Sostiene Tabucchi

Ripercorrere le pagine del più noto romanzo di Antonio Tabucchi – Sostiene Pereira – è l’occasione per il direttore di MicroMega per tracciare il rapporto tra l’immaginario e l’impegno civile del grande scrittore scomparso dieci anni fa. Perché è attraverso l’invenzione letteraria che Tabucchi esprime la verità in modo più profondo e più radicale. Un programma che unifica creazione letteraria, lavoro giornalistico, impegno civile. [Tratto da MicroMega 4/2020]

Paolo Flores d'Arcais

Pereira, da ‘brava persona’ a giornalista
Il tema di questo intervento è il rapporto tra l’immaginario di Antonio Tabucchi e il suo impegno civile. E poiché tale impegno si manifesta soprattutto nella forma del giornalismo (spesso internazionale, pensiamo a tanti memorabili articoli sul francese Le Monde), oltre che con appelli e partecipazione a manifestazioni, diventa quasi obbligatorio mettere a confronto uno dei suoi romanzi più belli e più famosi, Sostiene Pereira, che ha appunto come protagonista il responsabile delle pagine culturali di un quotidiano, con gli interventi giornalistici dello stesso Tabucchi.

Come è noto l’azione si svolge nel Portogallo di Salazar, a Lisbona nel 1938 («Era il venticinque di luglio del millenovecentotrentotto, e Lisbona scintillava nell’azzurro di una brezza atlantica» 1), mentre nella limitrofa Spagna è in corso la guerra civile scatenata dal Generale Franco contro il legittimo governo della Repubblica (che sta soccombendo). Pereira è un cattolico alquanto conservatore, è rimasto vedovo, ha tutte le apparenze di un uomo conformista e mediocre, che non si nota, non spicca per personalità. Ma nella sua vita, inopinatamente, irrompono due giovani rivoluzionari. Il primo, Monteiro Rossi, in realtà è stato contattato da Pereira, colpito da un articolo sulla letteratura del giovane, delle cui idee politiche si renderà conto solo più avanti (la militante è infatti la sua fidanzata Marta). Pereira finirà per aiutare entrambi, la cui situazione diventa sempre più difficile sia economicamente che politicamente. C’è uno scambio di battute che mi sembra molto significativo per caratterizzare Pereira.

Non so perché faccio tutto questo per lei, Monteiro Rossi, disse Pereira. Forse perché lei è una brava persona, rispose Monteiro Rossi. È troppo semplice, replicò Pereira, il mondo è pieno di brave persone che non vanno in cerca di guai. Allora non lo so, disse Monteiro Rossi, non saprei proprio. Il problema è che non lo so neanch’io, disse Pereira, fino ai giorni scorsi mi facevo molte domande ma forse è meglio che smetta di farmele 2.

La realtà è proprio che Pereira è «una brava persona», nulla di più. Ma anche nulla di meno. E si rende progressivamente conto che le «brave persone» che non fanno nulla, con la loro passività, le loro quotidiane omissioni del «non vedo, non sento, non parlo», finiscono per essere un pilastro involontario del male, sono quelle che mettono il «non cercare guai» al di sopra del loro essere «brave persone», e camminano perennemente sul ciglio dell’omertà, cercando di non saperlo, di mantenersi nell’opacità, nell’ottusità della coscienza.

Pereira è invece una «brava persona» coerente, che a un certo punto non è più capace di non farsi domande, e non può ottundere completamente i valori di questa sua umanità nella coltre di autoassoluzione che alimenta il circolo vizioso dell’indifferenza.

«Lei crede nella rivoluzione francese?», gli aveva chiesto Marta agli inizi della loro conoscenza. «Teoricamente sì», aveva risposto Pereira, pentendosi di quel teoricamente, «perché avrebbe voluto dire: praticamente sì; ma aveva detto in fondo quel che pensava» 3. E a quel punto accetta di ballare un valzer con Marta. Perché non è già più vero che ha detto quello che in realtà pensava. Onestamente è quello che ha pensato fino a quel momento, non se lo nasconde, ma proprio il rifiuto di essere opaco a se stesso lo sta cambiando, ora vorrebbe dire «praticamente sì», cioè riconoscere la volontà di far propri nella sua vita, nella sua attività, quei tre impegnativi valori. Riconosce che li sente teoricamente, perché non ha mai osato metterli in pratica (non ha mai capito che con la sua passività li stava calpestando), ma ora li vive, come un rimorso che cova, che non consentirà che la passività diventi complicità neppure per omissione.

Pereira ha nutrito la sua passività di «brava persona» avendo «sempre creduto che la letteratura fosse la cosa più importante del mondo» ma alla fine gli «è venuto un dubbio: e se questi due ragazzi avessero ragione?». Il dottor Cardoso, l’amico medico della clinica talassoterapica dove si sta curando, lo interrompe: «Ma è la Storia che lo dirà e non lei, dottor Pereira. Sì, disse Pereira, però se loro avessero ragione la mia vita non avrebbe senso […] non avrebbe senso che diriga la pagina culturale di questo giornale del pomeriggio dove non posso esprimere la mia opinione e dove devo pubblicare racconti dell’Ottocento francese» 4, che pure sono il modo con cui in filigrana Pereira cercava di comunicare il suo fastidio per certi aspetti del regime. Perché anche il rifugio nella letteratura prima o poi si rivela un problema (la rivolta dei giovani polacchi nel loro Sessantotto nasce in difesa di un classico della loro letteratura, gli Avi di Adam Mickiewicz, e non sarà l’unico caso nel dissenso libertario dell’Est) e in conclusione si dovrà scegliere tra la resa al conformismo e la presa di coscienza.

Cardoso ha parlato secondo quell’hegelismo interiorizzato che è il sentire comune automatico del realismo politico, che ha contagiato anche tante persone «per bene». Ma il realismo che delega alla Storia, con la maiuscola, i verdetti, e che probabilmente aveva tranquillizzato Pereira in precedenza, evitandogli di farsi domande, non basta più una volta che ci si ponga la domanda sul senso della propria vita, cioè sulla responsabilità della propria esistenza, frammento della vera storia, quella con la minuscola.

Dalla sopravvivenza alla speranza

Nella prima pagina del Mito di Sisifo Albert Camus scrive che «le sens de la vie est la plus pressante des questions», e una pagina dopo che «commencer à penser, c’est commencer d’être miné» 5. Proprio per non porsi domande, e non doversi scontrare con l’assurdo dell’esistenza, gran parte degli uomini cerca di vivere nell’abitudine, «nous prenons l’habitude de vivre avant d’acquérir celle de penser». «Un jour», però, «le “pourquoi” s’élève et tout commence dans cette lassitude teintée d’étonnement». Atto che «inaugure le mouvement de la conscience» e che costringe a scegliere «l’espoir ou le suicide» 6.

Pereira si trova in un dilemma leggermente differente ma sostanzialmente analogo: deve scegliere tra la mera sopravvivenza e la speranza. «Da quando era scomparsa sua moglie lui viveva come se fosse morto […] la sua era solo una sopravvivenza, una finzione di vita» 7: esistenzialmente e professionalmente è uno zombie, si rifugia nella «habitude» camusiana per non pensare, non essere minato, non doversi porre la domanda sul senso della sua vita.

La Storia con la maiuscola evita ogni interrogativo morale, perché fa del successo il dispiegarsi dello Spirito nel mondo, la volontà di Dio: la Storia è una perenne ordalia. Pereira naturalmente ha sempre avuto una morale: «Non c’è niente di cui vergognarsi a questo mondo, disse Pereira, se non si è rubato e se non si è disonorato il padre e la madre» 8. Sta parlando con Monteiro Rossi, che come necrologio di prova per la collaborazione al giornale di Pereira ha scelto Garcia Lorca, appena trucidato dai franchisti, pezzo non pubblicabile, ovviamente, e cerca perciò di scusarsi con Pereira. Che anziché liquidarlo gli assegna un nuovo necrologio (di Mauriac o di Bernanos) e non conclude: «Il problema è che il mondo è un problema e certo non saremo noi a risolverlo, avrebbe voluto dire Pereira […] ma non disse niente di tutto questo» 9.

Reagendo come «brava persona», anziché come persona che non vuole avere guai, con la coerenza della prima che entra inevitabilmente anche se impercettibilmente in rotta di collisione con la seconda, Pereira attraversa una vera e propria «educazione sentimentale», nella forma di una «maturazione civile». La svolta avverrà con il senso di colpa, benché Pereira non abbia da pentirsi di nessuna delle cose che ha fatto. «Non mi sento colpevole di niente di speciale, eppure ho desiderio di pentirmi, sento nostalgia del pentimento […] sensazione limitrofa […] è come se avessi voglia di pentirmi della mia vita» 10. Perché Pereira ha nostalgia delle cose che non ha fatto, si sta pentendo di tutte le omissioni con le quali ha tolto senso alla propria vita.

Un momento cruciale in questo percorso di maturazione è l’incontro sul treno con la signora Ingeborg Delgado, «una signora che leggeva un libro [in tedesco, di Thomas Mann, scopriremo nella pagina successiva]. Era una signora bella, bionda, elegante, con una gamba di legno» 11. Dopo che entrambi hanno prenotato, Pereira la invita a pranzare allo stesso tavolo al vagone ristorante.

I normali convenevoli tipo «le piace il Portogallo» ricevono risposte per nulla convenzionali, per cui la conversazione assume ben presto una piega inattesa:

Lei è ebrea? Sono ebrea, confermò la signora Delgado, e l’Europa di questi tempi non è luogo adatto alla gente del mio popolo, specie la Germania, ma anche qui non c’è molta simpatia, me ne accorgo dai giornali, forse il giornale dove lavora lei fa eccezione, anche se è così cattolico, troppo cattolico per chi non è cattolico. […] Anche io forse non sono felice per quello che succede in Portogallo, ammise Pereira. […] E allora faccia qualcosa. Qualcosa come?, rispose Pereira. […] Ma non disse niente di tutto questo, Pereira, disse solo: farò del mio meglio, signora Delgado, ma non è facile fare del proprio meglio in un paese come questo per una persona come me, sa, io non sono Thomas Mann 12.

In tutto il libro Tabucchi fa continuamente sapere al lettore cosa Pereira vorrebbe dire e cosa invece dice (cioè quasi sempre non dice), una cifra stilistica che rende in modo perfetto il carattere di Pereira, che non è l’ambiguità ma la sincerità di questo doppio registro: Pereira vorrebbe davvero dire certe cose, ma al tempo stesso non sa ancora dirle non per reticenza ma perché non sa ancora viverle, non ha ancora preso coscienza di tutto quello che essere una «brava persona» deve comportare di conseguenze pratiche, di coerenza pragmatica: professionale e civile.

Questa cifra stilistica consente così a Tabucchi di far sentire al lettore il progressivo spostarsi in Pereira tra quanto vorrebbe dire e quanto dice (o non dice) effettivamente, il peso sempre maggiore che assume l’emergere della consapevolezza e dunque il rifiuto delle giustificazioni con cui fino ad allora ha conciliato il suo essere «brava persona» con la sua passività e il suo conformismo.

Letteratura, giornalismo e verità

La vicenda di Pereira è la storia di una presa di coscienza. Come uomo e come giornalista. Il tema della verità fa capolino come osservazione apparentemente paradossale a proposito della letteratura ma cresce e si stratifica come questione esistenzialmente cruciale, per dare senso alla propria vita e alla propria professione. Parlando con Monteiro Rossi a Pereira viene in mente «una frase che gli diceva sempre suo zio, che era un letterato fallito, e la pronunciò. Disse: la filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità» 13. L’ironia (è la frase di un letterato fallito) consente a Pereira di tenere a distanza quello che in realtà è forse il programma dell’immaginario di Tabucchi: attraverso l’invenzione letteraria esprimere la verità in modo più profondo e più radicale (andando alla radice). Programma che unifica creazione letteraria, lavoro giornalistico, impegno civile.

In polemica con Umberto Eco, che in un suo intervento finiva per «consentire [agli intellettuali] di parlare solo di ciò che si conosce», Tabucchi (nella forma di lettera aperta a Adriano Sofri, circostanza su cui ritornerò) rivendica come funzione dell’intellettuale l’intervento anche su ciò che nel senso ordinario del termine non conosce. Il modello è qui Pasolini che sul Corriere della Sera intende processare la Democrazia cristiana:

E che fare di Pasolini […] che affermò Io so su tutti i misteri d’Italia? Del suo «sapere» noi sappiamo che di fatto non sapeva niente. Eppure sapeva tutto. Ce lo siamo già dimenticato? Io non me lo sono dimenticato, e credo neanche tu, caro Sofri. Però forse non è superfluo citare quel suo testo intitolato Io so che è del 1974: «Io so, io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (perché in realtà è una serie di golpe istituitisi a sistema di protezione del Potere).

Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del dicembre 1969.

Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del ’74.

Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato dunque sia i vecchi fascisti sia i nuovi fascisti e insieme gli ignoti. […]

Io so, perché sono un intellettuale, uno scrittore che cerca di seguire tutto ciò che succede […] di immaginare tutto ciò che non si sa o si tace…».

Che Pasolini già negli anni Sessanta intendesse la figura dell’intellettuale in modo opposto da quella che cercava di diffondere la neoavanguardia, è palesato da un suo testo intitolato Reportage su Dio, che l’intelligencija italiana sembra aver rimosso dal suo panorama. Ma io l’ho conservato. […] In esso Pasolini dettava all’aspirante giornalista di un settimanale liberal di allora, una sua sociologia del football, pretesto per una sociologia della sua Italia, eseguita con gli strumenti dello scrittore (e dell’intellettuale), rispetto agli strumenti della sociologia ortodossa.

Per concludere con la contrapposizione tra «la consulenza, per definizione rassicurante, di Umberto Eco» e quella che Tabucchi stesso teorizza sulla scia di Pasolini, una «funzione conoscitiva (seppure di “conoscenza di disturbo”)» che «può essere di grande vitalità» 14.

Tabucchi riproporrà, quasi un quarto di secolo dopo, il processo all’establishment politico intentato a suo tempo da Pasolini. Non più dalla prima pagina del Corriere della Sera, però, ma dalle pagine di MicroMega (tra il 2001 e il 2005 anche dell’Unità, sotto la direzione di Furio Colombo, sempre meno sopportata dai vertici del Partito), unica testata che in Italia gli consentisse ormai la funzione di disturbo che l’intellettuale secondo Tabucchi deve avere e svolgere.

Sul giornalismo c’è una pagina di Sostiene Pereira che è particolarmente significativa. Il protagonista sta pranzando alle terme con un vecchio amico, Silva. Che corrisponde esattamente al Pereira che ancora non si fa domande, che immagina di poter essere una «brava persona» rinchiudendosi nella nicchia di una vita privata e professionale decente ma isolata da quanto accade nel mondo. Accomodato nell’abitudine ottundente di cui parla Camus.

Silva ordinò una trota con le mandorle e Pereira un filetto di carne alla Strogonoff, con un uovo in camicia sopra. Cominciarono a mangiare in silenzio, poi a un certo punto, Pereira chiese a Silva cosa ne pensava di tutto questo. Tutto questo cosa?, chiese Silva. Tutto, disse Pereira, quello che sta succedendo in Europa. Oh, non ti preoccupare, replicò Silva, qui non siamo in Europa, siamo in Portogallo.

Ma Pereira ha cominciato a farsi domande, nell’abitudine non trova più il conforto rassicurante, la quiete del conformismo.

Tu leggi i giornali e ascolti la radio, lo sai cosa sta succedendo in Germania e in Italia, sono fanatici, vogliono mettere il mondo a ferro e fuoco. Non ti preoccupare, rispose Silva, sono lontani. D’accordo, riprese Pereira, ma la Spagna non è lontana, è a due passi, e tu sai cosa succede in Spagna, è una carneficina, eppure c’era un governo costituzionale, tutto per colpa di un generale bigotto. Anche la Spagna è lontana, disse Silva, noi siamo in Portogallo. Sarà, disse Pereira, ma anche qui le cose non vanno bene, la polizia la fa da padrona, ammazza la gente, ci sono perquisizioni, censure, questo è uno stato autoritario la gente non conta niente, l’opinione pubblica non conta niente. Silva lo guardò e posò la forchetta. Stai bene a sentire, Pereira, disse Silva, tu credi ancora nell’opinione pubblica? Ebbene, l’opinione pubblica è un trucco che hanno inventato gli anglosassoni. […] Noi siamo gente del Sud, Pereira, e ubbidiamo a chi grida di più, a chi comanda. Noi non siamo gente del Sud, obiettò Pereira, abbiamo sangue celta 15.

Pereira in realtà qui si trova faccia a faccia con se stesso, con il Pereira «brava persona» che riusciva a non farsi domande, e che ora sa che una domanda diventa un incalzare di domande. E che farsi domande e fare domande è necessario per dare un senso alla propria esistenza e alla professione del giornalista. Perciò, alla fine di una tiritera di Silva densa di luoghi comuni, che conclude con «noi abbiamo sempre avuto bisogno di un capo, ancora oggi abbiamo bisogno di un capo», la risposta di Pereira arriva inaspettata, secca, conclusiva: «Però io faccio il giornalista, replicò Pereira. E allora?, disse Silva. Allora devo essere libero, disse Pereira, e informare la gente in maniera corretta» 16.

Informare la gente in modo corretto. Funzione di conoscenza, ma conoscenza di disturbo. E viene immediatamente alla mente quanto scriveva a proposito della stampa il grande storico Jules Michelet: «La presse poursuit une mission extremement utile, extremement grave et penible, celle d’une censure continue sur les actes du pouvoir» 17. Da questo momento in poi Pereira ha scelto la propria etica: se si vuole essere coerentemente una «brava persona», e oltretutto si fa il giornalista, è doverosa l’etica della verità. E in verità non si può fare cronaca, e neppure letteratura, senza essere nella storia, appartenere alla storia, misurarsi con la storia.

Il disturbo di Tabucchi e l’engagement di Sartre

Ma vivere nella storia significa immaginare un futuro con gli altri, impegnarsi per averlo. Pereira, che ha appena scoperto come dovere ineludibile che bisogna informare in modo corretto, è pronto ad ascoltare la «lezione» che viene dalla ragazza rivoluzionaria, perché già l’ha messa in incubazione dentro se stesso: «Marta bevve un sorso di vino di porto e disse: noi non facciamo la cronaca, dottor Pereira, è questo che mi piacerebbe lei capisse, noi viviamo la Storia» 18. Non dice «noi facciamo la Storia», non è la presunzione o l’arroganza del rivoluzionario, è la lucidità del rivoluzionario quando sa che deve accomunarsi con ogni cittadino «brava persona». E se la Storia qui ha la maiuscola, non è per farne la divinità hegeliana, ma per sottolineare la necessità che la vita quotidiana, la cronaca, la letteratura, non siano mai fughe dai grandi eventi che la cronaca e l’abitudine possono nasconderci per renderci accomodanti. «Io penso a me soltanto e alla cultura» è infatti la replica di Pereira, ma una replica che ormai gli si è incrinata, a cui dopo il dialogo con la signora Delgado non può più dare voce.

La funzione di disturbo dell’intellettuale ha poco o nulla a vedere con l’engagement sartriano. Quello di Sartre finisce infatti per essere un fiancheggiamento del Partito (comunista), un mettersi dalla parte della Storia con la S maiuscola, di cui il Partito (con la P maiuscola) è l’incarnazione, poiché è il solo soggetto a possedere la chiave del suo scopo finale, il comunismo. Sartre compagnon de route sarà perciò sempre un eretico «con licenza de’ superiori» anche nei momenti di maggior tensione con il Pcf, per passare poi all’ortodossia maoista nel maggio rosso di Parigi.

Tabucchi dedica un intero articolo alla sua, diversissima, idea di impegno. «Engagement è una parola del XX secolo che fa pensare a Sartre. Dico subito che è un punto di vista che non mi appartiene totalmente. Non credo che l’impegno debba essere un dovere dello scrittore, e se un giorno volessi parlare delle patate del mio giardino mi sentirei libero di farlo. […] Preferisco identificarmi nel punto di vista altrui, e forse è questa la mia maniera di impegnarmi». Il futuro con gli altri, in fondo. Chi sono, però, questi altri? «Piazza d’Italia, per esempio, è la lunga storia di un impegno tra virgolette: non l’impegno di coloro che hanno fatto le grandi battaglie del nostro secolo, ma l’impegno dei minori, degli anarchici, di coloro che hanno proseguito la tradizione mazziniana, poi repubblicana e garibaldina, fino a Pietro Gori. Si tratta sostanzialmente di perdenti» 19.

Del resto anche Tabucchi aveva fatto il suo processo alla Democrazia cristiana, in anni vicinissimi a quelli di Pasolini. «Nel Piccolo naviglio, che uscì nel ’78, la molla che aveva fatto scattare tutto era la pessima amministrazione democristiana che poi, come sappiamo, ha fatto fallimento: in quel momento mi sembrava che il malgoverno italiano fosse da prendere di petto» 20. Ma aggiunge (siamo nel 1996): «Oggi è sotto inchiesta, dunque è diventato materia per i giudici, sarebbe assurdo tornarci per uno scrittore» 21. Eppure sentirà il bisogno di tornarci, in un memorabile e lunghissimo dialogo con il procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, nel numero monografico di MicroMega che ricorda i dieci anni dell’inchiesta Mani Pulite 22. Testo ricchissimo, l’equivalente di oltre cento pagine di un tascabile, un vero e proprio libro, in cui lo scrittore si fa intervistatore, ma con gli strumenti di conoscenza tanto della letteratura che del giornalismo, e conduce il magistrato a ripercorrere storia e preistoria di Mani Pulite, e le implicazioni della successiva sollevazione dell’establishment (non solo berlusconiano, purtroppo) contro i magistrati che, prendendo sul serio la Costituzione (art. 101), obbediscono solo alla legge. Un testo che, da solo, meriterebbe un saggio a parte.

L’immaginazione della creazione letteraria si dimostra in Tabucchi strumento di una formidabile, anche se specialissima, forma di conoscenza. «Neanche Il gioco del rovescio venne ispirato da una visione politica. […] A me in quel momento interessava soprattutto l’aspetto esistenziale. Per esempio, mi interessava raccontare gli anni di piombo al rovescio, e l’ho fatto calandomi nell’ottica della madre di un terrorista ucciso dalla polizia» 23. Eppure questa «realtà simbolica, filtrata», risulta poi potentemente politica, terribilmente «conoscenza di disturbo». Eresia, senza licenza de’ superiori.

L’immaginario letterario, la realtà simbolica e filtrata, sono la forma di impegno potentemente politico che lo scrittore può esercitare. Tabucchi sottolineerà come sia stato Jorge Luis Borges, in cui la realtà è simbolica e filtrata che più non si può, ad averci dato, con Emma Zunz, «uno dei testi più violenti sulla realtà argentina e sui rifugiati nazisti residenti nel suo paese» 24. E rispondendo alla «critica un po’ snob dei giornali di sinistra» che gli avevano attribuito «una presunta iperletterarietà troppo cosmopolita», risponde: «L’accusa era che i miei libri non parlavano abbastanza della realtà». Ma «il cosmopolitismo era un’ingiuria utilizzata dagli stalinisti nei processi contro gli intellettuali dissidenti che si occupavano del mondo. Dunque, ben venga il cosmopolitismo: a me piace, dal mio paesello natale, occuparmi del mondo, anche perché il mondo mi concerne. Lo stesso valeva per Sciascia, che della Sicilia è riuscito a fare una metafora» 25. Seguono i nomi degli scrittori «impegnati» (le virgolette sono di Tabucchi) da leggere e rileggere, cominciando da Luciano Bianciardi che «bisognerebbe rivalutare, perché purtroppo è stato dimenticato per troppo tempo», e poi «Pavese, Vittorini, Calvino». Aggiungendo: «L’attività di quegli stessi scrittori sarebbe poco congeniale all’industria culturale d’oggi» 26. Infine «farei il nome di Milan Kundera: il suo libro L’arte del romanzo non tocca solo argomenti letterari ma rivela un sostanziale fondo civile, così come, a suo modo, l’ultimo romanzo, La lentezza». Ma prima aveva citato Umberto Eco, cui «dobbiamo uno dei testi più lucidi sul fascismo e sulle sue radici: quello apparso sulla Repubblica qualche mese fa è un testo che dovrebbe essere distribuito in tutte le scuole» 27.

In polemica con Umberto Eco

Con Eco invece polemizzerà l’anno successivo, come abbiamo visto. Nella forma di una lettera aperta: «Caro Adriano Sofri», datata Vecchiano, 25 aprile 1997. «Il motivo di questa mia lettera è costituito dalla lettura di un articolo di Umberto Eco nella sua rubrica settimanale “La bustina di Minerva” (L’Espresso, 24/4/1997), che si intitola: “Il primo dovere degli intellettuali: stare zitti quando non servono a nulla”». La data, non a caso, è quella della Festa della Liberazione, quando cinquantadue anni prima Radio Londra diffonde il messaggio «Aldo dice 26×1», con cui il Comitato di Liberazione Alta Italia impartisce l’ordine di insurrezione generalizzata ai partigiani della montagna e delle città per l’una di notte.

Il testo di Tabucchi è denso, labirintico, affronta più temi ritornandovi in modo avvolgente. Ma il nucleo che li tiene insieme è il rifiuto della posizione di Eco.

Quale è la figura dell’intellettuale che propone oggi Umberto Eco? […] Te ne cito un brano: «Se li si prende per quel che sanno dire (quando ci riescono) gli intellettuali sono utili alla società, ma solo nei tempi lunghi. Nei tempi brevi possono essere solo professionisti della parola e della ricerca, che possono amministrare una scuola, fare l’ufficio stampa di un partito o di un’azienda, suonare il piffero della rivoluzione, ma non svolgono la loro specifica funzione. Dire che essi lavorano nei tempi lunghi significa che svolgono la loro funzione prima o dopo, mai durante gli eventi. Un economista o un geografo potevano lanciare un allarme sulla trasformazione dei trasporti via terra nel momento in cui è entrato in scena il vapore, e potevano analizzare vantaggi e inconvenienti di questa trasformazione; o compiere cento anni dopo uno studio per dimostrare come quella rivoluzione aveva rivoluzionato la nostra vita. Ma nel momento in cui le aziende di diligenza andavano in rovina o le prime locomotive si fermavano per strada, non avevano nulla da proporre, in ogni caso assai meno di un postiglione o di un macchinista, e chi avesse invocato la loro alata parola si sarebbe comportato come chi rimproverasse a Platone di non aver proposto un rimedio per la gastrite  28.

Ma attraverso una lunga argomentazione, che arruola Joyce e Gertrude Stein, T. Wilder e Wittgenstein, Benjamin e Rimbaud, Tabucchi rovescia l’impostazione di Eco: «Il compito dell’intellettuale (ma vorrei insistere, quello dell’artista) è proprio questo, caro Adriano Sofri: rimproverare a Platone di non aver inventato il rimedio per la gastrite. È questa la sua “funzione” (e, specifico, funzione sporadica 29. E dopo altrettanto labirintiche «divagazioni» che in realtà costituiscono argomenti di «logica» letteraria, a partire proprio dal Pasolini del processo alla Dc e passando per Maria Zambrano, di nuovo Joyce, Broch, Eraclito, Baltasar Gracián, Gide, Lyotard, Blanchot, Alexandre O’Neill, Breton, Bradbury, Truffaut, arriva ad attualizzare la metafora di Eco su Platone e «il rimedio per la gastrite», rimettendola sui piedi del dovere civile (e perfino elettorale!) dell’intellettuale: «L’articolo di Eco si conclude così: “Cosa deve fare l’intellettuale se il sindaco di Milano si rifiuta di accogliere quattro albanesi? È tempo perso se gli ricorda alcuni immortali princìpi. […] L’intellettuale serio dovrebbe lavorare per riscrivere i libri scolastici su cui studierà il nipote di quel sindaco, ed è il massimo (e il meglio) che gli si possa chiedere”. Non neghiamo – ironizza Tabucchi – che l’intellettuale avveduto ritenga inutile rieducare il sindaco di Milano: magari gli sembrerebbe più opportuno, nel caso non gli piaccia l’operato di quel sindaco, manifestare la sua opinione per indurre gli elettori a non rieleggerlo più» 30. L’intellettuale che ha un po’ del prestigio di Platone, lo spenda per rimediare alla gastrite, ai malanni (che talvolta sono crimini) che la cattiva politica compie. Modo concreto di far valere, anziché sventolarli retoricamente, gli immortali princìpi. Qui e ora, senza limitarsi a sperare che «i nipotini del sindaco di Milano siano da grandi migliori del nonno» 31. Perché Tabucchi ha messo in bocca alla rivoluzionaria Marta l’incoraggiamento politico ed esistenziale «la smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro» 32, ma il futuro che si costruisce con gli altri nasce da un impegno che rifiuta il procrastinare, altrimenti scade a calende greche: «Per quanto mi riguarda, io, caro Adriano Sofri, oggi, ora, in quanto intellettuale (o meglio in quanto scrittore, il che è differente ma sostanzialmente uguale) voglio vivere nel mio oggi e nel mio ora» 33, e fornire ora il contributo a combattere la gastrite. Il futuro con-gli-altri, nella rivolta contro menzogna e ipocrisia d’establishment, significa poter scegliere, nell’alternativa posta da Camus, la speranza anziché il suicidio/«solo-una-sopravvivenza» 34.

Di questo impegno qui-e-ora, concreto, di questo spendersi in quanto intellettuale e scrittore mettendo a disposizione il proprio patrimonio di credibilità e visibilità (la «fama», insomma), è parte cruciale in questo testo la forma di lettera aperta ad Adriano Sofri. Polemica esplicita, e scomoda, per la carcerazione di Sofri, condannato come mandante morale dell’omicidio del commissario Calabresi sulla base della parola di Leonardo Marino, che si autoaccusò come esecutore materiale. Iter giudiziario dalle travagliate vicende, 8 processi, 15 sentenze e 18 pronunciamenti, in uno dei processi d’appello tutti gli imputati erano stati assolti, gli innumerevoli dubbi non sono mai stati fugati, il principio «in dubio pro reo» non ha certo celebrato i suoi fasti. «La tua vicenda, oltre che costituire l’esempio di una sentenza che a molti appare ingiusta perché priva di prove verificabili, assume una dimensione molto più vasta: è davvero il perturbante di freudiana memoria, un unheimlich non più desunto da un racconto di Hoffmann, ma dalla Storia» 35.

La Resistenza: in polemica col presidente Ciampi

Non è questo il solo spendersi scomodo di Tabucchi nella vita civile italiana, anzi. Nella lettera a Sofri aveva scritto «il mondo può essere una prigione, e Il mondo è una prigione (1948) di Guglielmo Petroni (uno scrittore, un intellettuale) ne è una splendida descrizione romanzesca. Ma è anche uno dei libri più belli sulla Resistenza. È questa la novità intellettuale di quel libro. Era una novità allora, può essere una novità anche oggi» 36. E sul tema della Resistenza torna in un’altra lettera aperta, perfino più impegnativa e più scomoda, rivolta a Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia, presidente del Consiglio dei ministri, più volte ministro, infine eletto presidente della Repubblica il 13 maggio 1999.

Illustrissimo Signor Presidente, domani è il 25 aprile, giorno della Liberazione dal fascismo, della vittoria degli alleati sui nazifascisti e dei partigiani sui repubblichini, diventato, proprio per questi motivi, festa nazionale, cioè di tutti gli italiani. Perché sull’antifascismo è fondata la nostra Repubblica e in esso si riconosce la nostra Patria.

Circa tre anni fa mi è capitato di assistere alla cerimonia dell’ingresso delle spoglie mortali dello scrittore André Malraux nel Panthéon di Francia. La cerimonia era presieduta dal Jacques Chirac, presidente della Repubblica, che rappresenta la destra francese, politicamente seguace del partito di quel generale de Gaulle, di cui Malraux era stato ministro, che assieme alle sue truppe, con i partigiani francesi, aveva liberato la Francia dagli invasori nazisti. Ma Chirac non introduceva nel Panthéon un ex ministro di de Gaulle, bensì un eroe nazionale: il Malraux che da antifascista aveva combattuto nella guerra civile spagnola contro il franchismo e da partigiano nelle formazioni dell’Alsazia contro i nazifascisti. In quella cerimonia l’orchestra, al momento dell’ingresso del feretro nel Panthéon, eseguì l’inno partigiano e la Marsigliese.

L’antifascismo, in Francia come in Italia, non è infatti un «optional»: è un tratto comune delle democrazie europee del dopoguerra. […] De Gaulle ha imposto l’antifascismo come orizzonte invalicabile non solo dell’essere democratici ma addirittura dell’essere francesi: chi flirta con ogni formula di revisionismo fascistizzante o fascistoide, chi giustifica in qualche modo le ragioni di Vichy è considerato un traditore della Patria.

Anche in Germania l’antifascismo è in Costituzione, e reato penale negare o ridimensionare lo sterminio del popolo ebreo (così come degli zingari, degli omosessuali, degli handicappati, degli oppositori politici di Hitler).

In Spagna, […] in Portogallo, […] sarebbe superfluo nominare il Belgio, l’Olanda, la Danimarca. […] L’antifascismo, dunque, non è un «optional» per nessuno, bensì l’irrinunciabile orizzonte comune dell’attuale cittadinanza democratica europea. Ora succede che nel nostro paese, la cui Costituzione nasce dalla Resistenza e si fonda sull’antifascismo, la destra italiana guardi al nazifascismo con rinnovato affetto, tanto da consentire che i seguaci di quella ideologia che ha portato nella nostra Europa stermini e sciagure vengano legittimati, vezzeggiati, coltivati, permettendo loro una sfacciataggine e un’arroganza che lede la nostra stessa Costituzione. Anche il partito dell’onorevole Berlusconi, come hanno denunciato con allarme Alessandro Galante Garrone e Paolo Sylos Labini, ha compiuto il passo decisivo di un abbraccio funesto che lo qualifica apertamente come destra antidemocratica e parafascista, e proprio per questo si autoesclude dai valori dell’Europa 37.

Sono pagine che sciaguratamente con gli anni sono diventate e diventano vieppiù di agghiacciante attualità.

Poiché Ciampi, come i suoi predecessori Pertini e Scalfaro, si era recato a rendere omaggio alle 560 vittime del massacro operato dai nazisti a Sant’Anna di Stazzema, Tabucchi terminava la lettera con una lunga citazione dello scrittore Cancogni che quell’eccidio aveva raccontato con parole che si definiscono «indimenticabili» e che invece risultavano, e più che mai risultano, trascurate, dimenticate, rimosse. Tanto è vero che Tabucchi era costretto a ricordare al presidente Ciampi che «il 25 aprile a Lucca, a pochi chilometri dal luogo di quell’eccidio, i neofascisti di Forza Nuova, con la complicità del sindaco di Forza Italia (Alleanza di Forze, a quanto pare), signor Pietro Fazzi, celebreranno il gerarca fascista Pavolini in una palazzina comunale» 38.

Questo testo uscì su «La Primavera di MicroMega», sul terzo di sei numeri settimanali pubblicati dalla rivista in occasione delle elezioni politiche del 2001. I grandi quotidiani, che pure avevano fatto a gara per ospitare la sua firma nei decenni passati, questi suoi interventi non li pubblicavano più da tempo (nemmeno nella forma di interviste). Io ho perciò avuto il privilegio di pubblicare su MicroMega moltissimi testi di Tabucchi, più significativi ancora di quelli di Pasolini sul Corriere, e di un’attualità che cresce col procedere del tempo e della crisi delle democrazie europee. Non per mio merito, però, ma per l’ignavia della grande stampa italiana. Lo scrittore pubblicato su Le Monde ed El País in Italia era di fatto ostracizzato, costretto a rifugiarsi nell’«esilio» di una piccola rivista.

Di Ciampi si occuperà, polemicamente, più volte. Non certo perché volesse «prenderlo di mira». Anzi. In Ciampi aveva riposto grandi speranze, come del resto tantissimi italiani coerentemente democratici. Ma Tabucchi aveva la dote singolare, cioè il coraggio raro e sempre più introvabile, di mettere nomi e cognomi quando armava di strali la sua polemica. Scegliendo i nomi di maggior peso, le figure di maggior potere, non gli obiettivi contro i quali la vis polemica trova bersaglio facile, diventando con ciò innocua.

Tabucchi, i Girotondi, D’Alema e san Escrivà

Ad esempio, Berlusconi presenta una legge sulle rogatorie che rende più difficile accertare reati che possono riguardare lui e i suoi amici. Tabucchi mette il dito nella piaga: scandaloso non è Berlusconi perché «non so cosa ci si aspettava da un personaggio che ha pesanti pendenze giudiziarie e un impero economico di cui non si è mai conosciuta la provenienza. […] Quello che mi pare sorprendente è che gli stessi parlamentari che hanno tanto gridato allo scandalo non abbiano manifestato a sufficienza il loro stupore per il fatto che il giorno prima della discussione della legge in Senato il presidente della Repubblica avesse offerto una “colazione di lavoro” al capo del governo e a molti suoi ministri: in pratica a tutto il governo Berlusconi» 39. Immaginava che «familiarità» del genere «si verificassero solo in certi paesi dell’America Latina. Evidentemente no» 40.

Tabucchi non tollera l’ipocrisia con cui tanti critici di Berlusconi, politici o editorialisti, non hanno il coraggio di criticare Ciampi quando si mostra corrivo con Berlusconi: «Se un presidente della Repubblica, la mattina mentre prende il caffè, controfirma una legge votata la notte precedente, vuol dire che a lui quella legge piace. Questo è elementare, direi ai molti Watson del nostro paese» 41.

Ancora più grave l’episodio di «macelleria» della caserma di Bolzaneto, quando i manifestanti contro il G8 di Genova fermati, furono pestati a sangue per ore e sottoposti a pesantissime sevizie. Episodi per i quali la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per tortura. Molto prima di quella sentenza, Tabucchi scrive:

È stato affermato che, nei giorni del G8 a Genova, quando la polizia è entrata nella scuola Diaz e poi durante gli arresti della caserma di Bolzaneto, c’è stato un vuoto costituzionale: la polizia avrebbe usato metodi «cileni». […] L’onorevole Berlusconi è apparso in televisione annunciando agli italiani che la polizia ha fatto solo il suo dovere. Il capo dello Stato ha preso un’iniziativa inedita in Europa, dove i presidenti della Repubblica nei momenti gravi del proprio paese di solito si rivolgono da soli alla nazione, ed è apparso in televisione a fianco del presidente del Consiglio [Berlusconi], confermando con la sua sola presenza le parole di quest’ultimo 42.

Non stupisce, allora, che Tabucchi aderisca alla grande manifestazione dei Girotondi del 14 settembre 2002 a piazza san Giovanni a Roma, lanciata da Nanni Moretti, Pancho Pardi e il sottoscritto l’ultimo giorno di luglio (e a cui darà un contributo organizzativo essenziale Olivia Sleiter). «Caro Paolo, aderisco alla “Festa di protesta” del 14 settembre perché di epidemie l’Europa ne ha avute fin troppe. Un caro saluto, Antonio», e per il quaderno speciale di MicroMega che seguirà la manifestazione scriverà un delizioso e feroce apologo sul «paese del Pirlimpimpim» 43. I Girotondi nascevano contro Berlusconi e contro la mancata lotta della sinistra contro Berlusconi, Tabucchi si muoveva con i suoi scritti sulla stessa lunghezza d’onda da tempo.

A differenza di Pasolini, però, non aveva più spazio sui grandi giornali italiani. Ne era anzi messo all’indice. Tanto è vero che il suo articolo contro Massimo D’Alema che va a genuflettersi per la santificazione del fondatore dell’Opus Dei monsignor Escrivá de Balaguer uscirà su El País, principale quotidiano spagnolo, ma in Italia MicroMega lo diffonderà attraverso il sito www.centomovimenti.it (nato sulla scia dei Girotondi) e poi sul numero cartaceo 4/2002.

Se D’Alema avesse espresso ammirazione per gli interventi taumaturgici e a quanto pare inspiegabili dalla medicina del prelato spagnolo (e cioè che costui abbia guarito dal cancro un malato terminale o bloccato alla base della nuca di un poveretto un aneurisma diretto al cervello), non ci saremmo stupiti. Credere o meno ai miracoli riguarda unicamente il privato cittadino D’Alema, non il D’Alema uomo politico e pubblico [era già stato presidente del Consiglio]. Del resto la volontà divina, per chi crede in Dio, è misteriosa. E anche le preferenze che il Padreterno possa accordare eventualmente a un monsignor Escrivá, collaboratore del dittatore fascista Francisco Franco e apologeta del massacratore Pinochet, riguardano unicamente il Dio in questione. […] D’Alema invece ha espresso un giudizio politico, elogiando il Balaguer che coniugando religione e banche, torturatori e sacramenti, Vangelo e società offshore, ha saputo riportare i mercanti nel Tempio cacciati da Cristo. […] Seguo nel mio tempo libero le mosse del politico D’Alema. Probabilmente ci sarebbero cose più interessanti da fare, ma a volte ci assumiamo inspiegabilmente compiti ingrati 44, concludendo con l’impossibilità ormai acclarata che D’Alema possa «dire qualcosa di sinistra», e meno che mai farla.

Ironia e lucidità sono le cifre dei testi civili di Tabucchi. Che ha diagnosticato con grande anticipo l’irrecuperabilità del partito post-comunista, nelle sue diverse metamorfosi di etichetta, a una politica di sinistra, e la tematizzerà nell’invettiva «A casa, signorini!», che rovesciando la metafora calcistica su chi ormai da tempo ha umiliato in quei termini la vita politica, adeguandosi al linguaggio di Berlusconi, conclude così la sua analisi: «A casa i dirigenti di una squadra che non sa battersi lealmente con la squadra avversaria ma che ama il flirt e le partite “amichevoli” (si intende già stabilite). Quelli, a casa» 45.

 

L’ostracismo d’establishment e ‘le fogne del mondo’

Oltre che su El País altri suoi testi troveranno ospitalità con grandissima evidenza su Le Monde. Sulle testate italiane equivalenti, la Repubblica e il Corriere della Sera, non più. E non certo perché «nemo profeta in patria», visto che i libri di Tabucchi in Italia continuano ad avere grandissimo successo, ma perché la funzione civile del giornalismo è progressivamente regredita, e le invettive pasoliniane non le pubblicherebbe nessuno, così come non vengono pubblicate quelle di Tabucchi.

Che nel 2009 sentirà la necessità di radicalizzare la sua invettiva, non certo per sopravvenuto suo estremismo, ma per quello che giudicava un estremizzarsi dell’atteggiamento corrivo della grande informazione: fino all’omertà. Per MicroMega scriverà perciò un breve testo, folgorante e feroce, senza perifrasi, dove la necessità dell’indignazione sente il dovere di assumere anche la pesantezza del turpiloquio. Si intitola «Le fogne del mondo» e meriterebbe di essere riportato per intero. È composto di 35 tesi, o forse pericopi. Ne stralcio solo qualcuna.

  1. Finalmente si è arrivati alla svolta. Era a gomito. Si è scoperto cosa c’era dietro. C’era merda.
  2. Questa è una merda maiuscola, perciò bisogno scriverla con la maiuscola: Merda.
  3. Non avendo trovato Merda di distruzione di massa, gli americani hanno trovato un’altra motivazione, che ora è chiamata: portare Merda.
  4. Due scrittori americani hanno chiamato Bush «criminale di guerra». In Italia non lo può scrivere nessuno. […] Propongo di dire merda alla Merda. Quella Merda è un criminale di guerra.
  5. Mi sentirei molto onorato se una procura della Repubblica mi incriminasse per offese a un capo di Stato di un paese amico. È un delitto previsto dal codice. Anche una di quelle procure dove si trasportavano i processi per le Merde che esplodevano nelle nostre banche e nelle nostre piazze.
  6. Prego, c’è qualche servizio deviato nella merda che può prendere questa iniziativa? C’è qualche tessera della Merda P2 che se ne può occupare? O siete tutti impegnati in campagna elettorale?
  7. L’onorevole Fini sta aggredendo i magistrati che stanno scoprendo la Merda che i poliziotti fecero al G8 di Genova. Si capisce perché Fini è tanto inquieto: tanto va la gatta alla Merda che ci lascia lo zampino.
  8. In un programma televisivo, un ragazzotto coi riccioletti unti si rallegrava perché c’è tanta Merda anche in Cina. Era l’elogio bipartisan della Merda.
  9. Nel nostro piccolo un bel po’ di Merda la conoscevamo anche noi: da Portella della Ginestra a Ustica, passando per l’Italicus, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, la stazione di Bologna. Ma è una Merda che è rimasta lì, al suo posto. Non si sa ancora chi la fece.
  10. Davvero troppa Merda in giro. Le fogne del mondo si intaseranno. Le tubature scoppieranno, ci sarà un nuovo diluvio e tutto sarà sommerso dalla Merda. Ma prima del diluvio i grandi sacerdoti della Merda debbono eseguire la loro danza rituale. La stanno già eseguendo46.

Tabucchi non ha fatto a tempo a vedere Trump, e Johnson, e Orbán, e il governo di Radio Maryja nella Polonia che era stata di Solidarność, e Salvini. Li aveva presagiti e divinati, e che non avrebbero trovato la necessaria ferocia critica a stigmatizzarli.

Tabucchi aderirà infine ad un’altra battaglia più che mai scomoda, il diritto di ciascuno a decidere liberamente sul proprio fine vita, mandando il suo messaggio di adesione alla manifestazione «Sì alla vita, no alla tortura di Stato», organizzata da MicroMega in piazza Farnese a Roma il 21 febbraio 2009. Con parole che pochi, che pure si pretendono laici, osano proferire nell’Italia di una sinistra troppo spesso pronta al bacio della pantofola verso i desiderata del Vaticano.

Che il nostro corpo, vale a dire la proprietà privata più alta di cui disponiamo, diventi proprietà dello Stato, fa pensare a certe leggi dei regimi comunisti più feroci, lo stalinismo, il regime di Ceauşescu, il regime dei khmer rossi. […] Il Vaticano è autore di illegittime intrusioni nelle leggi italiane. […] Se alla Chiesa vaticana, come ho sentito affermare da un importante prelato, interessa la vita, ebbene si risenta con quei paesi dove la pena di morte è legale e verso le cui leggi mortifere mi sembra mostri invece una straordinaria tolleranza diplomatica 47.

Il dubbio e la coerenza

«Ero un giovane inquieto, forse più attratto dall’incoerenza che dalla coerenza, se così posso dire, o per lo meno perseguitato dal dubbio» 48, scrive Tabucchi in un frammento autobiografico rievocando la figura di un suo maestro. Dal dubbio, sì, certamente, e anche qui vibra una consonanza con Albert Camus: «Est-ce qu’on peut faire le parti de ceux qui ne sont pas sûrs d’avoir raison? Ce serait le mien» 49. Dall’incoerenza certamente no.

Il Tabucchi creatore di storie, il Tabucchi giornalista, il Tabucchi cittadino che prende sul serio la democrazia, dunque il Tabucchi in rivolta contro l’establishment, esprimono con strumenti diversi gli stessi valori morali, esistenziali, e perciò politici: la letteratura usa l’immaginario per raccontare la verità in modo ancora più profondo, attraverso l’inquietudine, cifra fondamentale della grande letteratura occidentale del Novecento 50, «la mia propensione [è] per una letteratura libera da moralismi esterni di matrice pedagogica e orientata invece verso la morale taumaturgica della fantasia» 51.

Tabucchi sa che accomodarsi nel «quieto vivere» significa già aver rinunciato alla funzione dell’intellettuale. Se si accetta di vivere, anziché sopravvivere come il Pereira dell’esordio, dunque nel presente, nel futuro, nella storia, si vive dentro il conflitto, è illusorio starne fuori, si partecipa comunque, anche l’omissione è una forma di azione. Forse senza saperlo, Tabucchi ha fatto sua la tesi di Hannah Arendt che vedeva nella creazione artistica e nell’azione politica (non come routine, ma come evento che crea un nuovo inizio) le due modalità essenziali di un’esistenza autentica.

Contro Eco che aveva concionato, con «una frase un po’ goliardica», «badate che gli intellettuali, per mestiere, le crisi le creano ma non le risolvono», Tabucchi replica riproponendo un’altra forma della stessa morale taumaturgica: «Trovo fuori luogo che gli intellettuali risolvano le crisi […] perché credo che l’ipotetica funzione dell’intellettuale non sia tanto “creare” delle crisi, ma mettere in crisi. Qualcosa o qualcuno che in crisi non sono, anzi sono molto convinti della loro posizione» 52.

Di questa morale taumaturgica, modesta e intransigente, che è il filo rosso dell’opera di Tabucchi, sentiamo più che mai la mancanza.*

1 A. Tabucchi, Sostiene Pereira, Feltrinelli, Milano 2017, p. 10.

2 Ivi, p. 177.

3 Ivi, p. 28.

4 Ivi, p. 122.

5 «Il senso della vita è la più pressante delle domande»; «cominciare a pensare è cominciare a essere logorato».

6 A. Camus, Essais, La Pleiade Gallimard, Paris 1965, pp. 99-107. «Ci abituiamo prima a vivere che a pensare. Un giorno» però «il “perché” emerge e tutto ha inizio in questa spossatezza venata di stupore». Atto che «inaugura il movimento della coscienza» e che costringe e scegliere «la speranza o il suicidio».

7 A. Tabucchi, Sostiene Pereira, cit., p. 15.

8 Ivi, p. 44.

9 Ivi, p. 45.

10 Ivi, p. 121.

11 Ivi, p. 70.

12 Ivi, pp. 72-73.

13 Ivi, p. 30.

14 A. Tabucchi, «Un fiammifero Minerva. Considerazioni a caldo sulla figura dell’intellettuale indirizzate ad Adriano Sofri», volumetto allegato a MicroMega 2/1997, poi ripubblicato in MicroMega, «La scrittura e l’impegno», n. 5/2012 (volume monografico in memoria di Tabucchi che raccoglie i suoi interventi pubblicati sulla rivista), pp. 105-106.

15 A. Tabucchi, Sostiene Pereira, cit., pp. 63-64.

16 Ivi, pp. 64-65.

17 «La stampa persegue una missione estremamente utile, estremamente onerosa e faticosa, quella di una censura continua sugli atti del potere».

18 Ivi, p. 97.

19 A. Tabucchi, «Catullo e il cardellino», in MicroMega 2/1996, poi ripubblicato in MicroMega 5/2012, p. 94.

20 Ibidem.

21 Ivi, pp. 94-95.

22 A. Tabucchi, F.S. Borrelli, «Sulla giustizia e dintorni», MicroMega, n. 1/2002.

23 A. Tabucchi, «Catullo e il cardellino», cit., p. 95.

24 Ivi, p. 97.

25 Ivi, p. 96.

26 Ivi, pp. 97-98.

27 Ivi, p. 98. Il testo di Eco cui fa riferimento è «Identikit di un fascista», la Repubblica, 25/7/1995.

28 A. Tabucchi, «Un fiammifero Minerva», cit., pp. 103-4.

29 Ivi, p. 105.

30 Ivi, p. 113.

31 Ibidem.

32 A. Tabucchi, Sostiene Pereira, cit., p. 158.

33 Id., «Un fiammifero Minerva», cit., pp. 113-4.

34 Id., Sostiene Pereira, cit., p. 15.

35 Id., «Un fiammifero Minerva», cit., p. 103.

36 Ivi, p. 114.

37 Id., «L’antifascismo, un valore irrinunciabile. Lettera aperta al presidente della Repubblica», in La Primavera di MicroMega, 3/2001, ripubblicato in MicroMega 5/2012, pp. 121-123.

38 Ivi, p. 124.

39 Id., «Le delusioni della presidenza Ciampi», in Quaderno speciale «No alle leggi “forza ladri”», supplemento a MicroMega 4/2001, poi ripubblicato in MicroMega 5/2012, p. 125.

40 Ivi, p. 126.

41 Ibidem.

42 Ivi, p. 127.

43 Id., «Una “festa di protesta”. Perché ci sarò», in Quaderno speciale «Non perdiamoci di vista», supplemento a MicroMega 3/2002, ripubblicato in MicroMega 5/2012, pp. 132-133.

44 Id., «Le parole, le idee. Il caso D’Alema/Sant’Escrivá», in «La scrittura e l’impegno», cit., pp. 134-135.

45 Id., «A casa, signorini!», in La Primavera di MicroMega 6/2001, poi ripubblicato in MicroMega 5/2012, p. 131.

46 Id., «Le fogne del mondo», in La Primavera di MicroMega 1/2004, poi ripubblicato in MicroMega 5/2012, pp. 143-146.

47 Id., «Il corpo sequestrato. In piazza contro il sondino di Stato», in MicroMega 2/2009, poi ripubblicato in MicroMega 5/2012, pp. 147-148.

48 Id., «Ritratto d’autore», in MicroMega 4/1996, poi ripubblicato in MicroMega 5/2012, p. 118.

49 A. Camus, Essais, cit., p. 383. «Si potrebbe fare il partito di chi non è sicuro di avere ragione? Sarebbe il mio».

50 A. Tabucchi, «Osservando il Novecento», in MicroMega 1/1999, poi ripubblicato in MicroMega 5/2012, p. 88.

51 Ivi, p. 93.

52 Id., «Un fiammifero Minerva», cit., p. 107.

* Il testo è una rielaborazione della relazione tenuta dall’autore nell’ambito del convegno su Antonio Tabucchi organizzato a Lisbona dalla Fondazione Gulbenkian dal 7 all’11 aprile 2018. È in corso di pubblicazione l’edizione portoghese degli Atti, a cura della Fondazione Gulbenkian.

* Tratto da MicroMega 4/2020



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