Sicilia, il nuovo codice dei contratti pubblici colpisce il principio di trasparenza

Quella che è stata deliberata in giunta regionale e che passerà adesso al voto dell’ARS è una norma che con la scusa di recepire il codice nazionale stravolge le regole finora seguite. “Vedo il rischio. E ridurre la trasparenza aumenta i rischi corruttivi, specie ora che le risorse sono tante” ha dichiarato Busia, Presidente ANAC.

Maria Concetta Tringali

Quello che accade in Sicilia è – come sempre – paradigmatico e dà la misura di dove stia andando il paese. Anche in un settore primario e centralissimo qual è quello dei pubblici appalti.
È di qualche giorno fa la notizia della deliberazione da parte della giunta regionale che approva il disegno di legge di recepimento del nuovo codice dei contratti pubblici, proposto dall’assessorato regionale delle infrastrutture e della mobilità.
Specialmente, dopo il 30 giugno le nuove procedure di approvvigionamento di beni, servizi come anche gli appalti di opere e lavori pubblici, saranno disciplinati da una norma dello Stato nuova di zecca. Il decreto legislativo n. 36 del 31 marzo scorso è entrato in vigore il primo aprile, in un tempo che potremmo definire breve, scatto resosi necessario per assicurare il rispetto del cronoprogramma dettato dal PNRR. Per una sorta di effettività differita, il nuovo testo troverà applicazione a decorrere dal prossimo primo di luglio.

Il quadro è completato (senza risultare del tutto omogeneo) da una finestra di ultrattività del vecchio codice a disegnare un complesso periodo transitorio e da un regime di proroghe delle disposizioni dettate per gli appalti finanziati coi fondi del Piano Nazionale di ripresa e resilienza. L’individuazione della disciplina da applicare alla singola gara diventa insomma solo la prima delle molteplici questioni che gli operatori si trovano davanti, prima di mettere mano a una procedura ad evidenza pubblica, iter necessario per garantire il rispetto dei principi di legalità, imparzialità, trasparenza, buona amministrazione.
Tornando alla Sicilia, la cosa è grave. Quella che è stata deliberata in giunta regionale e che passerà adesso al voto dell’ARS è infatti una norma che con la scusa di recepire il codice nazionale stravolge le regole finora seguite.

Nell’isola, dal 2011 una commissione di gara (e una parallela commissione giudicatrice) composta da un numero dispari di componenti (da tre a cinque) è chiamata a presiedere le valutazioni delle offerte presentate dagli operatori economici. La commissione serve a garantire la regolarità delle operazioni con l’obiettivo di individuare la migliore ditta aggiudicataria, in procedure in cui il criterio di scelta è quello della cosiddetta offerta economicamente più vantaggiosa (ove a pesare sono sia la qualità sia il prezzo).
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I citati commissari, scelti per sorteggio pubblico, sono pescati all’interno di un albo di professionisti (esterni all’amministrazione e dotati di specifica competenza ed esperienza) istituito presso l’UREGA (acronimo che sta per Ufficio regionale per l’espletamento di gara per l’appalto di lavori pubblici). L’elenco omologo a livello nazionale è invece istituito presso l’ANAC, sebbene sia oggetto da anni di una serie ininterrotta di sospensioni.
Sull’altare della semplificazione – innanzi al quale di questi tempi ogni altra esigenza pare sacrificabile – il nuovo codice ha compiuto la definitiva abrogazione dell’albo nazionale dei commissari di gara. Allo stesso modo, sta accadendo in questi giorni in Sicilia dove però la cosa funzionava piuttosto bene, con le stazioni appaltanti chiamate di solito ad esprimere il solo presidente della commissione.

Il decreto legislativo 36 definisce la nuova commissione giudicatrice: “La commissione è presieduta e composta da dipendenti della stazione appaltante o delle amministrazioni beneficiarie dell’intervento, in possesso del necessario inquadramento giuridico e di adeguate competenze professionali. Della commissione giudicatrice può far parte il RUP”. Dunque, niente più professionisti esterni, con l’amministrazione che prima si scrive gli atti di gara (disciplinari, bandi, capitolati tecnici e prestazionali) e poi conduce le operazioni, fino a scegliersi il contraente. Che quello individuato sia poi davvero il migliore offerente è risultato che diventa difficile assicurare, in un sistema così strutturato.

Il codice apre tuttavia uno spiraglio, residuale e minimo, probabilmente destinato all’ininfluenza nell’economia complessiva: “In mancanza di adeguate professionalità in organico, la stazione appaltante può scegliere il Presidente e i singoli componenti della commissione anche tra funzionari di altre amministrazioni e, in caso di documentata indisponibilità, tra professionisti esterni. Le nomine di cui al presente comma sono compiute secondo criteri di trasparenza, competenza e rotazione”.
La domanda è di quelle che non si possono omettere: cosa comporterà questa cancellazione dell’albo se non il proliferare di nomine (di una commissione relegata già a ipotesi residuali), del tutto e inevitabilmente sganciate da qualsiasi criterio di trasparenza, competenza e rotazione?

Insomma, cambiamenti molti che tuttavia difficilmente porteranno a qualcosa di buono. In fondo, però, chi conosce il settore lo sa bene: ciò che non può stupire è che la pubblica amministrazione si approvvigioni soggiacendo alle prescrizioni di un corpus normativo che definire in continua evoluzione è davvero un eufemismo[1].
Gli anni immediatamente più prossimi all’oggi segnano un periodo di interventi ripetuti e convulsi, con la politica mossa da uno scopo non più celato. Per lo meno dal 2019 (nell’aprile fu varato il cosiddetto decreto Sblocca cantieri) l’obiettivo è quello di sbloccare, che nella traduzione odierna diventa semplificare.

Di cosiddetti decreti semplificazioni se ne contano tre, solo a considerate gli ultimi tempi: sotto la spinta pesantissima della pandemia la necessità primaria diventa sbrigarsi, fare presto, snellire, alleggerire, a discapito di ogni altra esigenza. È così che diventa negoziabile anche la lotta alla corruzione.
E ciò malgrado i proclami e le buone intenzioni, nonostante le altisonanti enunciazioni dei principi del primo titolo del nuovo codice: risultato, fiducia, accesso al mercato.
Il nostro sistema – non possiamo negarlo – comincia ad aprirsi alla libera concorrenza, alla non discriminazione e a investire sulla trasparenza solo su sollecitazioni che dobbiamo far risalire direttamente ai principi europei che a un certo punto entrano a fare parte del quadro normativo nazionale e si collocano addirittura all’interno della legge che dal 1990 presiede al procedimento amministrativo.

Ma, ricostruita in sintesi la questione, accanto alla cancellazione dell’albo dei commissari, c’è un altro aspetto a cui dobbiamo fare attenzione per capire verso quale scenario stiamo andando.
Protagonista assoluto di questa stagione – che potrebbe anche finire per essere ricordata come una sciagurata stagione di riforme – è un istituto dalle innegabili, grandi, zone d’ombra: l’affidamento diretto, ovvero quella procedura informale che permette di “affidare” l’appalto a un operatore economico prescelto senza alcuna procedura selettiva, senza concorrenza né competizione.

Il nuovo codice consente oggi una siffatta individuazione dell’aggiudicatario, in un numero di casi che si è decisamente ampliato[2]. E non è nemmeno tutto: il codice disegna inoltre delle grandi deroghe all’obbligo di rispettare il criterio di rotazione, previsto dal precedente decreto legislativo per evitare che si creassero posizioni di vantaggio in favore di operatori scelti in più appalti consecutivi.

Esemplificativo è che il nuovo codice permetta di riaffidare l’appalto all’aggiudicatario uscente, in tutti i casi in cui il valore dello stesso non superi i 5 mila euro. Nessuna motivazione sarà necessaria, in quei casi, per scegliere sempre lo stesso fornitore.
«Vedo il rischio. E ridurre la trasparenza aumenta i rischi corruttivi, specie ora che le risorse sono tante», il Presidente Busia, successore di Cantone alla guida dell’ANAC, non esita ad esprimere forti perplessità, tanto da essere bacchettato da Salvini e costretto di lì a poco a rimangiarsi la sacrosanta critica, appena prima del definitivo varo del nuovo codice.

È sempre l’Autorità a registrare il dato, al 2022, e a sigillare i ragionamenti fatti finora: “In merito alle modalità di scelta del contraente si rileva che, in termini di numerosità, con la procedura aperta sono state assegnate nel 2022 circa il 18,9% delle procedure totali, mentre nel 32,9% e nel 42,9% dei casi (per un totale di ben il 75,8%) le stazioni appaltanti hanno utilizzato, rispettivamente, la procedura negoziata senza pubblicazione del bando e l’affidamento diretto”, così l’ANAC nella sua Relazione annuale.

Si contano affidamenti diretti per 12.583.702.805 di euro. Allarmante è l’esito dell’indagine: “Gli accertamenti condotti hanno consentito di rilevare distorsioni per il ricorso all’artificioso frazionamento di appalti di lavori (…) avendo riscontrato micro affidamenti diretti di breve durata, in luogo di un affidamento di dimensione tecnico/economica più consistente, da esperire con le ordinarie procedure ad evidenza pubblica o mediante procedure negoziate maggiormente competitive, così privando l’amministrazione della possibilità di beneficiare dei risparmi di spesa discendenti dall’effettuazione dei ribassi di gara, con conseguente compromissione del principio di economicità. La sottrazione all’evidenza pubblica operata in virtù dei frazionamenti compromette, altresì, l’attuazione dei principi di libera concorrenza, trasparenza, proporzionalità e di pubblicità immanenti nel diritto eurounitario, in particolare per quanto attiene la concezione dell’affidamento diretto/procedure negoziate come istituti eccezionali, cui è possibile ricorrere nei casi tassativamente previsti dalla legge”.

E, per finire, è ancora in quello studio che si trova l’ennesima conferma alle accennate perplessità: “Ulteriore criticità riscontrata nell’operato delle stazioni appaltanti attiene alla violazione del principio di rotazione”.
Resta la necessità di vigilare su come verranno usati i soldi del PNRR. Risorse ingenti a disposizione della collettività che tuttavia non si riesce a spendere, hanno già fatto cadere il velo di una pubblica amministrazione che fa fatica per mettersi al passo, mancando troppo spesso (le piccole e le grandi stazioni appaltanti) di professionalità adeguate e di mezzi in grado di far fronte alle nuove sfide, in primis quella sulla digitalizzazione.
Proprio la Sicilia, nell’anno 2021 ha battuto un record pessimo: su 31 progetti ammessi, altrettanti sono stati bocciati dal ministero dell’agricoltura, con un gravissimo danno dovuto alla perdita di investimenti nei sistemi di irrigazione dei campi agricoli.

[1] Lasciatosi alle spalle il periodo della frammentarietà, per la spinta decisiva delle prime direttive europee si devono attendere gli anni Settanta del Novecento. Il nostro paese conosce il suo primo codice dei contratti pubblici che è il 2006; a distanza di dieci anni arriva il decreto legislativo n. 50 che a fine mese avremo definitivamente abrogato. La stagione legislativa del 2016 è importante anche per un altro motivo: l’Autorità Nazionale Anticorruzione inizia ad assumere un ruolo di primissimo piano. Le si riconosce – sotto la guida attenta e rigorosa di Raffaele Cantone – oltre a un ruolo attivo nel contrasto e nella prevenzione del fenomeno corruttivo, una centralità nella regolamentazione di dettaglio, attuata per Linee guida in un sistema noto come soft law.

[2] Parliamo di lavori fino a 150.000 euro di valore e di servizi e forniture fino a 140.000.

 

Foto Wikipedia | HowRapid



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