Sopravvivrà la democrazia al 2024?

Può essere la crisi del modello liberal-democratico occidentale liquidata a una vaga lotta contro il populismo? Questo, volgarmente confuso con le tendenze suprematiste e sovraniste che attanagliano il continente europeo, ci distrae dalle cause endogene del deterioramento dell’ordinamento democratico. Se le democrazie del mondo vogliono sopravvivere al 2024, anno in cui andrà al voto quasi metà della popolazione globale, dovranno mettere veramente in discussione quelle incongruenze strutturali che le hanno condotte all’attuale stato di decomposizione.

Pierfranco Pellizzetti

«In un’economia mondiale, nella quale miliardari e
grosse aziende si accaparrano quote sempre maggiori
a venir sacrificata è la promessa democratica»[1].
Carl Rhodes
«Il sistema comunista che OPPRIME la libertà si
differenzia in maniera sostanziale dal capitalismo
neoliberista che SFRUTTA la libertà»[2].
Byung-Chul Han

Stufo di leggere e/o ascoltare scempiaggini sul tema – di per sé serissimo – “quale futuro per la democrazia”, vorrei fissare alcuni punti relativi alla questione, che sarei portato a giudicare del tutto evidenti. Partendo da un assunto: nonostante qualcuno almanacchi minacce strampalate (ieri internet, oggi il populismo, magari domani il forno a micro-onde), l’ordinamento democratico è consumato da tabe largamente endogene, che di fatto possono trasformarsi anche in esogene (come già accade da tempo), però partendo sempre da processi degenerativi interni.
L’Occidente auto-elettosi liberal-democratico ha dissipato l’intero patrimonio di soft-power accumulato alla fine della Guerra Fredda, che l’illusionista della cattedra Francis Fukuyama aveva sentenziato essere “la fine della Storia”, ossia il combinato valori-istituzioni occidentali assurto ad assetto planetario sub specie aeternitatis. La promessa mendace di una pace perpetua. Il tutto partendo dall’effetto ottico ingannevole che a vincere, con la caduta del muro di Berlino nel fatidico 1989, fosse la Democrazia e non – come in effetti risultò presto chiaro – il Capitalismo. Dunque la prevalenza di quell’intrinseca avidità che, attraverso spoliazioni e saccheggi, ha rapidamente delegittimato la parte trionfatrice agli occhi del mondo. Per essere ancora una volta identificata nello scomodo ruolo di latrones mundi.
L’avidità fattasi arroganza – nella
vague ideologica mercatista-liberista business is business e nelle mastodontiche pratiche “estrattive” della plutocrazia finanziarizzata – ha rapidamente falcidiato il consenso interno al sistema, diffondendo disuguaglianza e prosciugando l’area mediana della società, invertendo dinamiche inclusive assicurate da bilanciamenti ormai azzerati (quello esterno del mondo diviso in blocchi e quello interno da parte del lavoro organizzato). Come ha scritto Thomas Piketty, “il processo dinamico di un’economia di mercato e di proprietà privata, se abbandonato a se stesso, alimenta […] potenti fattori di divergenza, potenzialmente minacciosi per le nostre società democratiche e per i valori di giustizia sociale sui quali esse si fondano”[3].
Lo sfaldamento del fronte interno ha rinforzato la credibilità e la capacità attrattiva dei modelli alternativi. Per cui, secondo l’ultimo Rapporto Edelman (il trust-barometro
su un campione di oltre 36.000 persone in 28 Paesi, che da oltre 20 anni studia l’andamento del rapporto di fiducia tra i cittadini e quattro tra le principali istituzioni che operano nella società: Governo, Business, Media e Organizzazioni Non Governative), “rivela che gli abitanti di Repubblica Popolare Cinese e Arabia Saudita (definibili come dittature ‘efficienti’) nutrono maggiore fiducia nel governo (la esprimono il 91% e l’87% degli intervistati) rispetto a quelli dei paesi ‘liberi’, dove tale indicatore sta andando in picchiata: 34% in Spagna, 36% in Giappone, 39% negli Stati Uniti, 42% nel Regno Unito. 47% in Germania”[4]. Per quanto riguarda l’Italia, l’Istituto Ipsos registrava a fine dello scorso settembre un consenso complessivo per il governo Meloni attorno al 37%, con ulteriori crolli su temi specifici (28% immigrazione e 24% andamento economico).
Il primo segno del mutamento di clima lo si è registrato nei Paesi dell’Est entrati in orbita europea dopo la fine dell’Unione Sovietica. Un effetto largamente attribuibile all’Ovest. Ossia il tema studiato cinque anni fa da due autorevoli intellettuali filo-occidentali – Ivan Krastev e Stephen Holmes – del come il liberalismo sia rimasto vittima del suo successo annunciato. In un saggio dal sottotitolo esplicito: come l’Occidente sta perdendo la battaglia per la democrazia. Sicché “i tentativi di salvare il buon nome della democrazia liberale evidenziandone gli aspetti positivi rispetto all’autocrazia non occidentale sono stati vanificati dall’incosciente violazione delle norme liberali, per esempio con la tortura dei prigionieri, e dal palese malfunzionamento delle istituzioni democratiche all’interno degli stessi Paesi occidentali. Anche l’idea di società aperta ha perso il lustro di un tempo. Oggi per molti cittadini disincantati, l’apertura al mondo è causa più di inquietudine che di speranza”[5]. Sicché le nuove entrate entusiaste, oggi riunite nel Gruppo di Vilnius, si proclamano “democrazie illiberali” e paventano gli effetti destabilizzanti della globalizzazione.
Un cambio radicale di orientamento che non si può ridurre alle spiritosaggini di Paul Krugman (e imitatori): “ora che l’Europa dell’Est si è liberata dell’ideologia straniera del comunismo può tornare al suo vero alveo storico: il fascismo”[6]. Perché nel frattempo l’immagine idealizzata della democrazia liberale aveva subito il colpo di grazia: la crisi finanziaria globale del 2008. Per cui, “mentre impartivano lezioni al mondo sui diritti umani, la democrazia e altri nobili valori, i leader occidentali non facevano altro che perseguire gli interessi geopolitici egoistici dei rispettivi Paesi”[7]. Insomma – nella delusione dei conversi – l’Età dell’imitazione post-guerra fredda si stava rivelando l’Età dell’ipocrisia occidentale. Nella dittatura consolidata dei ceti abbienti, che riscopre la natura bellicosa del capitalismo nella sequenza ininterrotta delle guerre illegali scatenate dall’Occidente, prima e dopo il 1989; alla faccia della sua aspirazione alla pace perpetua e relativi valori. Un rapido florilegio: Iran (colpo di Stato contro il legittimo primo ministro Mossadeq), Guatemala, Cuba, Nicaragua, Vietnam, Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen e Siria.
Oggi – dice la sociologa turca/parigina Nilüfer Göle – “la nozione di civiltà sembra essere più una questione di identità culturale che di universalismo laico”, anche per l’uso strumentale screditante che ne è stato fatto nelle pratiche. Da cui le speculari forme di resistenza all’omologazione. Mentre – come osservava Alain Touraine   “la globalizzazione si impone nella forma di un’ideologia normativa che dissimula le relazioni di potere, l’esclusione e il dominio”[8]. Una crescente consapevolezza che si diffonde in quello che si chiamava Terzo Mondo e che ora cresce al punto di poter soppiantare il Primo. Con l’India che tallona la Cina per la
pole position in fieri. Non a caso due economisti indiani – Prabhat e Utsa Patnaik – hanno proposto di recente “una teoria dell’imperialismo” che prende avvio dalla domanda chiave: “è sempre necessario per il capitale metropolitano sviluppare un rapporto strutturale con la popolazione periferica che implica la sottomissione di quest’ultima?”[9]. E si conclude con una risposta senza remissioni: “non solo [il capitalismo] opprime i lavoratori della periferia, ma rende anche molto difficile per le sue vittime sfidare tale oppressione. Ma l’imperialismo oggi sta portando il mondo in un’impasse caratterizzata da crisi economiche, stagnazione e disoccupazione che non hanno precedenti”[10]. L’annuncio di una nuova era in cui le condizioni esistenti, compreso il grado di consapevolezza, potrebbero mutare con una rapidità sorprendente. Mentre cresce il fenomeno dei BRICS (il remake di Bandung 1955) quale promessa dell’affermarsi di un nuovo scenario multipolare, alla fine della centralità americana nel sistema-Mondo.
Sotto l’impatto di queste sfide planetarie l’Occidente si arrocca, e il suo vanto – la democrazia – si involve in post-democrazia e poi in democratura (lo svuotamento delle regole, ridotte a meri rituali), mentre non si intravvede all’orizzonte il punto di appoggio della nuova centralità del sistema-Mondo. Diventa sempre più probabile l’avvento del “caos sistemico” prefigurato da Giovanni Arrighi. Ora, in questo quadro di declino dell’ordine democratico si assiste all’avvento della peggiore schiera di leader politici mai apparsa sulla scena; personaggi del tutto improponibili nel ruolo dei promotori di un rilancio democratico: Biden, Putin, Netanyahu, le fils aĩné di Massoneria e banche francesi Macron, Lula, Milei, Orban, Sunak. Giorgia Meloni.
In questa desolazione ha un qualche senso demonizzare la critica delle tendenze involutive nell’éstablishment? Ossia la tradizione populista, che propugna la rinascita dal basso di una classe dirigente degna di rispetto, capace di aggregare consenso e promuovere partecipazione democratica. Sapendo che buona parte dei liquidatori della democrazia sono mimetizzati proprio in quel fronte dei presunti “responsabili” a cui i propugnatori dell’anti-populismo (mistificato come sinonimo di demagogia e mescolato improvvidamente a suprematismo e sovranismo) baciano la pantofola e tirano la volata a mascherare le loro immense responsabilità.
Sicché, mentre ci troviamo di fronte a uno smottamento geopolitico di inimmaginabili dimensioni, politologi di Palazzo o di bottega, alla ricerca di vantaggi accademici o di visibilità narcisistica quali trombettieri del mainstream, si lanciano contro con chi avverte che il re-Occidente è nudo; come il bambino sincero della celebre favola.

[1] Carl Rhodes, Capitalismo WOKE, Fazi, Roma 2023 pag. 87
[2] Byung-Chul Han, Le non cose, Einaudi, Torino 2022 pag. 35
[3] Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014 pag.919
[4] Enrico Pedemonte, “La Russia usa Internet per spaccare l’Occidente”, Limes 6/2022
[5] Ivan Krastev e Stephen Holmes, La rivolta anti liberale, Mondadori, Milano 2020 pag. 4
[6] Paul Krugman, “Se l’America perdesse la libertà”, la Repubblica 29 agosto 2018
[7] I. Krastev e S. Holmes, La rivolta, cit. pag. 101
[8] Cit. pag. 72
[9] Prabhat e Utsa Patnaik, Una teoria dell’imperialismo, Meltemi, Milano 2021 pag. 213
[10] Ivi pag. 226



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