Sull’indipendenza della magistratura italiana

Tra gli attacchi ai giudici e le intenzioni di porre la magistratura sotto il controllo del governo, sembra che l'indipendenza del potere giudiziario in Italia non se la stia passando bene.

Michele Marchesiello

Ci sia consentito collegare due fatti tra loro apparentemente diversi ed estranei, ma – in realtà – indicatori entrambi di una deriva molto pericolosa per l’indipendenza della magistratura italiana.
Primo episodio.
A Genova, processo per il crollo del ponte Morandi, il presidente del collegio giudicante reagisce con veemenza all’attacco da parte del pm di udienza, il quale lamentava pubblicamente l’eccessiva lentezza del processo, attribuendone la responsabilità a un Collegio troppo “pigro”. Il Presidente ha reagito all’attacco, ricordando senza giri di parole a quello che rimane ancora un magistrato che se qualcuno ritiene – e io so che in quest’aula qualcuno c’è – che le sentenze si facciano senza processo, si sbaglia”.
Quanto accaduto nel corso del processo Morandi, ha certamente dell’incredibile ma – allo stesso tempo – denuncia l’inedita insofferenza di certe procure o di certi procuratori nei confronti delle “lungaggini garantistiche” di un processo che, come nel caso Morandi, rischia già in primo grado la prescrizione di numerosi e gravi reati.

Le frasi gravemente irrispettose pronunciate da quel pm nei confronti del collegio giudicante sarebbero, in altri sistemi, punite in termini molto severi, anche con sanzioni penali, per chi le ha pronunziate. È il famoso contempt of Court su cui in gran parte si reggono il buon funzionamento e la buona reputazione di qualsiasi sistema di giustizia. Il giudice, infatti, non può essere il semplice notaio di una discutibile giustizia “popolare” e delle condanne che si pronunziano, molto rapidamente – questo si deve ammettere – fuori del Tribunale.
Tanto più quando – come nel caso del processo Morandi – ci si trova di fronte a un autentico “monstrum” giudiziario, costruito dall’Accusa, la cui inaudita complessità per numero di imputati, capi di imputazione, testi, parti civili, perizie e documenti sta mettendo a dura prova la stessa tenuta del sistema giudiziario genovese e ligure.
Ha avuto ancora ragione il Presidente Lepri, nel ricordare al pm che la prevedibile durata del processo, e l’approssimarsi delle prime prescrizioni (evidentemente alla base dell’improvvida uscita di un pm parso insofferente, a volte, anche della stessa funzione dei difensori) sono dovute alla scelta da parte dell’accusa di montare un processo più che “maxi”, addirittura “monstre”. Un processo che, ora, sembra rivoltarsi contro quella scelta, proiettando minacciosamente la sua durata negli anni a venire.
Ancora, con le aspre ma veritiere parole del Presidente Lepri: “magari bisognava effettuare scelte processuali diverse e non contestare un milione di falsi”, costringendo il Tribunale genovese a investire e immobilizzare nel processo Morandi ingenti risorse materiali e umane.

Quanto accaduto nell’aula genovese si presta a un confronto con il recentissimo caso della fuga della spia russa Artem Uss e alla decisione del ministro della Giustizia, l’ex pm  –  già “garantista” –  Carlo Nordio, di promuovere un’azione disciplinare nei confronti dei giudici della Corte d’Appello di Milano, “rei” di avere assegnato la spia russa, in carcere in attesa di essere estradata negli Stati Uniti, alla più blanda misura degli arresti domiciliari , con il solo controllo di un braccialetto elettronico dal dubbio funzionamento.
Non si vuole affrontare la questione tanto dibattuto delle varie responsabilità per una fuga anche troppo annunziata: dei giudici, del Ministro della Giustizia, del Ministero degli interni e – infine – dei servizi segreti.
L’episodio, al pari di quello verificatosi nel corso del processo Morandi, dovrebbe far riflettere quanti ancora insistono per la cosiddetta, ormai mitica “separazione delle carriere” dei magistrati.
La dipendenza dei pm dal potere esecutivo (effetto inevitabile della separazione) si tradurrebbe nel moltiplicarsi di episodi come quello di Genova (pm insofferenti che vorrebbero saltare a piè pari molte delle complicate garanzie processuali, per giungere senza lacci e lacciuoli a una condanna che si considera già acquisita agli occhi dell’opinione pubblica).

Ma anche nel “caso” Nordio, in modo ancora più grave, si assiste a una incongrua “anticipazione” della riforma del Pubblico Ministero, fortemente voluta dalla maggioranza che ci governa. Questa riforma – come da pochi si sa ma da molti si desidera – porrebbe il pm alle dirette dipendenze del potere esecutivo, in persona del Ministro della Giustizia (in questo caso proprio l’ex pm e militante “garantista” Nordio), che deciderebbe in quale modo i pm sarebbero tenuti a gestire, e i giudici a decidere, casi “scottanti” e di particolare rilievo politico.
Con la possibilità che, ove mai i magistrati osassero non uniformarsi alle scelte maturate in quella sede, prendendo decisioni e iniziative anche “sbagliate” politicamente ma adeguatamente motivate e ineccepibili dal punto di vista tecnico-giuridico, il ministro potrebbe “punirli” – come vorrebbe Nordio – promuovendo nei loro confronti un’azione disciplinare che può portare addirittura alla cacciata dalla magistratura.
In proposito c’è solo da ricordare che il Codice disciplinare dei magistrati stabilisce espressamente che interpretare le norme, valutare i fatti e le prove non può mai dar luogo a responsabilità disciplinare.
Violando o ponendo nel nulla questo principio, ci si allineerebbe, di fatto, all’Ungheria di Orbàn, mortificando la funzione giurisdizionale, la stessa funzione del pubblico ministero come organo di giustizia e – infine – riuscendo a minare alla base lo Stato di Diritto, fondato sull’autonomia e indipendenza dei giudici.

 

Foto Flickr | Luigi Mengato



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