Tra bugie, razzismi e amnesia: viaggio nella storia dell’Italia coloniale

L’ultimo lavoro dello storico Francesco Filippi, già autore di “Mussolini ha fatto anche cose buone”, “Ma perché siamo ancora fascisti” e “Prima gli italiani! (sì, ma quali?”) è un saggio sull’eredità coloniale dell’Italia dal titolo, provocatorio, “Noi però gli abbiamo fatto le strade”. Su MicroMega ne pubblichiamo le conclusioni.

Francesco Filippi

I trafficanti d’armi occidentali
Passano coi ministri a fianco alle frontiere
Andate a far la guerra a Tripoli
Nel cielo vanno i cori dei soldati
Contro al-Mukhtar e Lawrence d’Arabia
Con canti popolari da osteria
Lo sai che quell’idiota di Graziani
Farà una brutta fine
Ho scritto già una lettera al Governatore della Libia
(
Franco Battiato, Lettera al governatore della Libia, 1989)

Tra le molte amnesie diffuse che infestano la memoria pubblica di questo Paese, quella riguardante il passato imperialista e coloniale dell’Italia è probabilmente la più clamorosa.
Poco meno di un secolo di invasioni, occupazioni e conquiste che non riescono a trovare spazio nel quotidiano sentire del discorso pubblico. Eppure i segni di questo passato sono ancora ben evidenti e riconoscibili nel modo in cui l’Italia e i suoi abitanti si confrontano con il resto del mondo.

La lingua, l’arte, la comunicazione, la letteratura, l’intrattenimento, perfino i nomi di strade e piazze continuano a portare avanti un discorso «sull’altro» inficiato da questa lunga parentesi storica iniziata con l’acquisizione di un lembo di deserto nel Mar Rosso e che, di fronte alle discussioni odierne sull’opportunità di usare o meno la parola «negro» in contesti pubblici, sembra ancora non essersi chiusa.

L’Italia potrebbe, dovrebbe avere una posizione più avanzata attorno ai temi della lotta di Liberazione e in generale dei diritti umani, per via della sua stessa storia: come ricorda la storica Neelam Srivastava, «In Italia, volere una nazione anticoloniale significa volere una nazione antifascista […] Lotta anticoloniale è lotta antifascista, e viceversa»[i]. E infatti, drammaticamente, le stesse mancanze che si possono riscontrare nella consapevolezza delle nostre responsabilità nei confronti del fascismo sono ritrovabili, oggi, nei confronti del colonialismo.

La perdita traumatica dei domini d’oltremare ha probabilmente illuso molti che quel pezzo di storia potesse essere archiviato senza ulteriori analisi, eppure, se oggi nei programmi televisivi nazionali si vedono intrattenitori dipingersi il volto di nero e parlare cambiando le «p» in «b» e le «t» in «d», mentre altrove queste forme di razzismo sono da anni oggetto di stigmatizzazione, questo è dovuto in buona parte anche alla mancanza di una «strategia di uscita» da quel contesto. Per un paradossale meccanismo di cancellazione, sembra che a sessant’anni dall’ultimo ammaina-bandiera oltremare una buona parte della coscienza collettiva del Paese non abbia ancora abbandonato le proprie colonie.

Gli italiani di oggi, mentre «lavorano come negri» per portare a casa un salario e sono spaventati all’idea che «l’Africa li invada», replicano in maniera più o meno cosciente una lezione appresa qualche generazione fa, entrando non invitati in terre lontane e cercando di imporre un modello di civiltà in gran parte fittizio, a cui gli stessi invasori faticavano ad aderire.

La grande «scusa» del parossismo razziale fascista ha permesso di scaricare a livello di racconto pubblico tutte le storture secolari di una visione del mondo su Mussolini e i suoi sodali, dimenticando la lunga durata di pratiche violente e razziste che precedono e seguono il famigerato ventennio.

Dapprima convinti della propria «bianchezza» coi possedimenti coloniali e poi della propria «bontà» per aver affrontato il dopoguerra senza territori da abbandonare e, quindi, senza tutto il conseguente doloroso processo di decolonizzazione, gli italiani si trovano ancora oggi a metà di un’elaborazione del proprio contributo alla «civilizzazione», cioè all’invasione, di una fetta consistente di globo. Anche se questo contributo c’è stato, e pesa ancora su chi lo ha subito. Le tracce evidenti di questa impronta imperialista sono ancora oggi ben visibili, ma non agli occhi di molti. Pochi italiani sembrano conoscere ad esempio le origini del rastafarianesimo, religione che ha le sue radici in quel ras Tafari Macònnen, nobile etiope che diventerà l’imperatore Hailé Salassié. Erede della stirpe di Salomone che combatte, resiste fino a quando può, poi scappa e riconquista la propria terra contro gli invasori. Vale a dire gli italiani. Cioè «noi».

Le propaggini culturali del rastafarianesimo, come la musica reggae o perfino la moda dei dreadlock, sono frutto anche di quello scontro in cui i «cattivi», gli invasori, sono quelli con­vinti di aver costruito strade e portato la civiltà tricolore.

Quando si assiste ai drammi in cui si dibattono la Libia o la Somalia odierne, in pochi fanno risalire alcune delle que­stioni più laceranti al periodo dell’occupazione italiana: con­fini e identità imposti con la violenza, la creazione e distru­zione di interi gruppi economici, sociali e di potere, l’utilizzo della formula del divide et impera tra le diverse componenti etniche che hanno aggravato le frizioni secolari tra gli abitan­ti di territori che sono diventati Stati per volontà degli italia­ni e che hanno scoperto di essere nazione in opposizione agli italiani.

Si è persa di vista quella che potremmo definire «l’impron­ta storica» del Paese nel mondo. Occupati a esaltare Rinasci­mento o conquiste tecnologiche degli ultimi decenni, in molti in Italia non sanno ad esempio che in Libia il 16 settembre è un giorno di celebrazione nazionale, a ricordo dell’uccisione di Omar al-Mukhtar. Pochi sanno che ad Addis Abeba ogni anno il Yekatit 12, il 19 febbraio, anniversario della strage di Addis Abeba ordinata da Rodolfo Graziani, viene reso omag­gio al monumento che ricorda le vittime dell’invasione, o che l’anniversario della battaglia di Adua del 1896 è celebrato in quei luoghi come una festa.

Ancor meno, probabilmente, ricordano che la festa nazio­nale somala è il primo luglio, il giorno dell’indipendenza. Dall’Italia.

L’Italia del secondo dopoguerra ha cercato di farsi alfiere retorico della decolonizzazione: le università italiane hanno accolto generazioni di studenti provenienti dai Paesi colonizzati, anche dagli ex possedimenti italici. Nel corso degli anni si è costruita una vera e propria consuetudine di attenzione diplomatica a determinati argomenti quali la giustizia internazionale sui crimini di guerra o i problemi dello sviluppo, ma questo non ha portato alla ribalta domande fondamentali circa le nostre responsabilità storiche nella colonizzazione e nel mancato sviluppo di intere aree del pianeta. Quasi che ci si occupasse di problemi causati da altri, ancora una volta con in bocca frasi sulla bontà e la generosità italiane; salvo poi porre la più strenua resistenza di fronte a normali dimostrazioni di impegno e coinvolgimento reale, come la restituzione delle opere d’arte rubate dagli italiani o il riconoscimento dei molti crimini di guerra perpetrati dal Paese negli anni.

Decenni di politica terzomondista non hanno cancellato le responsabilità storiche di uno dei più efferati regimi di occu­pazione portati avanti nella già triste storia dell’invasione europea degli altri continenti agli occhi degli ex colonizzati, ma sono serviti a costruire una nuova visione che l’Italia ha di sé e del proprio rapporto col proprio contributo al xx seco­lo. Una visione dell’altro interrotta nel momento del dominio e ripresa oggi, con molta difficoltà, a causa dei grandi movi­menti globali.

È probabilmente questo il problema di fondo, oggi: l’Italia ha conosciuto l’alterità come inferiore, suddita, schiava, non come un elemento di diversità degno di rispetto. Entrati nell’immaginario come servi selvaggi e inconsapevoli, i «diversi» sono scomparsi dalla coscienza pubblica del Paese per mezzo secolo, rinchiusi in rappresentazioni imbarazzanti e caricature razziste, per riapparire ora sulla scena come una minaccia: «clandestini», «invasori», ma mai «esseri umani».

La mancata elaborazione del passato imperialista impedisce oggi di comprendere la realtà di una globalizzazione che ha messo in movimento miliardi di persone per le ragioni più varie, ognuna con motivazioni che affondano anche nella storia dei conquistati e, quindi, nelle responsabilità dei conquistatori.

L’Italia in questo è purtroppo in buona compagnia: una parte consistente dell’Europa sembra oggettivamente impreparata a leggere le dinamiche di lungo periodo che anche il colonialismo europeo ha contribuito ad avviare, e questa è una delle lacune più urgenti da colmare nell’ambito della memoria europea. Se non altro per evitare di scivolare nella visione vittimistica di un continente puro, incolpevole e indifeso o, peggio, in una rilettura razzista dell’immagine della Festung Europa, la «fortezza Europa» immaginata dai nazisti.

Vi è una vera e propria necessità, oggi, di affrontare anche e soprattutto a livello pubblico le questioni riguardanti il passato del Paese in quanto dominatore e invasore, perché senza questa proiezione nella nostra storia diventa impossibile costruire un approccio cosciente ai problemi dell’alterità oggi: dall’immigrazione al rapporto con le altre culture, dalle norme sul diritto d’asilo a quelle sulla cittadinanza, fino ad arrivare alla quotidiana percezione dell’altro nelle vite di ognuno di noi, l’Italia oggi ha bisogno della sua storia d’oltremare. Un bisogno impellente, che potrà servire a ricostruire non solo il proprio passato mettendolo sotto una nuova luce, più completa e consapevole, ma aiuterà anche ad affrontare le nuove sfide che un mondo sempre più vasto e privo di confini artificiosi continua a porre di fronte a tutti noi.

 

© 2021 Francesco Filippi, pubblicato in accordo con Meucci Agency; © 2021 Bollati Boringhieri editore, Torino

Qui la scheda del libro

[i] www.jacobinitalia.it/la-storia-nascosta-dellanticolonialismo-italiano/



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