Sentenza Ilva: le responsabilità di Nichi Vendola e il ruolo della società civile

La sentenza della Corte d'Assise di Taranto, che tra l'altro condanna Nichi Vendola per concussione aggravata, rende omaggio a quella parte della società civile che è stata in prima linea nel perseguire il bene pubblico.

Antonia Battaglia

La prima reazione all’annuncio della sentenza di primo grado emessa dalla Corte d’Assise di Taranto per il processo “Ambiente svenduto”, sulle irregolarità nel controllo ambientale dello stabilimento ex ILVA di Taranto, è stata di gioia. Per la dignità resa alla lotta ambientalista della città, per il riconoscimento dei suoi morti, dei danni morali e dei decenni di proteste pacifiche e di tormenti sociali di fronte alla scelta malvagia in cui Taranto è stata lasciata sola: vita o lavoro, fame o salute. Una scelta che non avrebbe mai dovuto esistere, i due diritti fondamentali alla salute e al lavoro sono la base della Costituzione italiana.

Non importa che si tratti di un primo passo, quello che conta è che c’è stato, che si sia sancita una verità giudiziaria, senza equivoci. Adesso esistono un punto di arrivo, la sentenza, e uno di partenza, il dopo, definiti, netti, dettagliati nelle diverse declinazioni delle azioni che gli attori del dramma Ilva hanno commesso e per cui sono stati condannati.

Tra di essi, oltre a Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’azienda, c’è Nichi Vendola, ex presidente della Regione Puglia, condannato a 3 anni e mezzo di carcere per concussione aggravata. Subito dopo la sentenza, Vendola ha dichiarato che il verdetto calpesta la verità, che le sentenze ingiuste si appellano e che questa non è solo ingiusta ma è una barbarie.

Vendola è accusato di aver esercitato pressioni sull’allora direttore dell’Arpa Puglia Giorgio Assennato quando il benzo(a)pirene, inquinante cancerogeno, aveva superato i limiti di legge nel quartiere Tamburi, adiacente allo stabilimento Ilva.

Le parole di Vendola testimoniano di una doppia mancanza: quella morale del leader politico e quella tecnica dell’amministratore della regione. Nella sua intervista al Corriere della Sera del 1° giugno, Vendola lascia trasparire una nota di critica a una giustizia che chiama spettacolarizzata, rea, nelle sue parole, di aver sporcato la sua limpida storia politica, forse dimenticando le risate al telefono con Archinà e le sue parole di stima per Riva.

Perché, se come leader morale Vendola avrebbe dovuto incarnare quel cambiamento in cui tutti avevamo sperato, come amministratore avrebbe dovuto premurarsi di proteggere cittadini e operai di Taranto contro ogni possibile violazione dei limiti di legge ad opera di Ilva.

Da quanto si ricava dai dati presentati durante il processo “Ambiente Svenduto” da Peacelink, il presidente della Regione era a conoscenza degli sforamenti di un inquinante cancerogeno come il benzo(a)pirene misurato dall’Arpa al quartiere Tamburi e avrebbe dovuto esigere dalla dirigenza Ilva la messa a norma dello stabilimento o il fermo degli impianti. Né si oppose alla pessima Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) che permise all’Ilva di continuare a stoccare i minerali all’aria aperta e di aumentare la produzione, fino a consentire una capacità produttiva mai raggiunta prima.

La domanda, a sentenza disposta, è perché Vendola non si sia rivolto alla magistratura di fronte a una situazione così grave e abbia preferito dialogare con Riva per di più attestando di stimarlo. Avrebbe potuto fare molto. Avrebbe potuto essere il motore di quel cambiamento politico che non c’è stato e che non ha mai trovato risposte nella politica regionale e tantomeno in quella nazionale, ma che invece è partito dalla società civile tarantina e che è stato compiuto dalla giustizia. La giustizia non è finita oggi, la giustizia era finita nel 2012 quando, dopo il fermo degli impianti inquinanti disposto dal gip Patrizia Todisco, si procedette a un decreto “salva-Ilva” per riaprire gli stessi impianti nonostante il grave danno alla salute.

Ci sono altre dimensioni che la sentenza della Corte d’Assiste solleva e pone alla ribalta, come se Taranto fosse di nuovo il campanello di allarme di una situazione più ampia, di un laissez-faire generale che ogni governo, uno dopo l’altro, ignora, poi minimizza, quindi rimanda. Una lunga lista di appuntamenti mancati con la storia. Adesso però si tratta di Storia con la s maiuscola. Perché se si arriva a immaginare di stanziare fondi del Recovery Fund per il ponte sullo stretto di Messina, opera che deturperebbe il paesaggio e i cui presupposti benefici (migliorare gli scambi tra Sicilia e Continente) potrebbero essere raggiunti con il potenziamento delle linee ferroviarie al di là e al di qua delle due sponde, allora si spera che la Storia stavolta passi da Taranto, e che quel rilancio verde, la riconversione a tutto campo di cui si discute da decenni, possa avvenire.

Il mondo post Covid-19 cambia le sue priorità e forse sarebbe il momento (lo è da decenni) di coinvolgere la città (con tutte le sue anime e le sue diverse parti) nella decisione sul suo futuro. Una classe politica avvisata, moderna nelle sue idee e nell’immaginare soluzioni di bene pubblico che vadano ben oltre gli effimeri – per natura – equilibri politici, potrebbe fare di Taranto la pietra miliare di quel rinnovamento verde di cui la Commissione europea ha fatto la propria bandiera e sulla quale si costruiscono i valori dell’Europa verde, digitale, della ricerca e della scienza.

Per finire, una nota di speranza. Il ruolo della società civile è sempre più centrale nelle comunità moderne nel dar forma e sostanza alla politica. I grandi movimenti di cambiamento per il riconoscimento dei diritti sociali, delle eguaglianze e per la protezione dell’ambiente sono tutti partiti dal basso e hanno spesso incontrato la resistenza di un potere sovente distante e poco incline a cedere il passo al nuovo.

È accaduto a Taranto. Accade, con modalità e in situazioni politiche diverse, in tanti Paesi europei. La Conferenza sul Futuro dell’Europa, inaugurata il 9 maggio scorso, mette i cittadini al centro, motore, anima e cuore di quello che si vuole un rinnovamento profondo della res pubblica europea. La sentenza rende omaggio a quella parte della società civile che è stata in prima linea nel perseguire il bene pubblico. Conoscitori del diritto, tormentati per decenni nella scelta tra lo stipendio a fine mese e il male oscuro prodotto dalla fabbrica, insultati dalla politica, lasciati indietro nella scala infinita delle possibilità concesse alla nascita a ogni essere umano.

Che il futuro adesso ricominci da questa sentenza memorabile e fino a qualche anno fa inimmaginabile.

(Le opinioni espresse in questo articolo sono personali ed esclusivamente dell’autrice e non coinvolgono l’organizzazione di appartenenza).

Credit immagine: ANSA.



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