Nascita e crollo dei simboli: storie dell’iconoclastia americana dopo Black Lives Matter

Molti monumenti commemorativi disseminati negli USA, e in particolare le statue di personaggi storici legati alla Guerra Civile del 1861-65, al razzismo bianco e all’eredità coloniale europea, sono oggetto di azioni che rivelano prepotentemente la non-neutralità di una memoria pubblica tutt’altro che condivisa e universale. Le statue di Lee, dei soldati confederati, di Cristoforo Colombo vengono deturpate e abbattute, oppure, come nel caso della statua di Theodore Roosvelt in Central Park, ne viene richiesta ufficialmente la rimozione: immobili presenze che avevano finora popolato parchi, piazze, biblioteche e musei, ignorate dall’abitudine e per questo credute innocue e silenziose, ma che mascherano come un “white noise” le origini contraddittorie e razziste della libertà americana.

Mariasole Garacci

Nel maggio del 2020, il video del brutale omicidio di George Floyd da parte di un agente della polizia di Minneapolis, Minnesota, sotto gli occhi di altri tre poliziotti, viene diffuso in rete innescando un’ondata di manifestazioni guidata dal movimento Black Lives Matter e presto dilagata in molte altre città degli Stati Uniti. Quella stessa estate, durante le proteste, due giovani ballerine afroamericane danzano a Richmond, Virginia, sulla base del grande monumento del generale confederato Robert Edward Lee completamente ricoperta da graffiti colorati; in un parco del Connecticut, alcuni ignoti decapitano una statua di Cristoforo Colombo e un’altra, nel Minnesota, viene abbattuta da attivisti nativi americani.

Tre anni prima, violenti scontri a Charlottesville, Virginia, tra i manifestanti di un corteo antirazzista ed estremisti di destra contrari alla rimozione del monumento al generale Lee da un parco della città, erano sfociati nella morte di una donna di trentadue anni investita da un fanatico a bordo di un’auto lanciata tra la folla.

Protagonisti di questi conflitti sono i molti monumenti commemorativi disseminati negli USA, e in particolare le statue di personaggi storici legati alla Guerra Civile del 1861-65, al razzismo bianco e all’eredità coloniale europea, fatte oggetto di azioni che rivelano prepotentemente la non-neutralità di una memoria pubblica tutt’altro che condivisa e universale. Le statue di Lee, dei soldati confederati, di Cristoforo Colombo vengono deturpate e abbattute, oppure, come nel caso della statua di Theodore Roosvelt in Central Park, ne viene richiesta ufficialmente la rimozione: immobili presenze che avevano finora popolato parchi, piazze, biblioteche e musei, ignorate dall’abitudine e per questo credute innocue e silenziose, ma che mascherano come un white noise le origini contraddittorie e razziste della libertà americana.

Nel suo libro Le statue bugiarde. Immaginari razziali e coloniali nell’America contemporanea (Carocci editore, 2023), Alessandra Lorini (già docente all’Università degli Studi di Firenze e negli USA, studiosa delle rappresentazioni razziali e coloniali nella cultura pubblica) propone un’analisi storica scorrevole ma davvero illuminante di un fenomeno troppo facilmente liquidato da alcuni come vandalismo (in realtà, espressione di una lotta per o contro il potere), scandita in cinque scene che rappresentano l’elemento simbolico della memoria e della forma monumentale. Ricordando, come dichiarato in un documento dell’American Historical Association, sottoscritto nel 2017 da molte altre organizzazioni accademiche, che “un monumento non è la Storia” ma ne commemora un aspetto, una sua interpretazione, e che rimuovere un monumento o cambiare il nome di una scuola o di una strada non significa necessariamente cancellare la storia, ma cambiare una precedente interpretazione di essa. Soprattutto se, come nel caso delle statue americane, si tratta di memorie spesso revansciste prodotte in una fase di rielaborazione postuma, successiva ai fatti e alle personalità celebrati, con lo scopo di mantenere vivo l’orgoglio secessionista attraverso una precoce forma di revisionismo storico (vedi Statue, memoria e razzismo. Una storia americana) rapidamente evoluta da nostalgico sentimento della cosiddetta Lost Cause in una sempre più aggressiva rivendicazione dell’ideologia schiavista i cui eredi sono personaggi odierni come il suprematista David Ernest Duke, leader della alt-right, sostenitore di Donald Trump e già Gran Maestro del nuovo KKK.

Rielaborazione delle sorti della Guerra Civile che, tuttavia, non può essere considerata elemento spurio della storia americana, ma parte integrante di essa e di una Reconstruction che somiglia a una rivoluzione incompiuta, la cui sconfitta si deve anche a un “Nord compiacente, soddisfatto di riunificare il paese in nome di un comune sviluppo economico e dell’espansione dell’egemonia statunitense nel mondo” (pag. 44); un Nord disposto al compromesso, come dimostra la presenza, tuttora, di diverse statue di eroi confederati e di assertori del legittimo possesso di esseri umani persino nella gloriosa National Statuary Collection, nata nel 1864, in pieno conflitto, per raccogliere le effigi dei rappresentanti dei vari Stati, e da allora ospitata nelle sale di quello stesso Campidoglio dove il 6 gennaio 2021 i seguaci di Trump hanno fatto irruzione sventolando la Battle Confederate Flag; e come dimostra, d’altro canto, il fatto che oggi questa collezione sia oggetto di discussione, trattative, cambiamenti, insomma di un laboratorio storico-politico, pur dando luogo a bizzarri accoppiamenti la cui portata emblematica è indagata nel libro.

Un intero capitolo è dedicato, poi, alla figura di Cristoforo Colombo: non un eroe della Lost Cause, ma comunque nella hit parade dei personaggi più celebrati nel panorama monumentale statunitense, preceduto solo da Abraham Lincoln e George Washington, con ben centocinquantotto statue in luoghi pubblici (contro le quarantacinque in Italia), un distretto governativo (quello di Washington) a lui intitolato, più di sessanta città e contee dedicate al suo nome, oltre a scuole, edifici, strade, fiumi e montagne, e a un Columbus Day celebrato ovunque tranne che nelle Hawaii. Indipendentemente dalla reale personalità storica del genovese, una proiezione immaginaria divenuta mito fondativo malleabile, proteiforme, appropriato dai diversi gruppi (dagli immigrati italiani fino ai WASP) in base alle diverse e opportunistiche esigenze di auto-rappresentazione (sempre ai danni di neri e nativi) in un sistema di feroci antagonismi culturali e razziali.

Il saggio di Alessandra Lorini, dunque, oltre a una densa spiegazione delle cause, dei fenomeni e dei significati di un momento della storia contemporanea e di una lotta culturale ancora in corso, offre una preziosa lezione di metodologia storica, che insegna come trattare i miti nazionalistici e come interrogarli costringendoli a raccontarci la verità anche quando sono bugiardi.
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CREDITI FOTO: ANSA EPA/JIM LO SCALZO



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