“Siccità” certamente, ma la dimensione laica della catastrofe?

Virzì e i suoi sceneggiatori mancano l’occasione di una Spoon River contemporanea, acida, spietata e senza appello.

Flavio De Bernardinis

Il nuovo film di Paolo Virzì, scritto con Francesca Archibugi, Francesco Piccolo e Paolo Giordano, Siccità, film corale, tenta un mix di commedia, dramma, satira e film catastrofico, o distopico come si usa oggi.

Roma, Italia, è preda di una terribile siccità. Il Tevere è a secco, e il territorio è preda di blatte e scarafaggi che diffondono una terribile epidemia. I mass media vampirizzano il dolore della popolazione, le istituzioni sanitarie affrontano in trincea il terribile nemico, le popolazioni di periferia gridano alla dittatura, artisti e scienziati custodiscono gelosamente un ego ormai improduttivo, i ricchi industriali difendono con i denti i propri privilegi.

All’interno dell’affresco, non mancano elementi riguardanti il crimine contro le donne, il razzismo verso gli extra comunitari, l’orrore dei social media, il tramonto dei valori della solidarietà e della condivisione, il baratro insondabile che si apre tra le generazioni.

La tradizione della commedia italiana certo consente di affrontare imprese come questa. Il comico nazionale è da sempre un sistema integrato di orrore e ridicolo, di crapula e morte, di generosità e cinismo.

Stavolta, però, l’aspetto catastrofico, siccità ed epidemia, cala un velo di sconforto e amarezza, che smorza il ridicolo, rende palese sin da subito la satira, fa girare un po’ a vuoto il sarcasmo.

Il punto su cui discutere è la questione del personaggio. Ripensiamo al cinema italiano e la sua storia, almeno sul versante del genere comico-satirico. Chi è, o meglio cosa è il personaggio italiano? Lo ha ribadito sovente Monicelli: su un fondo cronico, e storico, di miseria, il personaggio italiano è un misto di vitalismo animale, il Centauro di Machiavelli, e di integrale irrecuperabilità al senso civico e ai valori morali, il tipo del picaro, sempre di matrice medievale-cinquecentesca. Metà bestia, puro istinto e fiuto, e metà escluso, già morto, morto per la comunità, la società, la civiltà.

Quale, adesso, il contesto in cui il personaggio si muove?

Nel suo Lo sguardo inquieto – Storia del cinema italiano 1940 – 1990, Fernaldo Di Giammatteo analizza le radici del cinema italiano ponendo la questione dello scontro/incontro tra “le sinistre da una parte, con l’ideologia della ‘fratellanza di classe in tutto il mondo’, accoppiata alla diffidenza verso il neocapitalismo, e i cattolici dall’altra, ‘fautori di uno sviluppo economico senza trasformazione sociale’” (p. 160).

La tradizione italiana pone così un tipo che è metà bestia, tutta vita, e metà sopravvissuto, sopravvissuto alla vita stessa, nell’agone del catto-comunismo, lo scontro tra le due ideologie dominanti. Da tale crogiolo di contraddizioni esce fuori il cinema di Risi, Monicelli, Scola, Comencini, che sarà magari un cinema volgare, nazional popolare e quant’altro, ma certamente è un cinema laico, che si fa beffe di tutte le parrocchie possibili.

Che ne resta di tutto ciò?

Siccità manca l’occasione di ribadire e rafforzare, e anche al limite rovesciare lo schema. I personaggi del film, più di venti, potrebbero in fondo essere tutti miserabili, sopravvissuti e animali, ma tale aspetto da Antologia di Spoon River, trenodia laica, è totalmente mancato.

Siccità è un racconto privo di contraddizioni, che affiorano ma non filtrano: la contraddizione dell’inaridimento della vitalità animale italiana, la miseria cronica della sopravvivenza, a contatto con la catastrofe in atto. Ma la catastrofe alla fine non c’è, e la folla di personaggi è l’esempio di un’umanità assolutamente umana, che non sa né vivere né morire. Questo sarebbe il tragico, forse, ma allora ci vuole ben altro che Siccità.

Secondo lo schema, anche senz’acqua, gli italiani sarebbero e resterebbero comunque animali da sopravvivenza, ma il politicamente corretto qui prevede il personaggio di un giovane africano che in due minuti spiega che bastano tre piogge l’anno per garantire il raccolto. Forse che caduta la tradizione del personaggio, resti soltanto quella del catto-comunismo? Perché l’impressione è quella di una coltre moralistica che tutto ricopre, ottunde e spiega.

A proposito di animali, Gianni Amelio intitola il suo ultimo film, Il signore delle formiche, perché il protagonista si opponga al sistema catto-comunista degli anni ‘50/’60 attraverso la realtà della comunità solidale delle formiche, che è ben più che una metafora, ma la linea di condotta, la militanza in piena regola.

Invece, Siccità è davvero niente di più, o di meno, che l’ennesima metafora sulla fine dei valori che la pseudo-apocalisse semplicemente acuisce, riconsegnandola pur con qualche caduto sul campo all’abbraccio umanissimo di chi resta.

Per raccontare la fine di ogni possibile militanza occorre pur sempre schierarsi. Qui ci si schiera con l’orchestra di musica barocca che intona la marcia funebre di una nave che affonda senz’acqua, come un Titanic tirato a secco. La marcia funebre è però puramente decorativa, non innesca lo Spoon River dei militanti della sopravvivenza, che ne testimonino ancora la realtà attiva e operante. La vitalità è sospesa, quella animale, e rimane l’ombra di un vitalismo velleitario che né morde né appassiona. Né, soprattutto, testimonia.



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