Istruzione e merito

La storia di Carlo e quella di Annamaria. Due storie che dimostrano come la scuola non sia uguale per tutti. Parlare oggi di merito nella scuola dell’obbligo non può essere disgiunto dal riaffermare con forza il tema dell’uguaglianza.

Piero Martin

Carlo ha 13 anni ed è in terza media. Un viso da bambino su un corpo magro, e naturalmente – come tutti i ragazzi della sua età – ha fame, tanta. Ma all’intervallo non ha mai la merenda, per pranzo pochi spiccioli che non bastano neppure per una fetta di pizza al taglio e dopo la scuola deve andare direttamente al campo sportivo per l’allenamento, con troppo poco cibo nello stomaco. Annamaria invece è in prima media, abita nella lontana periferia e la scuola le piace.  Per andarci alla mattina si alza alle cinque e parte da casa con i genitori, che vanno al lavoro presto. Il pomeriggio, fino a sera, lo passa nel minuscolo retrobottega del negozio dove la mamma lavora.

Carlo e Annamaria son nomi di fantasia, ma le loro storie sono reali. E non appartengono a un lontano passato, ma sono accadute in questi anni, in una scuola della prima periferia di una grande città italiana. Me le ha raccontate una professoressa, e non sono così rare come si potrebbe pensare. Storie in cui la scuola non è uguale per tutti. E ci ricordano che parlare oggi di merito nella scuola dell’obbligo non può essere disgiunto dal riaffermare con forza il tema dell’uguaglianza. Lo sintetizzò bene circa una sessantina di anni fa il presidente statunitense Lyndon B. Johnson, che riferendosi alle disparità razziali che affliggevano allora l’America raccontò questa storia: «Immaginate una corsa di cento metri in cui uno dei due corridori ha le gambe legate tra loro. Dopo la partenza quando lui ha percorso dieci metri, l’altro ne ha corso cinquanta. A quel punto i giudici decidono che la gara è ingiusta. Come sistemano la situazione? Si limitano a rimuovere i legacci e consentire alla gara di procedere? Così si potrebbe dire che ora sono in condizioni di “pari opportunità”. Ma uno dei corridori sarebbe ancora quaranta metri più avanti dell’altro. Non sarebbe più giusto permettere al corridore che in precedenza aveva le gambe legate di recuperare il divario di quaranta metri, e quindi di ricominciare la gara da capo? Sarebbe un’azione positiva per l’uguaglianza». Annamaria e Carlo, e tanti come loro, partono con le gambe legate.

Nel 2022 la scuola italiana ha ancora un grosso problema di eguaglianza, e a farne le spese sono i più poveri. Ne parla efficacemente il documento L’anello debole. Rapporto 2022 su povertà ed esclusione sociale in Italia pubblicato il 17 ottobre dalla Caritas in occasione della Giornata internazionale di lotta alla povertà. Il testo prende in esame le statistiche ufficiali sulla povertà e i dati di fonte Caritas, provenienti da quasi 2.800 Centri di Ascolto su tutto il territorio nazionale. Da essi emerge come vi sia ancor oggi una forte trasmissione intergenerazionale dei livelli di istruzione, che è conseguenza e allo stesso tempo causa di quelli che il rapporto chiama “pavimenti appiccicosi”, metafora per indicare il tramandarsi della povertà di generazione in generazione e una grave immobilità sociale che caratterizza la nostra società, dove troppo spesso i figli dei poveri rimangono poveri. L’istruzione è uno tra i principali elementi che favoriscono la mobilità sociale. Lo avevano ben chiaro padri costituenti come Aldo Moro o Pietro Calamandrei, tra gli artefici dell’articolo 34 della nostra Carta. Quest’ultimo disse «A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale».

Oggi però, a settantacinque anni di distanza, i dati Caritas riconfermano che c’è «un forte legame tra disagio economico e bassi livelli di titoli di studio. L’istruzione media degli assistiti è di fatto medio bassa», aggiungendo che «si rafforza nel 2021 la consueta correlazione tra stato di deprivazione e bassi livelli di istruzione». Il rapporto prosegue analizzando la correlazione statistica esistente tra gli anni di scuola di persone beneficiarie di aiuti della Caritas e quelli dei loro genitori, che viene ritenuta esplicativa di quelli che possono dirsi i condizionamenti della famiglia di origine. La correlazione è molto elevata e, come viene rilevato «l’incidenza dei possessori di licenza media appare più marcata proprio in corrispondenza di genitori con titolo elementare o con la stessa licenza media».

Una fotografia della realtà italiana purtroppo in linea con quella prove niente da altre indagini, come ad esempio quella Istat del 2020 sulla povertà in Italia, che evidenzia come «istruzione e livelli occupazionali migliori proteggano le famiglie dalla povertà» e che «la diffusione della povertà diminuisce al crescere del titolo di studio. Se la persona di riferimento ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore l’incidenza è pari al 4,4% mentre si attesta al 10,9% se ha al massimo la licenza di scuola media (entrambe le modalità in crescita rispetto al 2019)».

Situazioni di disparità che permangono nel tempo. Già nel 2014, ad esempio, dai dati Istat emergeva  come  i ragazzi figli di genitori con titoli di studio più elevati abbandonassero gli studi assai meno rispetto ai figli di chi ha frequentato solo la scuola dell’obbligo: il tasso di abbandono scolastico era infatti del 2,7 per cento per i figli dei laureati e del 27,3 per cento per i figli di chi ha la scuola dell’obbligo.

Ecco allora che associare le parole istruzione e merito è qualcosa che va fatto con grande prudenza, ricordando che  l’articolo 34 della Costituzione  prevede che «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» e che «La Repubblica rende effettivo questo diritto». L’articolo 3 afferma poi che «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Se si vuol parlare di merito occorre che ciò sia imprescindibile dall’uguaglianza dei punti di partenza, e quindi in maniera molto concreta. E se oggi ancora tanti purtroppo partono quaranta metri indietro, per restare con l’esempio del presidente Johnson, un’efficace politica scolastica deve avere come obiettivo prioritario quello di riconoscere e colmare questa distanza. Nei fatti, non a parole. La modernizzazione dell’Italia passa attraverso una scuola più uguale e un diritto allo studio – non astratto, ma fatto di strumenti, scelte, risorse – veramente tale. Lo studio è infatti un’azione che non può essere inibita o sottratta a nessun essere umano e in tal senso è un diritto fondamentale che va addirittura oltre l’emancipazione che garantisce. La politica deve mettere la scuola al centro, senza  privarla delle necessarie risorse come troppo spesso è accaduto finora, occorre evitare scelte che promuovano astrattamente il merito e che magari puntino all’eccellenza di risultati invece che a quella “eccedenza” generativa di cui parlano le studiose Giuditta Alessandrini e Marina Santi e che è invece condizione essenziale perché la creatività si riproduca ed emergano i valori e le aspirazioni di tutti e la corresponsabilità verso gli esiti comuni. In altri termini perché ci sia vera democrazia.



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