Scuola e questione femminile in tempi di pandemia

La crescente prevalenza femminile nel settore dell'istruzione conferma la marginalità e la subordinazione della condizione delle donne e della stessa istituzione scolastica.

Fausto Pellecchia

In tempi di pandemia, una delle questioni più dibattute nella comunicazione politica, e puntualmente rilanciate dall’opinione pubblica mainstream, concerne l’apertura o la chiusura delle scuole pubbliche in relazione agli indici di contagio. Mentre si susseguono con ritmo incalzante le diatribe pseudo-pedagogiche sui bisogni educativi degli allievi (dalla prima infanzia fino all’adolescenza) e sulle loro legittime esigenze di socializzazione, frustrate dalla mancata didattica in presenza, emerge – quasi soltanto attraverso involontari lapsus linguae – il vero nocciolo della questione. Opportunamente mistificato e rimosso dietro l’ipocrita preoccupazione per il deficit formativo delle giovani generazioni, provocato dalla chiusura temporanea delle scuole e assolutamente incolmabile attraverso le sperimentazioni della didattica a distanza, affiora incidentalmente l’autentico problema dirimente, di natura propriamente logistica, che attiene alla vita dei genitori, interamente assorbita nei dispositivi della macchina produttiva del Paese. Nella sua più asciutta e cruda formulazione, la questione può essere così enunciata: a chi lasciare in custodia i figli, mentre gli adulti sono impegnati nelle loro attività lavorative (sia in presenza che in smart working)? A chi affidarli, quando i nonni o i parenti e affini sono indisponibili, assenti o troppo distanti? Si tratta, dunque, di un problema tutt’altro che educativo o psico-pedagogico, bensì radicalmente pratico-gestionale: la scuola è chiamata ad assolvere il ruolo surrogatorio di un’anonima baby sitter o di una badante, i cui costi non potrebbero gravare sui già dissestati bilanci familiari. È questo il punto dolente che si cela dietro la chiacchiera giornalistica sulla funzione primaria e insostituibile dell’istituzione scolastica nella formazione dei giovani – che in realtà non interessa nessuno da molti decenni: non i governi, non le famiglie e neppure la stragrande maggioranza dei docenti. Questi ultimi sono peraltro le vittime designate della retorica istituzionale che oggi insiste sul ruolo primario della Scuola nella formazione dei giovani, sulla missione educativa fondamentale che il corpo insegnante è chiamato a svolgere per le magnifiche sorti e progressive dell’intero Paese. Si tratta dell’alibi parolaio e mistificante, già ampiamente collaudato dalle mille sigle dei sindacati della scuola, di concerto con le dozzine di governi (di centrodestra e di centrosinistra) che si sono succeduti a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, per occultare la crescente dequalificazione della funzione docente al fine di calmierare i salari dei lavoratori della Scuola, che a tutt’oggi sono tra i più bassi d’Europa.

In questo senso, drammatica congiuntura della pandemia rappresenta la cartina di tornasole dei veleni ideologici disseminati nella catechesi pedagogica del corpo docente per coprire la miseria professionale e salariale che lo affligge, lasciando finalmente emergere la funzione puramente assistenziale, in chiave di custodia e di babysitteraggio domestico dell’istituzione scolastica.

Non è casuale che, nelle discussioni mediatiche sulla mancata parità di genere nel ceto dirigente, venga sistematicamente sottaciuto un dato in apparente controtendenza. Mentre in tutti i ruoli dirigenziali nei vari settori della società (in politica come nelle alte sfere dell’amministrazione pubblica e privata, nelle libere professioni, nel management imprenditoriale, ecc.) la parità di genere, a causa della ridotta presenza delle donne, è ancora un’utopia, nella Scuola italiana si assiste ad una crescente, inarrestabile, prevalenza delle donne nei ruoli della docenza e delle funzioni dirigenziali. Così come tipicamente femminili sono da sempre le mansioni di baby sitter e di badante.

In Italia le donne rappresentano l’83% dell’intero corpo docente (circa 730mila docenti). La disparità aumenta con il decrescere del grado: secondo i dati del Ministero dell’Istruzione degli 87.701 insegnanti titolari di cattedra di scuola d’infanzia, i maschi sono 612, lo 0,7%. La percentuale di insegnanti maschi sale al 3,6% su 245.506 alla primaria, mentre alle medie gli uomini rappresentano il 22% dei 155.705 totali. Sale la quota azzurra nei licei e negli istituti superiori, dove le donne rappresentano comunque il 66% degli oltre 241mila insegnanti. Anche nel comparto educativo della formazione professionale, si assiste ad un processo di femminilizzazione, sia pure con numeri più contenuti. I risultati di un’indagine pilota condotta da un gruppo di ricercatori INAPP] restituisce la distribuzione per genere degli intervistati: il 60% è composto da donne, il 40% da uomini (751 donne e 499 uomini), un dato che merita di essere analizzato in comparazione sia con indagini precedenti sulla stessa popolazione sia con il settore dell’istruzione. Ma nei ruoli della docenza universitaria la presenza femminile tocca appena il 38%, fino a ridiscendere drasticamente per la dirigenza apicale nel governo delle università, dal momento che in Italia solo 7 donne su 84 svolgono le funzioni di rettore.

A questi dati, va aggiunto il nutrito elenco delle ministre che si sono succedute al Ministero della Pubblica Istruzione negli ultimi 15 anni, da mettere a confronto con gli inadeguati investimenti per il comparto Scuola, sia nella ripartizione dei fondi previsti nelle rispettive leggi finanziarie, sia sul piano del potere decisionale concesso loro nei vari C.d.M (di centro-destra e di centro-sinistra) in relazione alle proposte di riforma complessiva del sistema scolastico italiano.

I principali motivi, troppo spesso sottaciuti o rimossi, di tale eccezionale squilibrio di genere sono essenzialmente due, entrambi assai poco esaltanti sia per l’universo femminile che per la situazione della Scuola italiana:

1) la professione dell’insegnante, a causa del basso livello retributivo (che colloca l’Italia nel fanalino di coda dell’Ue) viene demandato alla donna, in quanto può e deve, necessariamente, conciliarlo con le cure domestiche di moglie e di madre – quando non possa accollarsi il salario di altre lavoratrici come le baby sitter o le badanti

2) L’impegno richiesto dalla professione insegnante – opportunamente e furbescamente decurtato del tempo dedicato all’ aggiornamento professionale, alla preparazione delle lezioni, alla correzione degli elaborati, nonché alle frequenti riunioni dei consigli scolastici e con le famiglie degli allievi- presenta un orario teoricamente compatibile con l’assolvimento dei compiti di gestione domestica.

Pertanto la femminilizzazione della Scuola, lungi dal rappresentare una conquista civile e un avanzamento nella questione femminile in un settore che, con abile e vuota retorica, viene considerato strategico per il progresso sociale del Paese, è piuttosto la triste conferma della marginalità e della subordinazione della condizione delle donne e della stessa istituzione scolastica. Una conclusione che, ancora una volta, dimostra l’urgenza di un discorso di verità sulla scuola e sulla questione femminile, come premessa e condizione per affrontare in termini di realtà politica la questione della parità di genere e della priorità della Scuola nell’adempimento dei diritti di cittadinanza.

 

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