Suonerie / 5: Mengelberg, Meli, Vivaldi

«Rituals of Transition» di Misha Mengelberg / «Fuga in blues, per la libertà» / «Le quattro stagioni» di Antonio Vivaldi

Daniele Barbieri I Giovanni Carbone I Mauro Antonio Miglieruolo

Una imprescindibile quanto impossibile occasione per far risuonare le note attraverso le parole. Sognando e tentando di attraversare la musica in tutte le sue variegate manifestazioni. Daniele Barbieri, Giovanni Carbone e Mauro Antonio Miglieruolo nel gran mare delle proposte sonore pescheranno spigole (cioè spigolature) mensili adatte a fornire un’idea di quel che si muove ed è subito fruibile da coloro che alle musiche si volgono per migliorare la qualità della vita. Il trio suggerisce solo dopo che quei suoni hanno acceso una qualche luce fra orecchie, cuore e mente.

«Rituals of Transition»
di Daniele Barbieri

La regolina di queste “suonerie” è legarsi a una uscita discografica. Ma ogni regola prevede la sua eccezione… O se preferite dirla con i Monty Python «e ora qualcosa di completamente diverso». Così oggi racconterò di un cd, «Rituals of Transition», pubblicato (con l’etichetta «I dischi di Angelica») nel 2020 per ricordare l’olandese Misha Mengelberg, scomparso nel 2017. È uno dei grandi pianisti che si è mosso come un pendolo fra jazz e musiche d’avanguardia… ma io l’ho scoperto solo adesso e ne sono rimasto stregato.

Il cd riunisce 6 brani – «Amsterdam», «Kiev I», «Kiev II», «Kiev III», «Pantin» e «Bologna» – registrati fra il 2002 e il 2010 in diverse occasioni fra cui «AngelicA, il festival internazionale di musica contemporanea» che da 25 anni si snoda nei mesi di maggio e giugno a Bologna. Per saperne di più: www.aaa-angelica.com.

Probabilmente la citazione dei Monty Python mi è uscita dall’inconscio perché fra le componenti di questo cd spiccano l’improvvisazione più libera e un umorismo che in alcuni momenti riporta alla memoria infantile in cui con la massima ingenuità e il totale divertimento (anche di chi fosse in ascolto) si gioca con la voce, si mescolano vaghe melodie a sberleffi.

Nella sua musica Mengelberg frulla il jazz e John Cage ma anche un pianismo quasi virtuosistico con improvvisazioni che nelle note di copertina Ab Barras definisce giustamente: «fastidiose, eccitanti, insensate, geniali, vivaci, folli, troppo lunghe, troppo corte, irritanti, belle, commoventi. E leggere come una piuma». Ascoltarle per credere. Chi non si diverte ha solo due scelte: l’otorino o lo psicologo.

Questo olandese volante – o forse violante – ha suonato con alcuni fra i migliori musicisti contemporanei ma anche con il suo pappagallo domestico. Nel glossario dell’ultimo cd le parole-chiave (olandesi) sono tradotte in «vaso per i cucchiaini», «scatola di biscotti», «divano viola» ma anche «rinoceronte con aggiunta della lettera K».

Se intendo bene – per ora mi baso solo sull’ascolto di questo cd – Mengelberg fa il buffone e il virtuoso in rapida successione per divertirsi ma anche per ricordare al pubblico conformista che deve cambiare approccio se vuole godere di sonorità ancora non esplorate o magari dimenticate (ah, i maledetti Bias). Ed è quello che il festival di «AngelicA» da molto tempo persegue. Con musica dal vivo ovviamente ma anche riproponendola in cd ed evitando che questo coraggio resti patrimonio di pochi. Per restare dalle parti della mia musica preferita, il jazz, da poco «I dischi di AngelicA» hanno pubblicato «Duo» di Anthony Braxton e Jacqueline Kerrod, «Splatter» di Roscoe Mitchell e un doppio album di Cecil Taylor. Senza dubbio è il meglio del jazz d’avanguardia.

Ah, guardate bene. In alto nel dorso di ogni album proposto da AngelicA un bollino rosso (con una piccola, vezzosa A) mette sull’avviso: sappiate, o incauti, che vi state avventurando in terre quasi inesplorate.

«Fuga in blues, per la libertà»
di Giovanni Carbone

È datato maggio 2022 l’ultimo lavoro di Stefano Meli, «Apache» (Viceversa Records – Audioglobe/The Orchard). L’album si può definire un concept, è stato registrato in un solo giorno, in aperta campagna, pochissimi strumenti (chitarra elettrica e banjo, amplificatore e un paio di delay analogici): strumentazione essenziale, perfetta per brani che evocano un viaggio con bagaglio leggero. Il blues di Stefano Meli riporta alle atmosfere del Ry Cooder di Paris Texas, del Neil Young di Dead Man, percorre gli stessi spazi, recupera una dimensione del viaggio che blocca il tempo, lo rende variabile effimera, insignificante. Sono spazi aperti di deserti, natura selvaggia ed incontaminata, orizzonti infiniti, metafora d’utopie, d’aria tersa, strade solo in apparenza vuote, in realtà che pullulano di vita interiore. A quelle atmosfere Stefano aggiunge l’originalità di una tecnica personalissima che però non rinuncia ad attingere alla tradizione più pura e radicale del blues delle origini. La slide guitar, i vibrati d’altre corde, sembrano evitare le traiettorie scontate, affrontano rettilinei e curve ampie per impercettibili cambi di direzione. L’obiettivo è la vertigine del viaggio quale fuga, ricerca estrema e inesausta di libertà. I suoni sono ruvidi, staffilate che sollevano polvere: paiono costruiti come escrescenze ectoplasmiche dei luoghi che evocano. Unica fermata possibile nel viaggio quella che si deve allo sguardo verso un nuovo orizzonte: sarà per una birra ghiacciata, una sigaretta, da consumare senza fretta.

Il desiderio di libertà è quinta scenografica per tutto l’album, trova il suo picco espressivo, anche simbolico, nel brano Lakota, storia vera di un cane che fugge dalla sua reclusione forzata, la follia dell’uomo, e continua il suo viaggio senza sosta per farne prospettiva esistenziale e identitaria. Il suo è il nome d’una tribù di nativi americani che non smise mai, al prezzo dello sterminio, di difendere la propria libertà, per agire senza costrizioni nelle sconfinate distese che riconoscevano quale casa. La fuga non è, dunque, semplice sottrarsi al mondo osceno della coercizione di un progetto di vita preconfezionato dalla merce, dallo sfruttamento, bensì la forma più alta e coraggiosa di difesa. Lakota non ha padroni, non vuole averne, la sua casa ha per tetto il cielo, è ovunque si trovi.

Così Stefano Meli: «Esiste un luogo che possiamo chiamare casa, quello dal quale proveniamo, da cui ci allontaniamo per perlustrare altri luoghi, al quale sempre torniamo alla fine di un viaggio. Probabilmente per ciascuno quel luogo esiste non in una, ma in più dimensioni che si intersecano, producendo significati propri, originali, originari… Quella a cui fare ritorno è una casa mobile, impermanente, transitoria, ma pur sempre casa. È lì che Apache e i suoi trasformano il difetto in virtù».

I nove brani dell’album, sono legati insieme da questo imprescindibile desiderio di viaggio quale fuga e si ricollegano al precedente lavoro – «Stray Dogs» – del chitarrista: lo riposizionano, rendendo evidente che quel percorso non è concluso, nemmeno pare esserlo per definizione. Come Lakota, altri forse si uniranno a quel viaggio, si perderanno nell’orizzonte infinito della scoperta: sempre più insofferenti a costrizioni di artefatti culturali finiranno per rendere vana ogni catena.

«Le 4 stagioni»
di Mauro Antonio Miglieruolo

Deutsche Grammophon annuncia l’uscita su Amazon di un vinile (anche cd) che ricompone e reinterpreta in chiave postminimalista «Le quattro stagioni» di Antonio Vivaldi, ovvero i quattro concerti solistici per violino e orchestra che aprono la raccolta «Il cimento dell’armonia e dell’inventione».

Qui per un primo ascolto: https://music.youtube.com/watch?v=41IOkVjy3MM&list=OLAK5uy_lBHvttXMp-2XRiveJAtp3FZhjMmbNWl3E

Io ne ho goduto eppure… siamo lontano dalle ammalianti sonorità della versione lasciata da Vivaldi. In questa trasposizione c’è l’intervento di una impietosa sensibilità che ritiene legittimo (e lo è) operare liberamente sull’opera d’arte per fornirle nuovo senso, adattandola all’evoluzione del gusto. Tentativi simili, con gradi differenti di manipolazione, vi sono sempre stati e continueranno. Sono parte del gran lavorio evolutivo interno alle arti che prepara il terreno a nuove forme, base per inediti edifici sonori, figurativi e poetici.

Lo specifico intervento, direi anche delicato, ottenuto con questo vinile (e cd) permette di guardare a Vivaldi con spirito nuovo, per apprezzarne la possibile modernità. Constatando la capacità del “Prete Rosso” (com’era chiamato, a causa della capigliatura, Antonio Lucio Vivaldi, nato a Venezia il 4 marzo 1678 e morto a Vienna il 28 luglio 1741) di parlare ai posteri, oltre che nel proprio linguaggio anche in quello frutto del succedersi dei secoli con le conseguenti trasformazioni sociali; mostrando nel contempo la plasticità e adattabilità dell’opera d’arte di servire agli usi più diversi.

Risulta quasi un obbligo osservare che il rimaneggiamento del testo vivaldiano è determinato – oltre che dal gusto del coraggioso che si è assunto l’onere dell’intervento sul testo (Max Richter) – dal gran lavorio sulle forme espressive intrapreso dalle avanguardie del XX secolo, al cui clima è assimilabile. Precisando che non si tratta di un prodotto di laboratorio musicale, come tanta parte della musica del Novecento, ma di un tentativo di riaprire il discorso con “i fruitori”, chiamando anche questi ultimi alla responsabilizzazione nel processo di rifondazione delle arti avviato a fine Ottocento, che è tutt’ora lontano dall’essere concluso.

L’esperimento di cui parlo qui è formalmente teso invece a rompere gli schemi, dunque di particolare interesse. Per ragioni estetiche e altrettante ragioni sociali. In quanto suggeriscono la possibilità di pensieri altri che non siano quelli di consumatori zelanti e disciplinati.

Richter dunque attua la doppia responsabilità del quale è investito l’artista: la prima verso sé stesso e la propria realizzazione; la seconda verso la società in cui vive, che lo crea proprio perché egli possa parlarle, esprimere tutti i non detti che occorrono alla vita sociale per potersi sviluppare e tutto il rispecchiamento del quale la società ha bisogno per riconoscersi e approvarsi. La sistematica fuga dalle due responsabilità costituisce la tragedia propria all’intellettualità del XX secolo.

Il lettore che ha seguito fin qui queste brevi note potrà proficuamente confrontare l’edizione minimalista delle «Quattro Stagioni» con quelle più classiche presenti su YouTube. Riporto 2 link:

(Filarmonica, direttore Riccardo Muti)

(Virtuosi Ensemble con Anne-Sophie Mutter)



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