Meloni tassa le banche ma non basta: da sinistra urge una proposta di riforma del sistema monetario

La tassa sugli extraprofitti delle banche non colpisce lo strapotere della finanza. Occorrono riforme strutturali e non strumenti fiscali una tantum. La sinistra dovrebbe rivedere radicalmente la sua visione e il rapporto di subalternità che ha finora intrattenuto con il settore finanziario. Lo Stato dovrebbe riconquistare il potere sulla moneta che attualmente è completamente in mano al settore privato.

Enrico Grazzini

Le tasse sui superprofitti bancari decise a sorpresa all’inizio di agosto da Giorgia Meloni, capo del governo italiano di destra, saranno anche frutto del suo populismo demagogico e di calcolo elettorale; tuttavia bisogna ammettere che il Pd di Enrico Letta e dei suoi predecessori e nessun governo passato di centro-sinistra si sarebbero mai azzardati a toccare l’establishment bancario, mentre la Giorgia nazionale, per ragioni di immagine o semplicemente per necessità di cassa, il coraggio di fare prevalere la politica sulla grande finanza almeno per una volta l’ha avuto. Che le banche abbiano maturato superprofitti grazie all’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Banca Centrale Europea di Christine Lagarde è assolutamente certo: i profitti bancari sono aumentati nel primo semestre di questo anno del 63% rispetto a quelli del semestre dell’anno precedente. Le banche non hanno incrementato le remunerazioni dei depositi dei risparmiatori ma hanno aumentato gli interessi sui prestiti: da qui i superprofitti. Questi si trasformeranno in lauti dividendi per gli azionisti e andranno ad arricchire le grandi finanziarie, in buona parte estere, che controllano le banche italiane.

Solo per fare un esempio: Unicredit, la seconda banca italiana, dichiara di essere “una public company, controllata circa all’85% da investitori professionali, di cui la maggioranza è ubicata fuori dall’Italia” (ovvero in America e Gran Bretagna). Sapendo che le banche non godono di ottima reputazione presso la pubblica opinione, il governo in affanno di liquidità ha dunque deciso di tassare i sovraprofitti che tra l’altro, sotto forma di dividendi per gli azionisti, andranno in parte all’estero. Naturalmente la misura fiscale è una tantum e, subito dopo essere stata annunciata, è anche stata subito ridimensionata: il capo della Lega Matteo Salvini aveva all’inizio enfaticamente affermato che la tassa straordinaria sulle banche avrebbe portato nelle casse dello Stato 10 miliardi, ma il giorno dopo le regole sono state subito modificate, e ora le entrate previste sono stimate pari a circa 2 miliardi. Un po’ poco per dare sollievo alle famiglie e alle aziende alle prese con il carovita, il caro-affitti, il caro-mutui, l’annullamento del reddito di cittadinanza, il rischio concreto di recessione e la contrazione dei prestiti bancari. Il Financial Times, portavoce degli interessi finanziari, si è lamentato delle misure fiscali del governo italiano ma lo spread, almeno per ora non è salito, segno che i mercati e la big finance sanno che, al di là di qualche colpo di testa, possono sempre contare sul governo di Giorgia Meloni. Tuttavia è pericoloso pizzicare la tigre della finanza con un ago, si rischia che si rivolti contro e ti azzanni anche solo per una piccola puntura. La tigre si addomestica solo se viene ingabbiata.

Se davvero si vuole domare lo strapotere della finanza occorrono riforme strutturali e non strumenti fiscali una tantum. Ovviamente la destra, al di là della demagogia, non vuole realmente dare fastidio all’establishment, né tanto meno contrastare la grande finanza. Donald Trump, il presidente americano che Giorgia Meloni e Matteo Salvini tanto hanno ammirato e declamato, ha sempre accarezzato, difeso e protetto big finance e la speculazione finanziaria. Toccherebbe invece alla sinistra riformare radicalmente i rapporti di potere contro una finanza predatrice. La sinistra dovrebbe allora innanzitutto rivedere la sua visione e il rapporto di subalternità che ha finora intrattenuto con il settore finanziario. Il nocciolo vero della questione è che lo Stato dovrebbe riconquistare il potere sulla moneta che attualmente è completamente in mano al settore privato. Sul piano culturale bisogna innanzitutto prendere atto che – come ha spiegato ufficialmente e definitivamente Bank of England, la banca centrale della Gran Bretagna – sono le banche commerciali a creare dal nulla la moneta che normalmente utilizziamo[1]. La moneta che circola nell’economia reale, e anche nella finanza, è per il 95% moneta bancaria. Il sistema bancario produce moneta quando concede dei crediti. Ovviamente le banche private emettono moneta al solo scopo di aumentare il profitto degli azionisti: la moneta dunque non è neutra, come crede la maggioranza dell’opinione pubblica, ma deriva dal settore bancario e serve ad arricchirlo. La Bce “indipendente” emette le banconote, che costituiscono l’unica moneta legale e pubblica: ma queste contano solo per il 5% circa del denaro che utilizziamo. Le banconote e le monetine servono solo per le spese spicciole quotidiane. Come spiego nel mio libro su Il fallimento della moneta (Fazi editore), le banche commerciali creano dal nulla i depositi bancari (cioè moneta di prima emissione) quando offrono dei prestiti ai clienti[2]. In base al regime attuale, la moneta bancaria viene creata out of thin air mediante una semplice operazione contabile: la banca computa all’attivo la somma che deve essere restituita dal cliente con gli interessi, e al passivo il deposito di uguale importo creato a favore del cliente. I depositi bancari sono poi la moneta utilizzata normalmente dalle imprese per pagare i fornitori e i dipendenti, e quella che le famiglie usano per esempio per acquistare una casa, pagare il mutuo o beni durevoli come l’automobile. Le banche – ovviamente in maniera legittima e in base alle leggi vigenti – emettono moneta (bit) a costi tendenzialmente pari a zero digitando il computer e ne ricavano lauti profitti. Lo Stato infatti concede alle banche l’enorme potere di creare moneta dal nulla, e soprattutto concede al sistema bancario la possibilità di trasformare la moneta privata in banconote, cioè in moneta legale. Infatti quando un soggetto riceve un prestito dalla banca può andare al bancomat e ritirare le banconote, che sono l’unica moneta legale (e che sono anche la moneta più sicura perché garantita dallo Stato e, in ultima analisi, dalle tasse pagate dai cittadini e dalle imprese). Senza un conto bancario non è neppure possibile ricevere banconote di prima emissione: anche la moneta emessa dalla banca centrale dipende dunque dal circuito privato. Così il regime monetario attuale legittima la privatizzazione della moneta. Il problema fondamentale è però che, se le banche creano moneta quando fanno credito, allora la moneta è immediatamente debito per la società. Infatti per definizione ogni credito è anche un debito. Più moneta bancaria viene emessa più aumenta il debito. La moneta poi viene a sua volta prestata e il debito cresce a dismisura per effetto degli interessi composti. Non a caso il mondo è sommerso dai debiti che sono arrivati complessivamente a oltre il 300% del PIL globale. La tendenza è strutturale: il debito cresce molto più del PIL e genera periodiche violente crisi finanziarie. Infatti una economia fondata sulla moneta-debito è destinata alle crisi e al fallimento.
L’unica possibilità di rompere questa spirale è che lo Stato, tramite la monetizzazione del debito pubblico da parte della banca centrale, emetta una moneta pubblica senza debito a favore della società, e non per il profitto di pochi. Una moneta immediatamente spendibile per il benessere della società e gli investimenti pubblici.
Nel finanzcapitalismo, come lo chiamava Luciano Gallino, la sovranità monetaria è però in mano al settore privato, e perfino gli Stati – che paradossalmente garantiscono il valore della moneta grazie alle entrate fiscali – devono sottostare al potere della moneta privatizzata e ai mercati[3]. I mercati finanziari disciplinano la spesa pubblica e decretano l’austerità delle nazioni, cioè il fatto che buona parte della spesa sia devoluta a servire i debiti pubblici (in Italia gli interessi sul debito pubblico sono pari ogni anno a circa 70, fino a 100 miliardi; nel nostro paese l’importo degli interessi è pari all’incirca al 4% del PIL, cioè quanto spendiamo per l’istruzione). Il debito a favore del sistema bancario e finanziario strangola l’economia.

Come sarebbe possibile allora per gli Stati democratici dell’eurozona riprendere in mano pezzi di sovranità monetaria per finanziare gli ingenti investimenti indispensabili per potenziare la sanità, l’istruzione, la ricerca, le infrastrutture e l’edilizia pubblica, per finanziare le energie alternative, pensioni dignitose, la sicurezza dei cittadini e quant’altro?
La prima cosa che un governo davvero riformatore dovrebbe fare è di istituire una grande banca pubblica che acceda ai lauti finanziamenti della Bce e che sottoscriva gli investimenti pubblici che le banche private orientate al profitto di breve termine non amano finanziare, come per esempio quelli delle energie rinnovabili. Una grande banca pubblica potrebbe innanzitutto garantire e finanziare i mutui delle famiglie e regolamentare il mercato immobiliare; infatti la speculazione immobiliare è la principale fonte delle crisi finanziarie sistemiche, e anche una delle principali cause dell’inflazione. Una sinistra degna di questo nome dovrebbe ribadire con forza che senza banche pubbliche di sistema e senza l’emissione di moneta e di credito pubblico è impossibile finanziare uno sviluppo equilibrato e sostenibile.

Una seconda riforma sostanziale a costo zero sarebbe la cancellazione dei debiti pubblici (o di parte di essi) da parte della Bce, come aveva proposto il compianto David Sassoli quando era presidente del Parlamento Europeo, e come propongono alcuni dei più autorevoli economisti europei. Un quarto circa del debito pubblico dei paesi europei è infatti in pancia alla Bce, la quale potrebbe autonomamente cancellarlo almeno in parte senza neppure procurare dei danni ai mercati: in tale maniera la Bce offrirebbe ai paesi europei lo spazio fiscale per effettuare gli investimenti pubblici indispensabili per la transizione digitale. Questo è quanto propongono e auspicano per esempio economisti molto autorevoli e noti, come Thomas Piketty e Gaël Giraud, l’economista ecologista che più interpreta il pensiero di Papa Francesco sull’ecologia e sul benessere sociale[4]. È stupefacente che i debiti pubblici non vengano cancellati dalla Bce – che potrebbe farlo senza costo alcuno – e che le popolazioni europee debbano trascinarsi inutilmente un peso enorme e inutile che zavorra l’economia e il progresso sociale. Il vero problema è che i debiti vengano utilizzati come strumento di potere da parte dei capitali e degli Stati più forti su quelli più deboli. Il debito mette il guinzaglio alle nazioni.
Gli Stati democratici dovrebbero allora riprendere l’iniziativa nel campo bancario e monetario: la moneta e il credito dovrebbero essere orientati al benessere sociale e allo sviluppo, non alla finanza speculativa che prospera grazie a interessi sul debito in continua crescita. Il governo Meloni incapace di rilanciare l’economia e di aggiustare i conti pubblici ha penalizzato in maniera improvvisata e una tantum le banche ma non ha minimamente toccato il problema strutturale del sistema bancario. La sinistra progressista dovrebbe invece cominciare a riflettere in profondità sulla natura privata della moneta e dovrebbe iniziare a proporre riforme strutturali del sistema monetario e finanziario. La politica non può lasciare moneta e credito esclusivamente nelle mani della grande finanza.

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[1]   Bank of England Quarterly Bulletin 2014 Q1 “Money creation in the modern economy” by Michael McLeay, Amar Radia and Ryland Thomas of the Bank’s Monetary Analysis Directorate.

[2]   Enrico Grazzini  “Il fallimento della moneta. Banche, debito e crisi. Perché bisogna emettere una moneta pubblica libera dal debito” Fazi editore, 2023

[3]   Luciano Gallino. “Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi” Einaudi, 2011

[4]   iLa proposta di cancellazione del debito degli Stati  in carico alla Bce è stata elaborata da un gruppo di economisti francesi, fra i quali Laurence Scialom e Gaël Giraud, e è stata sottoscritta da oltre 100 colleghi di diversi Paesi: oltre alla Francia, che vanta 50 adesioni fra cui quelle di nomi molto noti come Thomas Piketty, l’Italia, con 21 firme, la Germania, l’Irlanda, il Belgio, la Spagna, il Lussemburgo, la Svizzera, la Svezia, il Portogallo, la Grecia, l’Ungheria e il Regno Unito.

 

CREDITI FOTO Flickr | Sascha Kohlmann



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