Studenti in piazza: basta Dad, diamogli rispetto

Mauro Barberis

Sul palco di Sanremo, quest’anno, si sono esibite tutte le possibili minoranze discriminate. E va benissimo, per carità: magari qualche teleutente, per una sera, si sarà davvero sentito più aperto, tollerante, equo & solidale. Quelli di una certa età avranno pensato che, dopotutto, essere “strani” è sempre stato comune fra gli “artisti”: come se l’esibizione sanremese non parlasse anche di loro, o piuttosto dei loro figli e nipoti. L’unica cosa certa è stata l’assenza, dal palco dell’Ariston, della minoranza più discriminata di tutte: gli studenti daddizzati. Neologismo (da DAD, didattica a distanza) abbastanza orribile da rendere la loro situazione.

Oggi non si parla d’altro, per vicende che sarebbero comuni, se non riguardassero proprio loro. Si pensi alla morte di Lorenzo Parelli, l’ultimo giorno di alternanza scuola/lavoro: un evento tragicamente comune, fra i lavoratori di questo paese. O al manganellamento di quanti hanno protestato per la sua morte: niente di insolito, nel paese del G8 di Genova. O alle proteste per il ritorno alle due prove della maturità, che hanno costretto il ministro Bianchi a due precisazioni imbarazzanti. Primo, i maturandi potranno scegliere fra ben sette tracce per il tema d’italiano: mancherà solo il classico “parlate del vostro compagno di banco”. Secondo: anche la prova d’indirizzo sarà calibrata dai membri interni a misura di daddizzato.

Dal crollo della cultura generale e dalla sorda ebollizione che avverto anche all’università, però, non direi che il pericolo sia quello denunciato da Maurizio Maggiani, ieri, sul Secolo XIX. Magari si preparassero nuovi Sessantotto: ve li immaginate gli studenti di oggi che scendono in piazza agitando il telefonino, invece del Libretto rosso? Inquieti, afasici, fragili, non somigliano tanto ai rivoluzionari mancati di ieri quanto ai pretesi ragazzi-prodigio di Sanremo. Richiesti di commentare la loro esperienza sul palco dell’Ariston, anche loro riuscirebbero a ripetere un unico aggettivo: pazzesca, pazzesca.

Chiunque abbia avuto, non dico studenti ma anche solo figli, sa che, con loro, qualunque cosa fai sbagli. Quindi mi esimo dal formulare ricette educative – a quelle pensa già mamma Rai – e mi limito a elencare poche cose da non fare né dire, anzi da evitare come la peste. Prima, non essere ruffiani con i propri figli/studenti: lo capiscono subito, e già lì ti sei giocato le tue residue speranze educative. Secondo, evitare i pistolotti: non si educa con le prediche, ma con l’esempio. Terzo, niente ipocrisia: non fingere di riaprire scuole e università per poi continuare a privilegiare le esigenze dei tuoi dipendenti, perché tanto lo studente passa ma il burocrate resta.

Quarto, non promettere allo studente un’istruzione professionalizzante, che sarà sempre in ritardo sulle esigenze del mercato del lavoro: forniscigli cultura, umanistica scientifica tecnica, ma comunque tale da orientarsi in un mondo che né tu né lui, oggi, riuscite neppure a immaginare. Quinto, ridagli il servizio civile, come modo per imparare un lavoro ma anche i problemi delle persone diverse da lui. Sesto, permettigli di andare all’estero, con l’Erasmus o con qualsiasi altro sostegno, perché il mondo di domani sarà comunque più piccolo di quello che noi abbiamo conosciuto. Settimo e ultimo, smettila di dargli il superfluo – la mancetta, il cellulare nuovo, la vacanza esclusiva – e restituiscigli il necessario: l’ascolto, l’attenzione, la condivisione, in una parola il rispetto.



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