “fulcro da sacrificare per salvare l’Italia” secondo Pieczenik, il consulente del governo americano a colloquio in quei giorni con Cossiga. Tutto pur di non salvare Moro e il suo disegno politico di dare legittimazione democratica a chi aveva contribuito a scrivere la Costituzione repubblicana ma non poteva stare al governo. Da allora, i partiti politici sono una slavina.

Credit immagine: Luigi Di Maio, Commons Wikimedia, Creative Commons Attribution 3.0 Italy



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