Lo Stato islamico e la banalità del male

Nel libro “Daeş: viaggio nella banalità del male” Sara Montinaro ci conduce in un viaggio nell’inferno dello Stato Islamico fornendoci elementi di conoscenza essenziali.

Domenico Gallo

“La banalità del male” è il titolo del noto saggio di Hannah Arendt sul processo di Adolf Eichmann, celebrato a Gerusalemme nel 1961, che l’autrice seguì come inviata del settimanale New Yorker. Lo sguardo di Hannah Arendt si concentrò sulla mediocrità del personaggio e sulla banalità delle dinamiche che avevano spinto Eichmann e tanti altri della sua generazione a diventare protagonisti del male assoluto della shoah.

Non a caso il saggio di Sara Montinaro sul c.d. Stato Islamico si intitola Daeş: viaggio nella banalità del male (Meltemi, 2020). L’autrice ci conduce per mano a esplorare il fenomeno più brutale che si è verificato nel nostro secolo e ce ne svela l’organizzazione del potere, le dinamiche interne, le vicende della quotidianità. È un viaggio nell’orrore, un viaggio nell’inferno dello Stato Islamico che riuscì a governare fra il 2014 e il 2018 un vasto territorio che va dall’Irak del nord alle regioni della Siria dell’est instaurandovi un regime di terrore e di morte. In questo viaggio Sara Montinaro, avvalendosi della sua esperienza diretta, maturata durante un anno di permanenza nella Siria dell’Est, e delle numerose interviste realizzate sul campo, ha delineato tutti i gironi di questa esperienza infernale, fornendoci elementi di conoscenza essenziali che fanno uscire questa vicenda dalla mitologia nera in cui è immersa, descrivendone i meccanismi culturali, legislativi, amministrativi, finanziari, comunicativi, psicologici, attraverso i quali è stata costruita giorno per giorno la banalità del male.

I piani e gli aspetti trattati dalla Montinaro sono molteplici. La parte più interessante del libro della Montinaro risulta essere quella dedicata all’organizzazione interna all’Isis attraverso la descrizione dettagliata di una organizzazione parastatale tendente a realizzare una struttura controllata, burocratizzata, fortemente gerarchizzata e ramificata nei settori strategici, con a capo il Califfo Abu Bakr al Bagdad. Una struttura in cui si intrecciano aspetti istituzionali/amministrativi, sociali (esisteva un vero e proprio welfare dell’Isis), di intelligence e di security, connotata da un integralismo senza cedimenti. Il controllo del territorio avveniva attraverso un apparato amministrativo articolato in 18 province. Le funzioni statali venivano esercitate attraverso una serie di Dipartimenti (Dîwān), fra i quali il Dipartimento della guerra, che si occupava della conduzione delle operazioni militari, il Dipartimento dei combattenti, che curava l’accoglienza degli stranieri (i foreign fighters) e l’addestramento di tutti i combattenti, il Dipartimento delle finanze, che si occupava di reperire le risorse, attraverso la vendita del petrolio (alla Turchia e allo stesso Assad) e dei reperti archeologici, di riscuotere le tasse e di battere moneta.

Una menzione speciale merita il Dipartimento della fatwa, una sorta di ufficio legislativo che emanava la legge santa per giustificare comportamenti altrimenti discutibili. Fra le più sconcertanti emerge la fatwa n. 64, pubblicata dalla rivista on line “Dabiq” in data 29 gennaio 2015 che autorizzava la schiavitù delle donne yazide, pubblicando i dettagli e le pratiche da utilizzare per le aste di schiavi. Nello Stato islamico la pratica della schiavitù sessuale veniva regolata attraverso la creazione di una serie di istituti giuridici (mercati, listini, contratti d’acquisto registrati presso le Corti islamiche) che si inserivano nel quadro di una vera e propria “teologia dello stupro”. Una particolare importanza rivestiva il Dipartimento che si occupava di media e propaganda. Questo Dipartimento era capace di realizzare filmati di ottima qualità e di far filtrare i messaggi di propaganda dello Stato islamico utilizzando i social, Facebook, Twitter, Tik Tok e di produrre persino i videogiochi per bambini. Naturalmente non poteva mancare una struttura specializzata nella violenza interna per fini di sicurezza, l’Amni, le SS dello Stato islamico. L’Anmi controllava gli squadroni della morte che operavano nei confronti di chiunque fosse sospettato di infedeltà allo Stato islamico, anche se membro dell’Isis, istillando il terrore in tutte le cellule della società. All’azione repressiva dell’Amni si affiancava quella della polizia religiosa, incaricata di garantire la corretta applicazione dei precetti coranici e di giustiziare coloro che commettevano determinati crimini religiosi come l’omosessualità, l’apostasia, l’adulterio. La Montinaro dedica una particolare attenzione al ruolo delle donne nella realtà di Daeş e ne mette in evidenza la condizione di subalternità, ma anche di collaborazione nell’attività di polizia religiosa attraverso la brigata femminile Al-Khansa.

Ha scritto Umberto Eco: “il califfato dell’ISIS è una nuova forma di nazismo, con i suoi metodi di sterminio e la volontà apocalittica di impadronirsi del mondo”. Come il nazismo il califfato ha dimostrato la capacità di coniugare la modernità della tecnica con le aberrazioni più infernali.

Adesso questo mostro è stato sconfitto (ma non estinto), grazie al sacrificio delle donne e degli uomini delle unità combattenti curde, che hanno avuto 11.000 morti e 22.000 feriti e, per ricompensa, hanno ricevuto pesanti bombardamenti dalla potenza protettrice dell’ISIS, la Turchia. Nella parte finale del libro Sara Montinaro accenna alla necessità di pervenire a una lettura dell’Islam differente da quella posta a base della folle avventura dello Stato islamico. Per estirpare le radici di Daeş bisogna guardare dentro al fenomeno religioso e stimolare la comunità musulmana a ripudiare la lettura del Corano posta a base dell’ISIS, come hanno mostrato nella loro critica all’estremismo violento i più grandi sapienti musulmani, nella loro lettera del 24 settembre 2014 ai capi terroristi del cosiddetto Stato islamico (L’Islam non avanza con la spada). Una riflessione proseguita con l’importante documento di Abu Dhabi sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato il 14 febbraio 2019 da papa Francesco e dal Grande Iman di Al-Hazar. “C’è uno stereotipo – osserva Raniero La Valle – che fa delle fedi religiose il regno dell’immutabile ma, come dice l’esperienza, esse sono in grado di cambiare sé stesse per rispondere a problemi nuovi”.

In un mondo in cui avanza una politica dell’odio e una politica della barbarie – conclude Sara Montinaro – è arrivato il momento di mettere al centro l’essere umano in quanto tale e costruire relazioni in cui l’amore diventi uno strumento per resistere a chi ci vuole indifferenti, individualisti e soli”.



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