Suicidio assistito, il ddl in discussione è ingannevole e fuorviante

“Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”: il testo così come finora redatto è assai confuso, ambiguo, incompleto e non risponde alle esigenze pratiche cliniche.

Mario Riccio

È scoppiata la guerra delle cifre e delle parole sul tema del suicidio assistito in discussione alla Camera il prossimo 25 ottobre.
Partiamo dalle cifre. Fin dai tempi della vicenda Welby, il mondo confessionale sosteneva che in fondo non c’era bisogno di alcuna legge sul fine vita perché i casi in questione erano pochissimi ancorché esaltati e rimarcati da certi ambienti. Pertanto – a loro dire – era inutile perdere tempo per promulgare una legge anche sulle sole direttive anticipate. Legge che poi con grande fatica è divenuta operativa solo nel 2018, dodici anni dopo la morte di Welby e nove dopo quella di Eluana Englaro. Quando poi si è cominciato a discutere una regolamentazione della morte medicalmente assistita, è ripreso il consueto refrain circa la sua inutilità con le stesse motivazioni.

Il sottoscritto qualche anno fa studiò i dati della realtà olandese, la più consolidata in materia stante che lì è operativa una legge dal 2001. In una intervista ricordai che in Olanda, nei primi anni di applicazione della legge, la morte medicalmente assistita (eutanasia o assistenza al suicidio) rappresentava il 1,5/2 % di tutti i decessi annuali. Poi si era consolidata – già verso il ventennio di applicazione – sul 4% e cosi rimane stabile ormai da quattro/cinque anni. Pertanto già nel 2018 ipotizzavo che in Italia – al netto di un confronto tra paesi ben diversi negli aspetti socio-politici – si poteva pensare che ci sarebbe stato una percentuale di richieste che poteva attestarsi intorno al 2/2,5%. Tradotto in forma numerica – stante un numero medio di decessi annuali nel nostro paese di circa 630.000 persone – si poteva ipotizzare una platea di 15.000/20.000 potenziali richiedenti. Numeri considerevoli che – al netto di ogni considerazione etico-politica – già giustificavano la necessità di affrontare la questione.

Il dato mi fu contestato, sostenendo che confondevo richieste eutanasiche con la sospensione delle terapie e le cure palliative. Oggi invece leggo, con mio grande stupore, su una testata sicuramente di parte – Avvenire – che l’Italia rischia, all’indomani di una eventuale vittoria del quesito referendario o dell’approvazione di una asserita legge sull’eutanasia, la morte immediata – meglio definita nell’editoriale come uccisione – di 30.000 inermi cittadini. Grande è stata la soddisfazione personale di vedere riconosciute nell’immediatezza e addirittura per eccesso le percentuali olandesi da me citate anni prima. Purtroppo però il dato numerico – sicuramente eccessivo almeno nell’immediato – non è stato letto come l’ulteriore conferma dell’esigenza di una seria riflessione socio-politica, ma quasi come un evento di allarme sociale di cui dovrebbe occuparsi la magistratura più che il legislatore.

Veniamo ora alle parole. Il testo che andrà in discussione alla Camera il prossimo 25 ottobre – al netto dell’esame delle centinaia di emendamenti che la commissione giustizia della Camera svolgerà in questa settimana – è ingannevole e fuorviante fin dal titolo che recita: Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia. Non si capisce però perché mai si dovrebbe parlare – ancora – di rifiuto dei trattamenti sanitari, argomento di cui peraltro nel testo non si trova traccia. Già i casi Welby, Englaro, Piludu furono affrontati e risolti con la giurisprudenza allora vigente. Successivamente è intervenuta la già citata legge 219/17 sulle DAT ed infine la sentenza della Corte Costituzionale sul caso DJ Fabo e in ultimo le sentenze sul caso Trentini. In tutte queste occasioni è stato ribadito il diritto – ancorché già contenuto nella Costituzione, pertanto diritto perfetto come definito dai giuristi – di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, anche qualora salvavita. Il titolo del testo unico farebbe poi pensare che all’interno dello stesso si legiferi sulla eutanasia. Invece questa negli articoli non viene mai neanche esplicitamente citata. Si parla di morte medicalmente assistita, termine che in verità nella letteratura internazionale comprende le due modalità: eutanasia e assistenza al suicidio. Ma nella proposta di legge la morte medicalmente assistita viene indicata come atto autonomo e pertanto – pur nella scarsa chiarezza lessicale – sembra riferirsi alla sola modalità del suicidio assistito. Voglio ricordare che proprio recentemente Vladimiro Zagrebelsky ha definito ipocrita ed intollerabile la distinzione sul piano giuridico fra le due metodiche. Mi permetterei di aggiungere il mio modesto parere nel sostenere che sul piano etico-deontologico le due metodiche siano equivalenti.

Poi segue il copia e incolla della sentenza della Corte Costituzionale sul caso DJ Fabo come se il legislatore ne fosse assolutamente vincolato. Sono riportate le condizioni ritenute necessarie per richiedere l’aiuto al suicidio. Tra queste vi è l’essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Tale indicazione ha sicuramente risposto ad una logica giuridica inerente il caso specifico – cioè il caso DJ Fabo – che chi scrive non ha certamente la competenza di valutare e criticare. Ma è del tutto evidente che contiene una illogicità semantica-argomentativa, apprezzabile anche senza competenze giuridiche o medico-sanitarie. Se un soggetto è tenuto in vita da una terapia di sostegno vitale e vuole morire non necessita certamente di un trattamento di morte medicalmente assistita – eutanasia o assistenza al suicidio che sia – ma è sufficiente che interrompa o gli venga interrotta (casi Welby, Englaro, Piludu) tale terapia. Ma questo processo è già regolato dalla già citata normativa della legge sulle DAT.

Basterebbe poi ricordare che in nessuna delle tante legislazioni già vigenti in materia a livello internazionale è presente una tale limitazione. Inoltre va ricordato che il 70% dei richiedenti la morte medicalmente assistita – nei paesi che l’hanno regolamentata – è rappresentato dal paziente oncologico a prognosi breve che solitamente non assume nessuna particolare terapia, ancor meno di sostegno vitale. Un tale limite, se mantenuto nel testo definitivo, escluderebbe pertanto la maggioranza dei potenziali richiedenti.

In definitiva, il testo così come finora redatto, è assai confuso, ambiguo, incompleto e non risponde alle esigenze pratiche cliniche. Possiamo sperare che venga emendato nella discussione nell’aula parlamentare? Intanto attendiamo – fiduciosi – la decisione della Corte Costituzionale sul quesito referendario che ha raccolto 1.200.000 firme, segno che il cittadino – lo stesso che si è astenuto dalle recenti elezioni comunali – ha deciso invece di muoversi in proprio contro l’ignavia della politica del palazzo.

 

(credit foto ANSA/FABIO FRUSTACI)



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