Stefano Dal Corso, una storia di vergogna e di coscienza civile e democratica

La morte per "suicidio" di Stefano Dal Corso in carcere a Oristano, l'ottobre scorso, non ha mai convinto sua sorella né l'avvocata. Dopo sette istanze di esame autoptico respinte, a seguito di una grande mobilitazione della società civile nel quartiere del Tufello e attraverso i media, il tribunale di Oristano ha finalmente disposto l'autopsia. Un passo avanti verso la verità e la giustizia per un detenuto, parte di quella popolazione sistematicamente ritenuta di serie B.

Germano Monti

Agosto 2022. Stefano Dal Corso non è quel che si dice un cittadino modello. Ha commesso qualche reato estorsivo e sta scontando la sua pena agli arresti domiciliari in casa della sorella Marisa, al Tufello, a pochi metri dal palazzo dove campeggia il gigantesco murales con l’immagine di un celebre abitante del quartiere, Gigi Proietti. Quel giorno Stefano è solo in casa con i due cani della sorella, che hanno bisogno di uscire. Non ci pensa troppo, prende il guinzaglio e li porta a fare una passeggiatina sotto casa. Sfortuna vuole che venga fermato da una pattuglia della polizia e, poiché ha violato gli arresti domiciliari, venga portato al carcere di Rebibbia.

Poche settimane dopo, i primi di ottobre, Stefano deve affrontare un processo in Sardegna, ad Oristano. Avrebbe la possibilità di collegarsi in videoconferenza, ma sceglie di essere presente di persona perché questo gli consente di vedere la figlia, che vive in Sardegna con la compagna da cui è separato. Il processo si mette bene, Stefano può vedere la sua bambina e riceve anche una seria proposta di lavoro. È deciso a mettere la testa a posto, a ricostruirsi una vita, e lo fa sapere a Marisa. Alcuni contrattempi ritardano il suo ritorno a Rebibbia, dove deve scontare gli ultimi due mesi di reclusione.

 

Secondo i rapporti ufficiali, il giorno prima della partenza per Roma, il 12 ottobre 2022, Stefano viene trovato impiccato nella sua cella. Per i responsabili del carcere di Oristano e per la magistratura locale, non c’è ombra di dubbio: Stefano si è suicidato. Ma Marisa non ci crede. Perché un uomo che deve scontare ancora solo poche settimane di reclusione, felice perché ha potuto riabbracciare la figlia che adora e  che  ha la concreta possibilità di ricostruire la propria esistenza, dovrebbe togliersi la vita?

Sono tante le cose che non convincono Marisa e l’avvocata Armida Decina, che chiedono la documentazione relativa al “suicidio” di Stefano. Arriva ben poco: una relazione scarna e due immagini in fotocopia del corpo di Stefano. L’avvocata Decina insiste e, finalmente, giunge una documentazione più corposa, una relazione più dettagliata e accompagnata da alcune foto a colori. Una documentazione che, anziché chiarire i dubbi, li accresce. Nei documenti si legge che Stefano si sarebbe ucciso impiccandosi alle sbarre della finestra della sua cella con un lenzuolo fatto a strisce con un taglierino. Le foto, però, mostrano un letto perfettamente rifatto, con le lenzuola al proprio posto, e del taglierino non c’è traccia. La finestra della cella, poi, è esattamente sopra il letto, ad una distanza del tutto insufficiente per “appendersi”. Non basta: le poche foto inviate all’avvocata Decina mostrano Stefano completamente vestito, non ci sono immagini della scena del “suicidio” e non è possibile capire se sul corpo ci siano segni particolari. Inoltre, Marisa non riconosce quegli indumenti, anzi, è convinta che le scarpe indossate dal cadavere non siano quelle che Stefano portava sempre. La relazione, poi, appare confusa e contraddittoria sugli orari del ritrovamento del corpo e quelli della perizia medica effettuata. Quanto alle telecamere di sorveglianza, quel giorno non erano in funzione, a differenza di quello precedente e quello successivo al fatto, quando hanno funzionato regolarmente.

C’è un solo modo per capire cosa sia realmente successo: effettuare un esame autoptico del corpo di Stefano ed è questa la richiesta avanzata dalla sorella di Stefano e dall’avvocata Decina. La Procura di Oristano rigetta la richiesta, affermando che non sussistano i motivi. Per Marisa inizia un calvario che non può non ricordare quello vissuto da un’altra sorella di un uomo morto mentre si trovava in “custodia” dello Stato: Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi.

2023. La storia di Stefano Dal Corso inizia ad interessare l’opinione pubblica, anche a seguito di un episodio inquietante: l’ 8 marzo due sedicenti corrieri di Amazon consegnano alla sorella di Dal Corso un pacco, indirizzato al fratello, contenente un libro. Si tratta di un testo di Maria Simma, mistica austriaca che sosteneva di parlare con le anime dei defunti in Purgatorio. L’elemento inquietante è che nel libro consegnato a Marisa Dal Corso sono sottolineate due parole: “confessione” e “morte”. Ad Amazon, la consegna non risulta e le successive perizie rivelano che i timbri e il codice a barre sul pacco sono contraffatti. Il 29 marzo la senatrice Ilaria Cucchi promuove una conferenza stampa, cui prende parte anche Luca Blasi, in rappresentanza del Municipio III di Roma, quello dove si trova il quartiere di Dal Corso. Il 12 aprile centinaia di cittadine e cittadini del Tufello manifestano per le strade del quartiere per sostenere le richieste della famiglia di Stefano Dal Corso. La manifestazione vede gli interventi della sorella di Stefano e dell’avvocata Decina, oltre a quello dell’assessore Luca Blasi, che continua a seguire la vicenda in prima persona. In piazza è presente anche il Presidente del III Municipio, Paolo Marchionne, insieme ad altri componenti della giunta municipale.

Per altri mesi, mentre il corpo di Stefano si trova in una cella frigorifera, si reiterano le richieste di effettuare l’autopsia, regolarmente respinte dalla magistratura di Oristano. All’iniziativa di Ilaria Cucchi si aggiungono quelle di Roberto Giachetti, parlamentare di Italia Viva, di Roberta Bernardini, dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, dei deputati Pd della commissione Giustizia, Debora Serracchiani, Federico Gianassi, Michela Di Biase, Marco Lacarra e Alessandro Zan. Nel frattempo, le istanze per l’effettuazione dell’autopsia respinte dai magistrati di Oristano sono arrivate a sette, nonostante i pareri espressi da alcuni autorevoli medici legali interpellati dalla famiglia di Stefano.

Nella seconda metà di ottobre del 2023, però, ad un anno dalla morte di Stefano, la Procura di Oristano decide di riaprire le indagini, ipotizzando contro ignoti il reato di omicidio colposo e la vera svolta potrebbe essere quella avvenuta nella seconda metà di dicembre, subito dopo il settimo rigetto della richiesta di autopsia da parte della Procura di Oristano, quando l’avvocata Decina riceve una mail temporanea, di quelle che si autodistruggono dopo essere state lette, nella quale un uomo che dichiara di essere un agente della polizia penitenziaria le dice di voler parlare con la sorella di Stefano. Il colloquio avviene telefonicamente e viene registrato, rivelando una storia che – se confermata – getterebbe una luce ancora più livida su quanto accaduto nel carcere di Oristano.

Una parte della telefonata viene trasmessa ai media, mentre l’audio integrale viene messo a disposizione della Procura di Oristano. Nella parte resa pubblica, la sorella di Stefano ascolta in lacrime un uomo che le racconta come sia stato ucciso il fratello: a colpi di manganello e poi con una sprangata per rompere l’osso del collo e simulare così una morte per impiccagione. A commettere l’omicidio e ad inscenare il suicidio sarebbe stata una “squadretta” di agenti di custodia, con l’obiettivo di silenziare Stefano, che aveva avuto la sfortuna di assistere casualmente ad un rapporto sessuale fra due agenti nell’infermeria del carcere, dove si era recato per ritirare un farmaco. L’uomo avrebbe detto anche di essere in possesso dei vestiti e delle scarpe di Stefano sporchi di sangue, poiché il corpo sarebbe stato rivestito con abiti e scarpe presi dalle donazioni della Caritas per i detenuti. L’uomo sostiene di avere un filmato del pestaggio, ripreso da una microcamera che aveva addosso quel giorno, spiegando di averlo fatto per “pararsi il c…”.

Tutto da verificare, ma intanto, finalmente, il 28 dicembre viene comunicato che la Procura di Oristano ha accolto l’ottava istanza per l’effettuazione dell’autopsia sul corpo di Stefano, che giace ormai da quattordici mesi in una cella frigorifera. Non solo: l’ipotesi di reato, sempre contro ignoti, passa da quella per omicidio colposo ad omicidio volontario.

Una storia di vergogna, dunque, perché tale è aver negato per ben sette volte il solo esame che possa aiutare a dissipare i dubbi sulla morte di un uomo che si trovava nella custodia dello Stato. La garante per i diritti dei detenuti di Roma, Valentina Calderone, nella conferenza stampa nel corso della quale è stata annunciata la disposizione dell’autopsia, ha osservato con amarezza come da parte di molte Procure esista un’attitudine pregiudizialmente ostile nei confronti delle istanze dei detenuti e delle loro famiglie, specialmente in presenza di vicende scabrose come quella che ha coinvolto Stefano Dal Corso. L’impressione – confermata in più occasioni – è che la trasparenza sia considerata un intralcio e i diritti dei prigionieri pressoché inesistenti e comunque inferiori rispetto a quelli di cui gode ogni cittadino della Repubblica. Persino in un caso come quello di Stefano, dove evidenti anomalie apparivano sin dal primo momento, anziché istruire un’indagine, una Procura della Repubblica si è ostinata per mesi a negare ogni possibilità di fare chiarezza, e non è possibile mettere da parte le domande al riguardo. Perché non sono state verificate immediatamente le testimonianze degli altri reclusi nel Carcere di Oristano? Perché non si è fatta chiarezza sulle discrepanze nei rapporti in merito agli orari? Perché non è stato preso in considerazione il fatto che i vestiti e le scarpe indossati da Stefano non erano i suoi, quando le scarpe erano persino di un numero diverso dal suo? Perché non sono state poste domande sull’insufficienza della documentazione fotografica? Che fine ha fatto il taglierino con il quale Stefano avrebbe fatto a strisce il lenzuolo usato per impiccarsi? E dove sarebbe stato preso quel lenzuolo, visto che quelli della sua branda erano intatti al loro posto e nessun detenuto, in nessun carcere del mondo e per ovvi motivi di sicurezza, ha a sua disposizione lenzuola di ricambio? Infine, perché si è voluto negare per sette volte l’effettuazione dell’esame autoptico?

L’auspicio è che adesso l’inchiesta, rinvigorita dalla sconvolgente testimonianza ricevuta dalla sorella di Stefano, imbocchi con decisione la strada della ricerca della verità, perché questa è anche una storia di riscatto democratico. Se si arriverà a fare luce sulle circostanze della morte di Stefano Dal Corso, lo si dovrà in primo luogo alla determinazione di Marisa e dell’avvocata Decina, ma anche alla mobilitazione di una parte della politica e della società. Le iniziative parlamentari, la risonanza sulla stampa, la presenza attiva della giunta del Municipio, la solidarietà popolare del quartiere, con in prima fila gli attivisti del centro sociale Astra, hanno fatto sì che sulla vicenda non calasse il silenzio. La vitalità mostrata da tanta parte della società civile fa pensare che in questo Paese siano ancora presenti gli anticorpi democratici necessari per contrastare le derive autoritarie e securitarie. In un momento così buio come quello che stiamo vivendo, prenderne coscienza è confortante.

CREDITI FOTO: © Germano Monti



Ti è piaciuto questo articolo?

Per continuare a offrirti contenuti di qualità MicroMega ha bisogno del tuo sostegno: DONA ORA.

Altri articoli di Germano Monti

“Dalla stessa parte mi troverai”, di Valentina Mira, stana il fascismo eterno della destra di governo mascherato dalle vesti istituzionali.

La timidezza della sinistra e la debolezza dell'Ue nel fare pressione sull'Ungheria stanno lasciando Ilaria Salis da sola.

La soluzione “due popoli due Stati” è ormai fallimentare: si fermi il genocidio a favore di una convivenza democratica e secolare.

Altri articoli di Società

L’impatto sociale dell’Intelligenza artificiale non è paragonabile a quello avuto da altre grandi innovazioni tecnologiche.

"I ragazzi della Clarée", ultimo libro di Raphaël Krafft, ci racconta una rotta migratoria ancora poco indagata, almeno nei suoi aspetti più umani.

Il diritto all’oblio è sacrosanto, ma l’abuso che gli indagati per mafia ne è pericoloso.