Stachánov: eroe dell’etica comunista o schiavo della logica capitalistica?

I cambi del nome delle città hanno scandito il processo di decomunistizzazione o di denazificazione (a seconda dei punti di osservazione) delle repubbliche del Donbass. È il caso di Kadiïvka-Stachánov.

Teresa Simeone

Il processo di decomunistizzazione o di denazificazione (a seconda dei punti di osservazione) delle repubbliche del Donbass passa anche attraverso il cambio del nome come quello di una cittadina dell’Ucraina, oggi nell’oblast’ di Luhans’k, nel sud-est del paese, Kadiïvka, denominazione decisa nel 2016 dalle autorità ucraine ma non riconosciuta dalle autorità della Repubblica Popolare di Lugansk, per le quali la città conserva il nome di Stachánov, in onore di Aleksej Grigór’evič Stachánov, minatore sovietico, eroe del lavoro socialista.

Stachánov, premiato col massimo riconoscimento attribuito dal governo sovietico per meriti eccezionali in campo economico e culturale, è il migliore – o il peggiore – testimone di umanità al lavoro.

Nel 1935 riuscì, grazie a un’intuizione metodologica basata sulla specializzazione delle fasi estrattive, ad aumentare di ben 14 volte la produttività, estraendo, nella regione del Donetsk, 102 tonnellate di carbone in 5 ore e 45 minuti. Sicuramente fu avvantaggiato, nel raggiungere tale eccezionale traguardo, da strumenti particolari (si parlò anche della pianificazione di un’azione di propaganda del governo), ma il punto non è questo, quanto piuttosto la considerazione che la sua impresa era possibile e se lo era stata per lui avrebbe potuto esserla anche per gli altri lavoratori.

Esaltato da Stalin che lo premiò con numerose concessioni, celebrato dalla stampa sovietica e proposto come esempio di operaio comunista intelligente e innovativo, capace di inventare nuove modalità che efficientassero il lavoro, diede vita a un vero e proprio movimento che avrebbe dovuto ricacciare le accuse di indolenza degli operai sovietici e lanciare un modello di lavoratore dedito in maniera assoluta al proprio dovere. E, in verità, si riuscì in questo: la maggior parte del popolo sovietico si impegnò indefessamente, ispirato dal progetto di costruire un nuovo mondo, un paese moderno, in grado di competere con quelli più industrializzati. Ritmi estenuanti, indifferenza per la qualità della propria vita, promozione del sacrificio personale e spinta all’emulazione tra i lavoratori, lo Stakhanovismo ha sicuramente migliorato la produttività dell’URSS, portando a veri gioielli dell’ingegneria come la splendida metropolitana di Mosca, con più di duecento stazioni, quarantaquattro delle quali considerate patrimonio culturale. Ma a quale prezzo?

Lasciando il caso specifico, proviamo ad allargare lo sguardo: aumentare la produttività con l’idea che certi ritmi non siano inaccessibili ai lavoratori vuol dire che la resistenza umana può essere regolata e potenziata. Si finisce, però, nello stesso tempo, per indurre disinteresse verso ogni elementare rivendicazione, come un salario equo, il diritto al riposo, alle ferie, alle malattie retribuite, a turni più umani. Non solo, ma anche il problema della sicurezza diventa secondario, anzi ininfluente, e se lo è per il dipendente, figuriamoci per il datore di lavoro! L’ambizione a primeggiare e ad aumentare gli standard delle prestazioni, lo zelo nello svolgere il lavoro in maniera prolungata e continuativa, da un lato, introducono miglioramenti nel processo di produzione rendendolo più efficace, ma asserviscono al compito, aumentano la quota obbligatoria, creano competizione e conflittualità tra i dipendenti, generano ansia da prestazione.

Lo stachanovismo fa bene al capitalista, non all’operaio. Anche quando il capitalista è lo Stato. Non a caso Marx credeva che la rivoluzione comunista avrebbe dovuto liberare l’uomo dall’asservimento al lavoro inteso come coercitivo, indicandone invece l’essenza nell’“autorealizzazione individuale”, non riducibile meramente a un’attività eterofinalistica. Fatto sta che, applicato oggi, come spesso si vorrebbe da alcuni proprietari che ricorrono alla retorica dell’azienda come “una grande famiglia” (quando si tratta di distribuire i carichi ai lavoratori, non certo gli utili) o di una “missione” per cui si è encomiabili (magari con un panettone a Natale o una Colomba a Pasqua), rischia di aumentare le disuguaglianze e di produrre una perdita progressiva dei diritti sociali: d’altronde se è vero che l’incremento del profitto per i dirigenti è tale da non avere precedenti nella storia è perché i guadagni sono cresciuti in maniera esponenziale rispetto al passato. Non per i lavoratori, però, che anzi hanno visto i propri salari ridursi o restare invariati nonostante l’aumentato costo della vita. La precarizzazione, inoltre, che avrebbe dovuto rendere il lavoro più flessibile e quindi agile per chi assume, si è rivelata fallimentare come soluzione e l’unico risultato concreto è stata la delegittimazione dell’assunzione a tempo indeterminato, il cosiddetto “posto fisso”, la cui ricerca tutti si affannano a considerare retaggio di un mondo ormai ingenuamente connotato e dunque improponibile.

Il discorso è ovviamente complesso e l’introduzione di un salario minimo, modalità di introduzione del riconoscimento di una soglia al di sotto della quale non si dovrebbe mai e per nessuno scendere, voluta dalla UE, lo dimostra. Contrari non sono solo forze di centrodestra e Confindustria ma anche i sindacati, divisi tra chi propone ad esempio i dieci euro come sbarramento e chi vorrebbe legare l’attuazione della direttiva Ue alla contrattazione collettiva, facendo coincidere il salario minimo coi minimi contrattuali. Eppure, la direttiva dell’Unione mira a tutelare la dignità del lavoro attraverso retribuzioni eque e adeguate per tutti: nessun obbligo o imposizione per i paesi aderenti quanto piuttosto, come ha evidenziato il commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni, “Un’occasione. Per proteggere il lavoro povero, non certo per indebolire la contrattazione collettiva“.

A fronte di categorie più forti e visibili socialmente, perché maggiormente sindacalizzate e con una solida coscienza dei propri diritti, c’è una gran parte di lavoratori che guadagnano meno di mille euro al mese o di 9 euro lordi all’ora, per non parlare di quelli poco “emergenti” o del tutto sommersi che sono letteralmente sfruttati e tacciono: per bisogno, per necessità, perché nemmeno consapevoli del fatto che godono di specifiche tutele. Tra questi c’è chi è convinto che l’unico modo per conservare il proprio lavoro sia la qualità delle performances, la fedeltà all’azienda, il silenzio sui bisogni, ritmi oltre il dovuto. In tale contesto, anche la dedizione quasi compulsiva al lavoro da parte di qualcuno troppo zelante finisce, come un boomerang, nel trascinamento emulativo conseguenziale, per coinvolgere negativamente tutti i lavoratori, inducendoli ad adeguarsi a determinati standard e comprimendo diritti e tutele. Accade in diversi settori, come quello dei servizi turistici, della ristorazione, dell’edilizia, dell’agricoltura, del food delivery, ma anche in tanti ambienti scarsamente permeati da dibattiti sui diritti in cui è facile far passare l’idea che, “se vuole rimanere lì”, il dipendente deve accettare le regole (quelle stabilite unilateralmente dal datore di lavoro che ovviamente conta sulla sua ignoranza civica), che massimo una settimana di ferie all’anno è quella concessa e che se si ammala deve rimanere a casa il meno possibile e rientrare quanto prima.

Le recenti polemiche, scoppiate in seguito alle dichiarazioni di chi si lamenta che i giovani non vogliano fare sacrifici e chiedano condizioni migliori e che coinvolgono anche una misura sociale come il reddito di cittadinanza, sono possibili proprio perché, a fronte di una manodopera vulnerabile e perciò disponibile al ricatto di alcuni datori di lavoro, l’unica alternativa per chi voglia far valere i diritti costituzionalmente garantiti sono le dimissioni (che vengono invogliate contro un licenziamento che creerebbe problemi) o l’accettazione acritica delle “regole” unilateralmente definite.

E allora, in questo senso, anche un eroe comunista come Stachánov rischia di incarnare un modello di lavoratore idealizzato, funzionale, in realtà, a una logica ancora e sempre di tipo capitalistico.



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