Siamo effimeri, e sappiamo di esserlo

Come affrontare il peso della finitudine? Nel primo romanzo di Telmo Pievani un dialogo immaginario tra lo scienziato Jacques Monod e il filosofo Albert Camus.

Teresa Simeone

Crollerà la macchina del mondo. Per tanti anni sorretta, in tutta la sua mole crollerà. I mari, le terre e il cielo andranno in rovina in un sol giorno, un sol giorno non così lontano da non poter essere prefigurato. Tra immani cataclismi, altri occhi vedranno in breve tempo sfracellarsi ogni cosa. Ecco la visione poetica di Lucrezio. Chiediamoci dunque: che ne sa la scienza al riguardo, duemila anni dopo?

Sa che la Terra è vecchia”. Inizia così “Finitudine”, il primo romanzo di Telmo Pievani, edito da Raffaello Cortina Editore.

Il libro nasce da una finzione letteraria: un dialogo mai avvenuto tra uno scienziato, Jacques Monod, e un filosofo, Albert Camus. Accomunati dalla medesima tensione ideale, dalla volontà di combattere le ingiustizie e dalla necessità di concretarla nell’azione, con la forza di un’intelligenza che si fa etica e la coerenza di un impegno espresso anche nella lotta di Resistenza contro il nazifascismo – poetiche sono le pagine in cui è ricordato il martirio dei partigiani che, pur non credendo nella resurrezione, hanno sacrificato l’unica vita che avevano – questi due pensatori “meridiani”, grazie a un artifizio narrativo che altera tempi e accadimenti, sono accostati per consentire il progetto di un libro a due mani, “la fusione meticcia di due linguaggi diversi.

Pievani immagina, infatti, che nel tragico incidente in cui in realtà persero la vita Gallimard e Camus, il secondo si sia salvato e che discuta in ospedale con l’amico scienziato. S’intravede il desiderio di raccontare il percorso di due compagni di viaggio, uniti da una profonda stima, che rappresentano la lettura umanistica, di un umanesimo che è scientifico, socialista ed esistenzialistico, di Pievani stesso. Non solo: il libro è intessuto di continui richiami filosofici che ne arricchiscono la trama e stemperano il rigore del linguaggio scientifico con cui si cerca di spiegare il difficile cammino dell’evoluzione e l’irrompere casuale della vita sul nostro pianeta.

Attraversato da un sotterraneo fiume speculativo che cresce sulle riflessioni, non tutte esplicitate, di un Democrito, di un Eraclito, di un Platone, di uno Schopenhauer, di un Bruno, di un Montaigne, di un Leibniz, di un Pascal, riprende, riassume e rilancia la visione filosofica epicurea nello sguardo laico e aperto di Lucrezio, che domina, da più di venti secoli, sulla struttura del mondo e sul destino dell’uomo, sottraendolo all’inganno di un finalismo inapplicabile e alla consolazione di una trascendenza inconsistente.

Il caso e la necessità, che è anche il titolo dell’opera che Monod pubblicherà undici anni dopo i tempi in cui è collocato il romanzo, reggono l’universo e sono all’origine della vita sulla Terra. Una vita caratterizzata dalla finitudine: implacabile, imprescindibile, inevitabile. Ma anche necessaria, dal momento che tale drammatica ineluttabilità è la condizione per apprezzare l’unicità e la dignità dell’esistenza umana. “Alla diade – propone Camus – manca un elemento, la libertà, e diventa la nostra triade, Jacques (p. 63).

Tra il caso e la necessità si pone, dunque, la libertà, ontologicamente giustificata da una deviazione nella traiettoria degli atomi quasi impercettibile, sufficiente, comunque, a spezzarne il determinismo, secondo l’intuizione di Epicuro che la indicava con parénklisis e che Lucrezio traduce con clinamen.

Tale cambiamento di direzione, introdotto per consentire, sul piano fisico, l’incontro tra atomi e per salvare, sul piano etico, la libertà dell’uomo, diventa, nel superamento della ferrea necessità democritea, un elemento centrale anche nel dialogo tra il filosofo e lo scienziato. È il punto d’incontro e di raccordo che consente, da un lato, di conservare il rigore della teoria scientifica e, dall’altro, l’imprevedibilità dell’accidente “uomo”, riconosciuta dalla riflessione filosofica, la cui radice è nella consapevolezza peculiare dell’animale metafisico di schopenhauriana memoria. È il pensiero della morte che spinge a interrogarsi, a chiedersi quale sia l’essenza ultima della vita, ad avviare l’analisi. Dolorosa, ma imprescindibile.

La trama è intessuta di biologia e filosofia che s’intersecano e interagiscono continuamente, a dimostrare come, in fondo, l’essere umano, questo “impasto inestricabile di virtù e abiezione” (p. 249), non possa ridursi solo a natura o a cultura ma sia l’una e l’altra insieme, particella materiale percorsa, però, da qualcosa che la rende unica e irripetibile, e cioè la coscienza di sé, la consapevolezza di un essere finito in un universo infinito.

Scienza e filosofia si attraversano, dialogano tra di loro, superando steccati disciplinari inutili ed escludenti; d’altronde, ricorda Pievani, una volta la scienza si chiamava filosofia naturale.

La scienza, continua Pievani-Monod-Camus, è sovversiva perché, nello smontarle, si rivolta contro le certezze acquisite, contro la tradizione, contro i suoi stessi maestri. Il suo compito non è consolare ma spiegare. Lo scienziato ricerca, scompone teorie, prova e riprova, corregge e si corregge, in un estenuante ma connaturato bisogno di verità. È un eretico, un dissidente, un rivoltoso. È un distruttore e ricostruttore: il suo lavoro è fatica di Sisifo.

Certo, non è facile acquisire il dato di una finitudine che è del Sole, della Terra, di noi stessi. Nel caso dell’uomo, poi, c’è qualcosa che rende più dura la sua condizione: siamo effimeri, e sappiamo di esserlo.

Per noi dunque, la finitudine è insopportabile, se non speriamo in un altro viaggio: può bastare la fiducia nella ragione a superare il timore della morte, a permetterci di “lasciare questa vita come banchettanti felici dopo una festa”? In realtà, anche Lucrezio, ricorda Pievani, ammette che questa verità è troppo amara da accettare e che vada edulcorata: “L’acre assenzio di questa dottrina, che sembra troppo tetra per l’animo umano a chi non la pratica, va addolcito con il miele della poesia” (pp. 51-52).

Privi di speranze trascendenti, orfani di un dio che ci rassicuri, immersi nella nostra contingenza, sarebbe facile arrendersi oppure, di fronte allo spettacolo doloroso ma non meno ingiusto della nostra finitudine, avere uno scatto, “una presa di coscienza, un moto di insurrezione, un’impazienza, una resistenza che scopriamo dentro di noi irriducibile. Dunque, rivoltiamoci contro la nostra condizione, così come ci rivoltiamo contro un oppressore” (p. 61).

Assume valore umanistico la rivolta, che ci fa spezzare le catene di una condizione assurda e ci riporta, noi esseri fragili, in mezzo agli altri esseri fragili che abitano questo pianeta.

Come continuare a vivere? Come affrontare il peso della finitudine? Non col nichilismo né col cinismo e men che meno con la rassegnazione e il suicidio: l’unica via percorribile, propone Pievani, è nel farsi carico dell’assurdo e dell’inquietudine, nel sobbarcarsi “le fatiche di Sisifo della scienza, dell’etica e della convivenza umana” (p. 276), nel vivere fino in fondo la nostra comune condizione, nella libertà della solidarietà. La solidarietà della finitudine. La finitudine del Noi.

 

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