Lo stupro è un messaggio di uomini ad altri uomini che passa per il corpo delle donne

Che cos'è lo stupro se non una punizione “utilizzata” come arma di umiliazione politica degli uomini? Al centro è sempre la donna, come testimoniano le mille storie tra miti e realtà che rimandano a violenze di genere, frutti del patriarcato, radici di un sistema fallocentrico che deve affermare la superiorità del modello maschile e maschilista.

Teresa Simeone

<<Io… io non sto capendo niente di quello che mi sta capitando. Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce… la parola. Dio che confusione. Come sono salita su questo camioncino? Ci sono venuta io da sola? Muovendo i piedi uno dietro l’altro, dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso? Non lo so. Non lo so. Che fanno? Si accendono una sigaretta. Fumano adesso? Perché mi tengono così e fumano? Ho paura, sta per capitare qualcosa, lo sento. Respiro a fondo… due, tre volte. Ma non riesco a snebbiarmi. Ho soltanto paura. Una punta di bruciore. Le sigarette, ecco perché si erano messi a fumare…con una lametta mi tagliano il golf da cima a fondo, mi tagliano il reggiseno, mi tagliano… anche la pelle in superficie.
“Muoviti puttana, devi farmi godere”. Ora è il turno del secondo… Una sigaretta dietro l’altra: “Muoviti puttana devi farmi godere”. La lametta che è servita per tagliarmi il golf mi passa sulla faccia una, più volte, non sento se mi taglia o se non mi taglia. “Muoviti, puttana. Devi farmi godere”. È il turno del terzo. Il sangue dalle guance mi cola alle orecchie. “Muoviti puttana, devi farmi godere”. È terribile sentirsi godere nella pancia… Delle bestie.
Dove sono? Al parco. Mi sento male… mi sento male proprio nel senso che mi sento svenire… e non soltanto per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per la rabbia, per l’umiliazione, per lo schifo… per le mille sputate che mi son presa nel cervello… per… quello che mi sento uscire. Mi appoggio a un albero… mi fanno male anche i capelli… certo me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo una mano sulla faccia… è sporca di sangue.
Cammino… cammino non so per quanto tempo. Non so dove sbattere, a casa no, a casa no. Poi… senza neanche accorgermene, mi trovo all’improvviso davanti al Palazzo della Questura. Sto appoggiata al muro della casa di fronte, non so per quanto tempo sto a guardarmi quell’ingresso. Le persone che vanno, che vengono, i poliziotti in divisa, penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora… penso alle domande, penso ai mezzi sorrisi, penso e ci ripenso, poi mi decido… Vado a casa, vado a casa. Li denuncerò domani
.>>

Non li avrebbe denunciati né domani né dopodomani; Franca Rame avrebbe trovato la forza solo molti anni dopo, nel 1987.
Lo stupro, invece, lo subì il 9 marzo 1973 (ne nacque il monologo rappresentato nel 1975 da cui sono tratti i brani riportati) quando a Milano, costretta da cinque uomini a salire su un furgone, fu seviziata, ripetutamente violentata e lasciata in un parco. Di chiara matrice fascista, può essere considerato uno stupro politico, dato l’impegno di Franca Rame attraverso Soccorso rosso a favore dei militanti di estrema sinistra detenuti in carcere.
Tralasciamo la triste storia di complicità e omissioni, anche istituzionali, di cui ognuno può farsi un’idea leggendo i resoconti delle indagini e che purtroppo finì con la prescrizione del reato: ciò che si vuole qui ricordare è il carattere punitivo dello stupro, “utilizzato” come arma di umiliazione politica. Al centro è sempre la donna, come testimoniano le mille storie tra miti e realtà che rimandano a violenze di genere, frutti del patriarcato, radici di un sistema fallocentrico che deve affermare la superiorità del modello maschile e maschilista. Da Persefone a Dafne, da Antiope a Europa, da Danae a Polissena, la mitologia è attraversata da continue brutalità ai danni di donne. E questo nella letteratura greca come in quella romana. D’altronde, all’origine stessa dell’urbs aeterna c’è una violenza collettiva, il ratto delle Sabine.
Devastanti sono i segni fisici e psicologici delle violenze; quando lo stupro è di gruppo, poi, inimmaginabili. C’è una vasta casistica che va dallo stupro politico a quello di guerra, dallo stupro etnico a quello di banale quotidianità. Addirittura si parla di stupro correttivo contro donne lesbiche, nell’assurda convinzione che così facendo possano diventare eterosessuali: molto diffuso è in Sudafrica, uno dei paesi con la più alta percentuale di violenze sessuali.
Lo stupro politico non va visto solo come forma di bestialità irrazionale, quasi “naturale”, ma come una scelta mirata, rispondente a una ragione precisa, una violenza sessualizzata. Numerosi sono stati gli episodi nelle carceri fasciste e naziste, in America Latina, nel Cile di Pinochet, in Bolivia e in Messico, dove la Corte interamericana dei diritti umani ha evidenziato anche responsabilità istituzionali. Famoso per queste ultime, benché non specifico per lo stupro, è il caso scoppiato nel gennaio del 1993 quando, nella città di Ciudad Juàrez, nello Stato del Chihuahua, viene scoperto il corpo martoriato di una ragazza di appena 16 anni, Angelica Luna Villalobos: è la prima vittima ufficiale di una serie di donne il cui nome sarà legato a questa conosciuta come “La città della morte”, giovanissime ragazze, per lo più lavoratrici nelle maquiladoras, fabbriche di assemblaggio e di produzione di prodotti per l’estero. Stime ufficiali parlano di circa 400 donne rapite, torturate, stuprate e assassinate nei dintorni di Juárez. Nel 2006 è stato realizzato un film, Bordertown, con Jennifer Lopez, che valse all’attrice il premio di Amnesty International al Festival del cinema di Berlino. Gli omicidi, gli stupri, le mutilazioni sui corpi delle donne invece di essere perseguiti erano occultati dalla polizia locale e dalle istituzioni per cui sono rimasti per lo più impuniti. La presidente della Commissione speciale d’inchiesta del Parlamento messicano, Marcela Lagarde, sociologa e antropologa, coniò il termine “femminicidio” – allargando la prospettiva già aperta in tal senso da altre studiose, come ad esempio Diana Russell che aveva introdotto il termine “femmicidio” – per includervi un tipo di violenza “istituzionale”, quella delle autorità che non si attivano per garantire la vita delle donne e che anzi omettono, nascondono o occultano le prove, negando loro e alle famiglie l’accesso alla giustizia.
Durante le diverse guerre che ci sono state nel mondo, in particolare nel civilissimo XX secolo, lo stupro è stato utilizzato come arma bellica, insieme ai bombardamenti, alle mine, ai rastrellamenti, alle torture per terrorizzare, degradare, violare l’umanità nelle sue espressioni più legate alla vita, di cui la donna è portatrice. È una lunga scia di brutalità che si estende al di là del colore politico, della bandiera, del sistema culturale: così ci sono stati ad opera dei nazisti e dei fascisti nella Seconda guerra mondiale, dei marocchini e algerini al soldo dei francesi, dei sovietici dell’Armata rossa a Berlino fino alle “comfort women” dei giapponesi e ai loro stupri in Cina. Come c’è ogni volta che degli uomini hanno bisogno di “serve sessuali”: dalla conquista dell’America, ad opera di spagnoli e portoghesi, alla conquista dell’Etiopia e al madamismo, che consentiva di avere non una moglie, impossibile data la condizione, o una domestica, incapace nelle mansioni specifiche, ma una vera e propria schiava sessuale. Il ricordo di Indro Montanelli e della sua concubina dodicenne ci aiuta a capire come fosse non solo tollerato ma raccontato senza alcun imbarazzo.
Quello degli stupri di guerra è un campo di ricerca ancora da esplorare nella sua ampiezza. Michela Ponzani, nel suo libro “Guerra alle donne”, attraverso lettere, memorie, stralci di diari, ne scrive come di uno strumento terroristico e pianificato per annientare il nemico e ricorda quale fosse stato il destino delle donne violentate nel periodo tra il 1940 e il 1945: lo stigma, la rimozione e la vergogna, insieme alle reazioni dei loro uomini che spesso le allontanavano, perché “prima di essere considerata una ferita al corpo e all’anima della donna, la violenza è vissuta come un’offesa all’onore personale”.[1]
Anche la letteratura ha affrontato il dramma terribile dello stupro collettivo: Moravia, nella Ciociara, propone con crudezza la scena raccapricciante (riprodotta nell’episodio del film di De Sica, tratto dal libro, con un’intensa Sofia Loren) in cui una popolana, Cesira, viene aggredita da un gruppo di marocchini e brutalmente violentata insieme alla figlia poco più che bambina. La trasformazione che quella ferocia avrà sulla ragazza, che da innocente diventa maliziosa, è solo uno degli effetti che una guerra che “ammazza la pietà” è in grado di operare sulla mente di una donna. Tanti furono i crimini commessi in Ciociaria nel ’44 dai goumiers, le truppe coloniali francesi che risalivano la penisola: avrebbero dovuto liberarle quelle donne e invece ne rovinarono per sempre la vita. Lungo è l’elenco dei crimini tollerati dagli alti ranghi che consideravano le donne come bottino di guerra per i soldati “lontani da casa” e consentivano, tacitamente o espressamente, di dare sfogo ai loro istinti bestiali, secondo un arcaico e feroce “diritto di saccheggio”. D’altronde, nell’immaginario collettivo lo stupro è visto quasi come un aspetto “naturale” di ogni guerra. Ne scrive anche Andrea Nicastro, inviato speciale sul fronte russo ucraino, nel suo recente “L’assedio. Il romanzo di Mariupol”. [2]
E poi c’è lo stupro etnico, in cui si fondono motivazioni bassamente istintive e tentativi di distruggere l’identità nazionale, colpendo, attraverso le donne che racchiudono la possibilità di custodirla nel proprio ventre, l’integrità del paese nemico, la capacità procreativa e riproduttiva di un’etnia. Terribili, perché avvenuti a pochi decenni di distanza e a pochi chilometri da noi, quelli compiuti nella ex Jugoslavia, in Bosnia-Erzegovina, negli anni novanta durante la guerra civile. Insieme a tantissime altre storie di stupri taciuti o non ricordati, le donne jugoslave non hanno avuto giustizia né sono state riconosciute come vittime di guerra. Cinquant’anni dopo Auschwitz, tra il 1992 e il 1995, dopo il “Mai più” gridato nel dopoguerra dal mondo intero, con la condanna dei piani di sterilizzazione attivati dai nazisti e degli stupri da loro commessi, le donne della Bosnia Erzegovina sono state al centro di un’operazione di pulizia etnica, di sterminio radicale o costrette in bordelli o con sevizie a partorire figli di sangue serbo. Hanno rappresentato, così come volevano gli aguzzini, la sconfitta più drammatica dei loro stessi uomini, umiliati nella capacità di difenderle, salvo poi essere abbandonate, finita la guerra, alla loro vergogna e alla condizione di madri di figli non voluti, neppure dalla società, stigma di una profanazione che non è solo individuale ma nazionale.
Lo stupro diventa, così, un modo di colpire, attraverso la violazione della funzione riproduttiva della donna che conserva nel suo grembo la possibilità di preservare l’identità collettiva, la comunità del paese con cui si combatte, dimostrando, nel contempo, che gli uomini non sono stati in grado di proteggere le proprie donne né l’integrità della nazione.
“Lo stupro – come ha detto Silvia Salvatici – è un messaggio di uomini ad altri uomini che passa attraverso il corpo delle donne”.
C’è voluto un lungo percorso perché si passasse dallo stupro come crimine contro la morale a quello contro la persona: ancora fino al 1949, secondo la quarta Convenzione di Ginevra era un reato contro l’onore della donna. In Italia lo è rimasto fino al 1996, anno in cui finalmente si abrogano gli articoli del Codice Rocco, risalente all’era fascista, secondo i quali lo stupro era considerato un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume e si stabilisce che è un reato contro la persona e, come tale, condannabile con pene più severe. Eppure ci vorrà ancora del tempo perché si abbandoni la mentalità retrograda per cui la colpa di certe “avventure” è della donna che esce di casa, che frequenta ambienti che non dovrebbe, che beve, che veste abiti succinti. Ecco perché le recenti affermazioni di Andrea Giambruno e i “consigli” non richiesti di evitare di ubriacarsi per non trovare i lupi, sono gravi, perché ci fanno tornare indietro, a una realtà banale che faceva della vittimizzazione secondaria il naturale sviluppo di un processo per stupro. Non si dimentichi che, fino al 1956, era in vigore lo ius corrigendi che autorizzava il capofamiglia a percuotere la moglie per correggerne eventuali comportamenti sgraditi.
Soltanto in seguito a una storica sentenza del Tribunale internazionale per i crimini della ex Jugoslavia, così come nei diversi giudizi emessi, tra il 1998 e il 2003 dai Tribunali internazionali dell’Aja per l’ex Jugoslavia e di Arusha per il Ruanda (dove si esaminò il genocidio dei tutsi da parte degli hutu), lo stupro, la schiavitù sessuale e la prostituzione forzata sono diventati atti che configurano un crimine contro l’umanità.
Nel febbraio 2007, in occasione della causa contro la Serbia e il Montenegro per la Bosnia Erzegovina, si farà un ulteriore passo: la Corte internazionale di giustizia dell’Aja includerà gli stupri tra i reati di genocidio.
E poi ci sono gli stupri collettivi del branco, come le cronache ci rimandano: sono quelli di ragazzi anaffettivi, incapaci di provare empatia e di sentire la sofferenza di una donna. Stupri di banalità quotidiana in cui, tuttavia, agiscono le stesse dinamiche che, in una frenesia parossistica, tendono a rimuovere o eliminare del tutto i sensi di colpa, in una dissoluzione della responsabilità per cui se tutti agiscono e condividono il crimine, nessuno è veramente colpevole. A spiegare, in parte, questa diffusione di responsabilità che porta il reo ad autoassolversi, viene in aiuto il caso studio di Kitty Genovese, assalita in una strada di New York, in cui decine di vicini si resero conto dell’aggressione, che durò quasi mezz’ora, ma non fecero pressoché nulla per soccorrerla e neppure per chiamare la polizia se non a morte avvenuta. Quando si deve intervenire per fermare un’aggressione (nel caso di Kitty) o per agirla (nel caso dei branchi di Palermo e di Caivano), scattano meccanismi di diluizione della responsabilità individuale. Nell’ottuso annichilimento di ogni capacità di autonomia e di intervento personale, resta tuttavia incomprensibile l’insensibilità verso l’altro e risalta ancora più drammatica l’ineducazione a sentirne il dolore.
Far emergere tutte le storie di violenza è difficile; come ha scritto Luigi Zoja in “Centauri”, titolo che esprime metaforicamente la furia orgiastica e collettiva di questi esseri metà uomini e metà animali, che conoscono solo la realtà della predazione, in un rapporto difficile tra biologia e cultura, lo stupro produce silenzio: «Disumanizza la vittima, ma anche l’aggressore, perché distrugge in entrambi una delle capacità più umane, quella di narrarsi».

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[1] Michela Ponzani, Guerra alle donne, Einaudi, 2012-2021, pp. 25-26

[2] Andrea Nicastro, L’assedio. Il romanzo di Mariupol”, Solferino, 2022, pp. 159-165

CREDITI FOTO: October 14, 2020, New York City, United States: A man wearing a face mask poses for a photo next to the newly installed statue of ”Medusa With The Head of Perseus” by Argentine-Italian artist Luciano Garbati at the Collect Pond Park in New York City. (Credit Image: © John Nacion/SOPA Images via ZUMA Wire)



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