Servant. Un viaggio nella psiche (e nella paranoia)

La serie tv di M. Night Shyamalan, giunta alla sua terza stagione, è la perfetta sospensione tra lo strano e il sovrannaturale.

Mario Sesti

A proposito di persone che hanno subito danni importanti: se penso a film come Il sesto senso o The Village, potremmo dire forse che è uno dei temi costanti del suo cinema.
«Ciò che mi interessa davvero è il fatto che queste persone passino attraverso traumi così forti che superarli significa inevitabilmente affrontare un cambiamento radicale come una rinascita. Sono come delle fenici che devono rinascere dalle proprie ceneri».

Questa domanda e la sua risposta sono tratti da una intervista che ebbi, in esclusiva, per L’ Espresso, nel 2017, con M. Night Shyamalan, l’autore del supernatural thriller di maggior successo della storia del cinema, Il sesto senso: è un regista che all’inizio del 2000 veniva citato da Time come il vero erede di Spielberg. Shyamalan è produttore di una serie, The Servant, in streaming su Apple Tv, giunta alla sua terza stagione. Come quasi sempre accade anche nel suo cinema, è una serialità che gravita intorno a misteri che sfidano ogni forma di verosimiglianza e razionalità. La coppia protagonista accoglie in casa una tata, una ragazza di 18 anni, per il proprio bambino. Il primo mistero che aleggia sin dalle prime inquadrature è (ATTENZIONE, spoiler: ma si tratta di qualcosa che viene svelato sin dalla prima puntata): per quale ragione il bambino ha una espressione fissa, irreale, perturbante e viene spesso inquadrato con il volto fuori campo?  In realtà non si tratta di un bambino vero e proprio ma di una bambola che fa parte di una “terapia oggettuale transitoria” prescritta da una terapeuta: la coppia protagonista ha perso il figlio, Jericho, di 13 mesi (in circostanze colpose), e la sostituzione del bambino con un “animatronic” dovrebbe alleviare e posporre il trauma del lutto perché la madre, Dorothy, che ha completamente rimosso, o quasi, la morte del figlio, e le condizioni che l’hanno provocata, possa affrontarlo in condizioni psichiche migliori. Il danno psichico di Dorothy è tale, la sua rimozione così preoccupante, che il marito, d’accordo con la terapeuta, accetta questa finzione malsana e masochista. Lo spettatore si chiede subito se possa esistere una terapia del genere, se sia davvero prescritta e se davvero possa essere efficace (è un mistero, diciamo così, laterale), ma più o meno quando ci rendiamo conto della situazione accade l’inspiegabile: l’arrivo della tata trasforma la bambola in un bambino vero. Di quali poteri è dotata questa ragazza che sembra provenire da un contesto rurale dal quale ha assorbito una sorta di fondamentalismo biblico corredato da riti e amuleti stregoneschi?

Shyamalan, con i suoi film, si è dimostrato un maestro della letteratura fantastica, ovvero di quel tipo di narrativa, come ha spiegato Todorov in un celebre saggio, in cui l’inspiegabile è qualcosa che rimane in perfetta sospensione tra lo strano e il sovrannaturale: c’è una spiegazione, per quanto improbabile, che possa giustificare il ritorno di Jericho, vivo, in quella casa? Oppure si tratta, inequivocabilmente, di una forma di potere al di là delle leggi conosciute della natura che ha generato l’impossibile (il ritorno alla vita di un bambino morto)? È un punto importante. Il fantastico, da quando la nuova serialità, dagli anni ’90, ha invaso il nostro tempo libero, è diventato un genere quasi egemone. Perché? Forse proprio perché questo tipo di sospensione è in grado di garantire la lunga tenuta di una tensione, proprio ciò di cui la lunga serialità, che occupa numerose ore di racconto, ha bisogno (al cinema, per esempio, questo tipo di sospensione è praticato assai raramente senza essere prima o poi risolto per una delle due opzioni: mi viene in mente Picnic ad Hanging Rock). Non è un caso che all’origine della nuova serialità ci sia una serie come Lost che proprio grazie a questa sospensione ha tenuto in piedi il racconto di numerose stagioni.

In realtà Lost applicava Todorov ma anche Hitchcock, il quale, nel famoso libro conversazione con Truffaut, dimostrava con questo esempio quanto la verosimiglianza al cinema abbia parametri opposti a quelli della statistica: un uomo cade in un tombino, si rompe una gamba, non può risalire, scopre che nel tombino, aperto, ci sono lavori in corso e c’è un cavo dell’elettricità scoperto che gli penzola vicino al corpo, inizia a piovere e, naturalmente, il rumore del traffico di superficie copre qualsiasi suo tentativo di chiedere aiuto. L’accumulo di eventi incontrollabili quanto statisticamente improbabili, aumenta la sensazione di verità al cinema. Lost, facendo precipitare in un’ isola deserta i sopravvissuti di un disastro aereo, e mettendo a repentaglio la loro vita attraverso la scoperta nell’area in cui si trovano di animali feroci di altre aree geografiche, sette clandestine, comunità segrete, che popolano questa isola assente sulle mappe,  in un certo senso applicava la ricetta di Hitchcock. Shyamalan fa qualcosa del genere ma con una sensibilità spiccata per il metodo stesso del fantastico, il cui pensiero non detto è: un mistero è sempre più interessante della sua soluzione. Alla fine, come sa bene chi almeno un volta è rimasto ammaliato da qualcuno singolarmente abile nel raccontare una barzelletta o una storia, una delle competenze principali del narratore è quella di liberare con studiata riluttanza la completezza delle informazioni che caratterizzano il senso di una storia. Il sesto senso è diventato uno straordinario successo al botteghino perché molti spettatori hanno visto di nuovo il film per provare il piacere di rileggerlo alla luce della rivelazione finale che cambia completamente il senso della storia e il ruolo del protagonista Bruce Willis, e anche film come The Village o il bellissimo Unbreakable si basano su un meccanismo di questo tipo. In realtà, se si legge la raccolta di recensioni (complessivamente molto positive) a The Servant su Rotten Tomatoes, non è infrequente registrare segni di irritazione per questa parsimonia di risposte a domande di base che la serie, già alla terza stagione, continua ad adottare come strategia di racconto. Ma Shyamalan ha dichiarato che solo quando la serie avrà completato tutte e sei le stagioni ognuna delle numerose domande avrà una esauriente risposta.

Per il momento lo spettatore potrà godere di un mood gotico di impressionante nitidezza, di attori di spessore su cui si concentra tutta la sceneggiatura e su un dominio spietato della timeline della nostra tensione. Ci sono un sacco di misteri in The Servant e Shyamalan e l’autore dello script, Tony Basgallop, ne aprono i cantieri con una strategia a orologeria. I misteri più interessanti per me sono due. Il primo:  su quale versante della lotta senza quartiere tra Bene e Male si trova la giovane tata (la straordinaria Nell Tiger Free: che nome) che dona la vita a un bambolotto usato come controversa terapia? È al servizio di una sorta di remake di Rosemary’s Baby, ovvero di una società del male che punta a far crescere una sorta di anticristo o è la transfuga di una setta diabolica, una milizia di emissari demoniaci che la minaccia e la aggredisce e dalla quale cerca di nascondersi a Filadelfia presso la famiglia che l’ha assunta? Le numerose inquadrature metafisiche dall’alto, la fotografia espressionista ambra e nero di Michael Gioulakis, la concentrazione drammatica del quartetto di protagonisti in scena (oltre alla tata, Lauren Ambrose e Tony Kebbel, entrambi una scoperta, Rupert Grint, già, da bambino, amico per la pelle di Harry Potter), l’uso tradizionale, impeccabile, della musica da thriller ricca di effetti sonori, portano avanti senza cedimento la tensione crescente di ogni episodio di mezz’ora che al 26esimo minuto (dei 30 di ogni puntata), con una puntualità letale, ferisce lo spettatore con un colpo di scena. Tutto si svolge in questa dimora brownstone, vecchia di 175 anni, dove in cucina uno chef di grido sfiletta orate, spenna pollami e fonde dolciumi, mentre in cantina dormono grand cru e spiriti maligni e al piano alto Nell Tiger Free accudisce un bimbo e combatte un male oscuro che ha radici oltre la vita. Il leit motiv costante di pesci, maiali, cacciagione, frutti di mare (ma anche paste, leccornie, caramelle), che vengono puliti, squamati, frollati, affumicati, caramellati, arrostiti, in questa casa dove abita qualcosa che non sembra proprio appartenere alla natura, è un chiaroscuro metaforico e stilistico non privo di effetto. L’invisibile si accompagna in scena con la presenza continua di corpi e sostanze che saturano i nostri sensi: la vista, il tatto, il gusto. Lo straordinario compare nel vissuto domestico e ordinario di una famiglia dove l’alimentazione è una festa quotidiana della fisicità, un teatro ridotto al suo quadrante essenziale: una casa, quattro personaggi principali, una teoria quotidiana di piatti da masterchef.  Riuscirà, senza alcun effetto speciale digitale, questo quartetto afflitto da claustrofilia più che da claustrofobia, a liberarsi del lutto, della colpa, della serratura a chiave della rimozione di un trauma insopportabile? Cosa c’è, nelle persone che subiscono dalla vita danni importanti che le rende preda del sovrannaturale? È l’altro mistero che trasforma le ombre di Filadelfia, dove è ambientata la serie (e dove è cresciuto Shyamalan), in quelle della Vienna di Freud.



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