Nel cuore ferito della civiltà giuridica ed etica. Sul “diritto all’odio”

Il generale Vannacci è un personaggio in cerca d’autore che si improvvisa lui stesso autore/autoproduttore, onde potere ribadire, coscienziosamente, senza paracadute e con veemenza militaresca: “Rivendico a gran voce anche il diritto all’odio e al disprezzo e a poterli manifestare liberamente nei toni e nelle maniere dovute”.

Giuseppe Panissidi

I “diari dell’odio”. Questo il titolo di un documentario su Joseph Goebbels a suo tempo proposto da History Channel nella Giornata della Memoria. Goebbels, uno dei simboli più funesti del regime nazista, sinonimo di ferocia belluina, declinata attraverso una propaganda tanto spregiudicata quanto, purtroppo, efficace. La narrazione, che ripercorre gli snodi salienti dei diari di Goebbels dal 1924 al 1945, attraverso immagini, anche inedite, provenienti direttamente dagli archivi tedeschi, descrive la vita e la personalità del secondo uomo più potente del Terzo Reich, la sua costante autocommiserazione e soggezione a indicibili fantasie di sterminio e aberrazioni politiche.

Domani: un altro giorno?
Domani è oggi. Un alto ufficiale dell’esercito della Repubblica democratica, il sig. Roberto Vannacci, nella consueta e abbondante compagnia di giro, rivendica il diritto per antonomasia, codificato, com’è noto, in tutte le Magnae Chartae dei diritti, fin dal Bill of Rights del 1689: il “diritto all’odio”. E la connessa libertà di espressione, costituzionalmente protetta. A meno di non volere risalire a circa quattromila anni or sono, al “Codice babilonese di Hammurabi”, la cui sezione centrale esibisce un intrigante abbrivo alla mirabile performance del generale incursore.

Costui sa, infatti, che la Repubblica “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. I suoi, in specie, e quelli dei suoi simili, nella “selva delle somiglianze”. Di certo, non, vedi caso, i diritti del mondo femminile, degli immigrati o delle coppie arcobaleno, apolidi senza Dio/patria/famiglia, che “non sono normali. La normalità è l’eterosessualità”. La frusta “pedagogica” si alza “a gran voce” contro “chi non può biologicamente avere figli, ma li pretende”. Che guaio, e che dolore, a causa del divieto, legale e culturale, di pronunciare “termini che fino a pochi anni fa erano nei nostri dizionari: pederasta, invertito, frocio, ricchione, buliccio, femminiello, bardassa, caghineri, cupio, buggerone, checca, omofilo, uranista, culattone che sono ormai termini da tribunale”.

Non meno cogente il “diritto” inviolabile di “trafiggere con un qualsiasi oggetto mi passi tra le mani” chiunque violi il domicilio altrui allo scopo di derubarlo, ovvero il diritto di “piantare la matita che ho nel taschino nella giugulare del ceffo che mi aggredisce, ammazzandolo”. Un sentire comune, secondo il generale, confliggente con il (mitico) “pensiero unico”. A dispetto del quale, tuttavia, egli ha potuto conseguire l’alto grado di generale, si presume anche in virtù di siffatta… delicatezza e civiltà dei modi, che le alte gerarchie militari dell’esercito repubblicano ora possono apprezzare in forma finalmente scoperta. Nell’occasione, potrebbero anche rinfrescare la memoria, piuttosto labile e autocontraddittoria, del Vannacci, se considera le donne “psicologicamente diverse” e più idonee ad accudire la “prole in casa”, rivelandosi singolarmente dimentico del suo ruolo pregresso di comandante della “Folgore”, tra le cui fila militano molte (molte) donne, le quali, il 2 giugno, sfilano davanti al capo dello Stato e al popolo italiano. O, forse, l’universo femminile, in alternativa alla famiglia, sarebbe destinato unicamente alla… “Folgore”?!

Così, infine, questo personaggio in cerca d’autore si improvvisa lui stesso autore/autoproduttore, onde potere ribadire, coscienziosamente, senza paracadute e con veemenza militaresca: “Rivendico a gran voce anche il diritto all’odio e al disprezzo e a poterli manifestare liberamente nei toni e nelle maniere dovute”.
Un passo indietro, opportuno e inaggirabile.
La barbarie nazista utilizzò con successo il potente mezzo della propaganda – posta a tema politico-culturale ben differente già dall’Illuminismo – per mobilizzare la popolazione, in particolare per motivare quanti dovevano perpetrare lo sterminio degli Ebrei europei e delle altre vittime del flagello della svastica. Ne conseguì l’acquiescenza di molti milioni di persone, cosiddetti “spettatori passivi”, cui era conculcata l’idea che gli Ebrei erano una razza subumana e un nemico pericoloso per il Reich. Il mondo culturale e mediale, con poche eccezioni, radio e cinema innanzitutto, contribuirono in modo determinante alla diffusione del razzismo antisemita, alla diffusione dell’idea della superiorità militare della Germania e di “male assoluto” incarnato da coloro che l’ideologia nazista identificava come il nemico. Per tutti, “Il Trionfo della Volontà (1935), di Leni Riefenstahl, la glorificazione di Hitler e del Nazionalsocialismo. Ancora Riefenstahl, con “Il Festival delle Nazioni” e “Il Festival della Bellezza” (1938), puntava a suscitare lealtà politica e coscienza razziale nella popolazione.

Nel 1924, Hitler scriveva che la propaganda “non ha il compito di individuare verità oggettive, quando queste favoriscono il nemico, e poi offrirle  alle masse con onestà accademica; il suo compito è di servire il nostro obiettivo, sempre e comunque, senza esitazioni”.
Se non che, la futura belva nazista non aveva giurato, e pertanto non era soggetto né all’art. 21 della nostra Costituzione, né all’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, conforme all’art.10 CEDU, che recita: “L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.

Doveri e responsabilità, dunque, nell’esercizio delle libertà costituzionali, antipode della giungla. In modo precipuo per un servitore dello Stato e della Costituzione.
Invero, continua a sfuggire lo iato che scinde la libertà di pensiero ed espressione dalla propaganda, che nelle scienze sociali assume una connotazione negativa, in quanto che pone l’accento sulle strategie di manipolazione del consenso, propria dei regimi totalitari e le distingue dalle altre forme di comunicazione politica. Nelle quali ultime la legittima ricerca del consenso si persegue, si deve perseguire, senza manipolazioni mistificanti e persuasorie.

La propaganda, infatti, mira a colpire emotivamente, non già a informare o comunicare contenuti, se non razionalmente, almeno ragionevolmente plausibili. Per questo, il pathos del suo linguaggio, tipico delle destre di ogni tempo e dove, è infarcito di metafore ed elementi retorici, strumentalmente volti a colpire e a restare impressi nella mente, e nel subconscio, delle persone.
Goebbels sosteneva che la propaganda deve catturare l’attenzione del pubblico ed essere condotta attraverso idonei mezzi di comunicazione, donde la scelta nazisti-fascista del cinema e della radio; un tema propagandistico deve essere ripetuto; la propaganda deve etichettare eventi o persone con frasi o slogan distintivi che devono evocare le risposte desiderate che il pubblico già possiede; devono poter essere memorizzati e imparati facilmente.
In breve. La propaganda deve agevolare il reindirizzamento dell’aggressività specificando il bersaglio dell’odio e non può agire direttamente su forti contro-tendenze, ma deve invece offrire qualche forma di distrazione o diversivo o entrambe.
Reindirizzamento dell’aggressività, centrando il mirino sul bersaglio dell’odio. Mezzi per fini, insomma, weberianamente. Fine ultimo il sommo bene: il raddrizzamento del… mondo invertito. Chissà come uscirebbero individui affini e sodali della specie/Salvini/Delmastro, dopo il raddrizzamento?!

Costituzione, e dintorni, alla mano. Dal “Trionfo della volontà” di Riefenstahl al “Trionfo dell’odio” di Vannacci.
Basti considerare il modulo argomentativo ricorrente dell’oratoria mussoliniana. Richiama la retorica psicagogica, “trascinatrice degli animi”, una retorica più di apparenza che di sostanza, propria del genere epidittico e della comunicazione pubblicitaria, altro dal genere deliberativo e dal discorso politico.
Nel linguaggio retorico di Mussolini la scelta verteva essenzialmente sull’espressione di natura empatica, il pathos della retorica classica, finalizzato al coinvolgimento emotivo dell’uditorio, in completa sconnessione dalla razionalità del lógos. Luoghi comuni, stereotipi rispondenti ad opinioni diffuse, generalmente accettate e condivise dal pubblico di riferimento, le “masse oceaniche”. Purtroppo.
Un film disgraziatamente già visto. Al riguardo, come non ricordare il monito di Baruch Spinoza: “L’odio e il pentimento sono nemici mortali dell’uomo. Non si piange sulla propria storia. Si cambia rotta”?
Se, poi, il sig. Vannacci, che non è “un mostro” – è la sua parola d’onore – predilige ossessivamente l’odio, tenti l’esperienza inebriante di coltivarlo… al contrario, in omaggio al titolo del suo pamphlet. Gramsci, 1917: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza”.

Talora, davvero, repetita iuvant. Piero Gobetti ne era persuaso. Sosteneva, infatti, che è un bene che la reazione getti la maschera, si manifesti e dispieghi. Un prezzo che vale la pena di pagare, per conoscerla meglio e poterla combattere in modo più efficace. Senza, peraltro, correre apprezzabili rischi di compromissione, visto che, a mente di semiotica e sociologia, tra persone e cose resta, comunque, la naturale distanza di ben sei gradi di separazione
Al netto di ovvie e fondamentali differenze storico-culturali, la requisitoria del generale contro l’universo, potrebbe riportarci a poco meno di duecento anni or sono, alla dissennata condanna della società moderna pronunciata da Pio IX nel Sillabo, nel 1864. Tra le differenze, tuttavia, mette conto evidenziare anche l’immediata, intransigente reazione dei governi italiano e francese, i quali non esitarono a proibire la lettura pubblica del Sillabo, e le aspre critiche avanzate da settori del mondo della cultura e della stessa teologia. Accadeva entro il contesto risorgimentale di rinnovamento nazionale, in una fase di storia e di cultura nella quale ampie frazioni del mondo cattolico erano convintamente ancorate alle idee liberali, in consapevole contrasto con la dottrina della Chiesa, mentre i liberali si rammaricarono del plauso in precedenza tributato a Pio IX, frettolosamente scambiato per un “papa liberale”. Allora insorse finanche la stampa inglese.

Quanto, infine, a Giordano Bruno, ovvero ai… cavoli a merenda, nulla di nuovo sotto il cielo patrio. Nella discussione pubblica, a ogni piè sospinto si fa ricorso a uno dei più eroici campioni del libero pensiero. È grave, non serio, si suol dire, ma in fondo è solo crassa ignoranza. Bruno è stato un fiero e tenace combattente dell’umana e perenne lotta contro “l’ipocrisia volpeggiante e l’imbestiato borghesume che tutto falsa e traffica”, dall’epigrafe di Mario Rapisardi. E contro il pregiudizio e la discriminazione. Siderale e grottesca la distanza dalla chiacchiera impotente (Heidegger) di un generale in guerra contro un “nemico” immaginario, in flagrante contraddizione con la sua improvvida citazione di Benedetto Croce. Nella prospettiva filosofica del nostro maggiore pensatore contemporaneo, infatti, le opinioni rilevano solo ed esclusivamente quando esprimano una “posizione ideale del pensiero”. Posizione ideale che, nel libro in commento, risuona come un pugno nell’occhio, con conseguente ecchimosi peri-orbitale e glaucoma traumatico!

Certamente, in contesti di crisi e instabilità, spesso le società “costruiscono nemici”, su cui proiettare e veicolare frustrazioni, timori, odi e paure. Qualcuno contro cui lottare, insomma, un capro espiatorio, necessario per accresce l’identità del Paese e renderlo più coeso e… manovrabile, soprattutto.
All’opposto, la sana coscienza etico-politica invoca, come nel caso di un noto intellettuale militante, Alexander Langer, l’azione salutare e progressiva dei “mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. Occorrono ‘traditori della compattezza etnica”.
Vero, tuttavia, è che le cerchie dell’agire umano sono caratterizzate da distinzioni. Come nell’ambito dell’agire politico, dove la teoria di Carl Schmitt, il precursore del nazionalsocialismo e delle teorie sulla razza, contempla un “criterio autonomo”, tale, ossia, da non necessitare di altre categorie per essere spiegato. Siffatto criterio equivale alla distinzione tra Freund, amico, e Feind, nemico. Questo nemico politico, come nemico pubblico, non privato, non è l’avversario in generale, né deve essere di necessità moralmente cattivo, esteticamente brutto, economicamente dannoso. È semplicemente l’altro, il diverso, der Fremde, lo straniero. Qualcuno, anzi qualcosa esistenzialmente diseguale e diversa da noi uguali. Uguali all’ineffabile sig. Vannacci, preferibilmente…

Si consideri, altresì, che, secondo questo fascistone di Schmitt, l’essenza del politico non è la conduzione di guerre sanguinose contro altri uomini, bensì l’utilizzo della guerra come presupposto sempre presente, quale possibilità reale e immanente, che innerva uno specifico comportamento, appunto politico, di difesa… preventiva. Del resto e non casualmente, i fascismi sono sempre, per propria natura intrinseca, “controrivoluzioni preventive”.
In congiuntura di “pace fredda”, anche un libro corrisponde e può giovare alla… bisogna, naturalmente.
In attesa del consueto e spericolato – ma stavolta improbabile a causa delle vistose smagliature interne – saggio acrobatico di astuzia ed equilibrismo da parte di soyGiorgia, i “bersagli dell’odio e del disprezzo” possono utilmente riflettere sul seguente pensiero di André Gide, probabilmente ispirato da un’analoga idea profonda di Lucio Anneo Seneca: “È meglio essere odiati per ciò che si è, piuttosto che essere amati per ciò che non si è”.
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CREDITI FOTO Flickr | edoardo baraldi



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