Catullo e il cardellino

Che cosa vuol dire impegno dal punto di vista di uno scrittore che fugge l’immediatezza, la presa diretta. La lezione di Pasolini e quella di Eco. [Tratto da MicroMega, n. 2-1996]

Antonio Tabucchi

L’occhio del moribondo
Engagement è una parola che nel XX secolo fa pensare a Sartre. Dico subito che è un punto di vista che non mi appartiene totalmente. Non credo che l’impegno debba essere un dovere dello scrittore, e se un giorno volessi parlare delle patate del mio giardino mi sentirei libero di farlo. Quel che non ho mai fatto, nei miei libri, è stato parlare di me: mi ritengo del tutto incapace di scrivere un journal intime, preferisco identificarmi nel punto di vista altrui e forse è questa la mia maniera di impegnarmi. Mettermi nei panni di un bambino, di un vecchio, di un moribondo, di un vedovo come Pereira mi permette di allontanarmi dal mio ombelico, mi permette di osservare il mondo attraverso altri occhi. Ritengo che sia proprio questa diversità l’elemento che caratterizza meglio il romanziere: la moltiplicazione dei punti di vista. Il mio «impegno» consiste nell’esplorare le diversità rispetto a me stesso, nell’indagare la realtà con gli occhi altrui.

Ora tocca ai giudici
Certo, in diversi miei libri ci sono personaggi che guardano il mondo con un’ottica di opposizione. Piazza d’Italia, per esempio, è la lunga storia di un impegno tra virgolette: non l’impegno di coloro che hanno fatto le grandi battaglie del nostro secolo, ma l’impegno dei minori, degli anarchici, di coloro che hanno perseguito la tradizione mazziniana, poi repubblicana e garibaldina, finora Pietro Gori. Si tratta sostanzialmente di perdenti. Nel Piccolo naviglio, che uscì nel ’78, la molla che aveva fatto scattare tutto era la pessima amministrazione democristiana che poi, come sappiamo, ha fatto fallimento: in quel momento mi sembrava che il malgoverno italiano fosse da prendere di petto. Oggi è sotto inchiesta, dunque è diventata materia per i giudici, sarebbe assurdo tornarci per uno scrittore. Ma già allora a me interessava solo da un punto di vista morale, non certo politico, per questo difenderei ancora quel libro anche se i successivi, in fondo, sono molto diversi.

Meglio postumi
Neanche Il gioco del rovescio venne ispirato da una visione politica: nel contesto degli anni Ottanta, il rovescio era un modo di vedere la vita adottato da pochissime persone. Il mio amico Vittorio Sereni era forse una di queste e nell’81 pubblicò quei racconti. Ancora oggi sono convinto che ci fosse sotto una visione non tanto politica ma esistenziale e ontologica: il revers era un modo di leggere la realtà che ci circondava. Che poi, a distanza di un decennio, sia stato possibile vedere il rovescio di quegli anni anche dal punto di vista politico, è una cosa che non mi riguarda. A me in quel momento interessava soprattutto l’aspetto esistenziale. Per esempio, mi interessava raccontare gli anni di piombo al rovescio, e l’ho fatto calandomi nell’ottica della madre di un terrorista ucciso dalla polizia. Se avessi affrontato le ragioni della morte del figlio sarei finito nel reportage: gli scrittori devono astrarre, devono usare la metafora, dare la quintessenza della vita, fuggire dall’osservazione diretta, dal resoconto, dai punti di vista abituali e ovvi. La piena luce preferisco lasciarla alle telecamere, che hanno fari potenti e illuminano direttamente l’intervistato. La realtà che alimenta la letteratura, viceversa, è una realtà simbolica, filtrata. Sono d’accordo con Giulio Ferroni, la letteratura è sempre postuma; gli scrittori non sono poi così importanti nel mondo presente perché non parlano per i loro contemporanei. Non necessariamente la letteratura deve stare al centro del mondo, anzi spesso si trova nel rovescio o nei margini. Scrissi Donna di Porto Pim per un desiderio di periferie, avevo voglia di uscire dalla centralità di Roma, Vienna, Parigi o Londra per cercare personaggi che più convenivano con la mia maniera di vedere il mondo: credo di averli trovati o forse sono loro che hanno trovato me.

Il Pasolini ‘corsaro’
È possibile che gli scrittori parlino per i posteri, ammesso che i posteri ci vogliano ascoltare. L’incidenza diretta sui contemporanei è spesso effimera. Prendiamo il caso di Pasolini. Pasolini è stato ascoltato specialmente per i suoi scritti corsari, per gli interventi sul Corriere della Sera. Il resto della sua opera va studiato, analizzato, considerato con attenzione: ma se il Pasolini corsaro aveva un’incidenza immediata sulla realtà, altre opere come il Vangelo, che parlano per simboli e metafore non immediatamente legate alla realtà, risultano in definitiva molto più «impegnate». Certo, richiedono un atteggiamento diverso da parte del lettore, un atteggiamento, appunto, di postumità. Il sentirsi contemporanei all’unisono rispetto a ciò che viene detto in un’opera d’arte rischia di ridursi a una sorta di falsamento della realtà, mentre la postumità richiede un ripensamento. Sostiene Pereira è stato letto come un romanzo che parlava della situazione italiana contemporanea, ma io non ho voluto fare altro che parlare del ’38, un’epoca storica ben definita. Se ci sono corrispondenze tra la fine degli anni Trenta in Portogallo e il periodo attuale, se ci sono possibili somiglianze tra la xenofobia di quel tempo e i nazionalismi europei d’oggi non tocca a me dirlo, e forse neppure ai lettori contemporanei: l’ultima parola spetta ai posteri. È un compito che lascio a un futuro storico della letteratura, a un Asor Rosa del Duemila.

La chiave della critica
Spesso la critica un po’ snob dei giornali di sinistra mi ha attribuito una presunta iperletterarietà troppo cosmopolita. L’accusa era che i miei libri non parlavano abbastanza della realtà. Il cosmopolitismo era un’ingiuria utilizzata dagli stalinisti nei processi contro gli intellettuali dissidenti che si occupavano del mondo. Dunque, ben venga il cosmopolitismo: a me piace, dal mio paesello natale, occuparmi del mondo, anche perché il mondo mi concerne. Lo stesso valeva per Leonardo Sciascia, che della Sicilia è riuscito a fare una metafora: poteva essere letto benissimo come uno scrittore regionalista, ma è riuscito a elevare il suo paese a simbolo universale del male. Il suo impegno consisteva in questo. È ovvio che Pirandello aveva una visione più apertamente esistenziale e cosmopolita, ma sia pure con un altro spirito, Sciascia ha raggiunto gli stessi risultati anche se la critica ha preferito spesso interpretarlo in modo più semplicistico. A volte capita che la critica giornalistica imponga una lettura distorta di un’opera. Nel mio caso? Sì, è capitato anche per Notturno indiano, che è stato interpretato in chiave psicoanalitica, di doppio alla Otto Rank: una chiave direi sin troppo occidentale. Ora, io non ho certo pretese di filosofia orientale, ma secondo me Notturno indiano rimane una sciarada che il lettore può risolvere come vuole. È stato come lanciare un quiz alla Mike Bongiorno: niente di più. Neppure in questo caso c’erano da parte mia intenzioni politiche dirette.

I palloncini degli dei
Impegno? A proposito di un mio racconto dell’Angelo nero intitolato «Il battere d’ali di una farfalla a New York può provocare un tifone a Pechino?», è stata fatta una dichiarazione giudiziaria in cui si diceva che alludevo al processo Calabresi prendendo le parti di Adriano Sofri. Ora, come scrittore è chiaro che io ho interesse per la realtà e per la cronaca. Del resto, anche un autore apparentemente lontanissimo dalla cronaca come Borges, ha scritto uno dei testi più violenti sulla realtà argentina e sui rifugiati nazisti residenti nel suo paese, Emma Zunz. Detto questo, i motivi della nostra ispirazione provengono o dalla cronaca dei giornali, a cui certo non si può rimanere estranei, o dai racconti di altri, oppure da certi racconti che ci concedono gli dei e che ci cascano in testa come palloncini.

Gli esempi di Eco e Kundera
Volendo fare qualche nome, uno scrittore che ha saputo essere «impegnato» è Luciano Bianciardi, che ha scritto forse la migliore cronaca letteraria, molto mediata, dei nostri anni Cinquanta. Bisognerebbe rivalutarlo, perché purtroppo è stato dimenticato per troppo tempo. Poi ci sono autori che hanno svolto una intensa attività di impegno editoriale; penso, ovviamente, a Pavese, Vittorini, Calvino, che hanno vissuto da protagonisti una stagione molto importante della vita culturale italiana. Credo che purtroppo l’attività di quegli stessi scrittori sarebbe poco congeniale all’industria culturale d’oggi: sulle ragioni bisognerebbe interrogare i sociologi della letteratura. Certo, nel chiacchiericcio politico e culturale che invade i giornali la voce di uno scrittore si spegne, non viene più recepita come accadeva negli anni Sessanta. In questo chiacchiericcio, è importante soprattutto che uno scrittore cerchi la sua strada nei libri, ed è anche giusto che ogni tanto dica qualcosa: per esempio, una voce civile che mi piace molto è quella di Umberto Eco. A Eco dobbiamo uno dei testi più lucidi sul fascismo e sulle sue radici: quello apparso sulla Repubblica qualche mese fa 1 è un testo che dovrebbe essere distribuito in tutte le scuole. Personalmente ho capito molto di più leggendo quell’articolo che frequentando tante lezioni scolastiche. D’altra parte, se dovessi citare una voce letteraria che ha una notevole forza civile, farei il nome di Milan Kundera: il suo libro L’arte del romanzo non tocca solo argomenti letterari ma rivela un sostanziale fondo civile, così come, a suo modo, l’ultimo romanzo, La lentezza, che racconta un mondo preso dalla rapidità televisiva e dalla sveltezza. Di fronte a questa esasperata tendenza alla sveltezza, lo scrittore Kundera ci invita, nel miglior modo possibile, a pensare ai fatti nostri.

I venditori di almanacchi
Tempo fa, in un «Dialogo fra uno scrittore e un venditore di almanacchi» pubblicato dal Corriere della Sera, mi rifacevo ironicamente a Leopardi per parlare del rapporto dello scrittore con la realtà. In sostanza, sostenevo che gli almanacchi sono molto importanti per orientare l’ideologia delle persone, ma sono molto meno importanti sul piano esistenziale e ontologico. Era un invito a meditare sul significato delle parole «impegno» e «realtà»; era una presa di posizione contro l’immediatezza. Oggi è tutto immediato, non appena accade un fatto ne abbiamo notizia in presa diretta. A me, come scrittore, interessa farne una meditazione per così dire kantiana. Devo aspettare che dei fatti accaduti emerga la memoria; essendo una persona che ha un’ottima memoria, la memoria mi perseguita, spesso creandomi notevoli disagi e fastidi, come accade a un personaggio di Borges condannato a ricordare tutto. Certo, sarebbe utile, a volte, cancellare le cose che sul piano esistenziale ci hanno fatto soffrire; e se sul piano personale si può anche perdonare, sul piano storico è bene ricordare con lucidità e precisione. Anzi, l’impegno della letteratura consiste in questo, nel ricordare agli altri, nel portare una sua testimonianza. E se sulle prime può sembrare una testimonianza futile, pazienza: forse quella futilità avrà un valore diverso per i posteri.

Un poeta latino, Catullo, si chiedeva se può essere importante la morte di un cardellino: i suoi contemporanei avrebbero potuto rispondere che si trattava di una futilità, ma Catullo sapeva bene che il tema non conta niente, conta solo il modo di viverlo attraverso la pagina. Catullo sapeva che per la scrittura non esiste contemporaneità e si è sottoposto al giudizio dei posteri. Io non ho cardellini, ma se ne avessi uno e potessi scrivere una pagina su di lui forse quella pagina esprimerebbe molte delle mie angosce, dei miei desideri e delle mie proiezioni. Anche un futile cardellino può diventare metafora di una vita intera, e se un poeta riesce a realizzare questa metafora, egli ha svolto il suo compito.*

(a cura di Paolo Di Stefano)

1 Il riferimento è all’articolo «Identikit del fascista», uscito su la Repubblica il 25 luglio 1995 (n.d.r.).

* Tratto da MicroMega, n. 2-1996.

Credit foto: © Ulf Andersen/Aurimages via ZUMA Press

 



Ti è piaciuto questo articolo?

Per continuare a offrirti contenuti di qualità MicroMega ha bisogno del tuo sostegno: DONA ORA.

Altri articoli di Antonio Tabucchi

L’impossibilità, secondo l’autore di Sostiene Pereira, di pensare il romanzo del Novecento senza la dissolvenza cinematografica.

Altri articoli di Cultura

Su Suonerie: “The Carnegie Hall Concert”, "Un disco di compleanno, il 66° di Paul Weller", "Mäilkki Susanna, la direzione al femminile

Il poema omerico rivisitato in chiave femminile, con la guerra narrata dalle dee.

In questa puntata di "Mappe del nuovo mondo": "La preda e altri racconti" di Mahasweta Devi e "I figli della mezzanotte" di Salman Rushdie.