Teatri chiusi e chiese aperte: siamo uno Stato confessionale?

Perché teatri e cinema sono rimasti inspiegabilmente chiusi dall’ottobre 2020, mentre le chiese da allora in poi sono rimaste aperte, sempre e ovunque, persino in zone rosse e in lockdown totale?

Michele Martelli

Il dado è tratto. Finalmente è cessato il toto-date delle riaperture delle attività chiuse, scattato dopo l’autorizzazione del governo alla presenza di pubblico – 16 mila spettatori, per il 25% di capienza – il 1 giugno per gli Europei di Calcio all’Olimpico di Roma. Il premier Draghi, nel nuovo Dpcm anti-Covid, ha ufficializzato le riaperture dal prossimo 26 aprile: sì in zone gialle a ristoranti, sport e spettacoli se all’aperto, compreso finalmente il via libera a cinema e teatri al chiuso, nell’ovvio rispetto delle misure sanitarie e dei limiti di capienza. Ma la super-notizia di oggi non ci deve far deflettere dal chiederci il perché teatri e cinema siano rimasti inspiegabilmente chiusi dall’ottobre 2020, mentre le chiese da allora in poi siano rimaste aperte, sempre e ovunque, persino in zone rosse e in lockdown totale.

Ma mi chiedo: il ministro Franceschini, titolare del MiC (Ministero della Cultura) nel governo Draghi, già allo stesso dicastero nel Conte bis, e, ancor prima, nei governi Renzi e Gentiloni, era estraneo alla decisione governativa pro-“chiese aperte”, e dov’era e di che cosa è stato ministro in questi mesi? La sua flebile voce ci è giunta solo qualche giorno fa, quando ha chiesto (a chi, se non prima di tutto a sé stesso?) per gli spettacoli le stesse misure cautelari che nel calcio, magari, si vociferava, con l’aggravio di preventivi tamponi a pagamento – misura così assurda che avrebbe desertificato cinema e teatri, trasformando in una beffa la loro eventuale riapertura.

Per il resto, in tutto il corso della pandemia, il ministro (assieme al governo) è stato sovranamente assente e silente. Nonostante le lagnanze e le proteste che si levavano sempre più forti dal mondo dello spettacolo, dall’Agis, dall’Unita, da lavoratori, attori e registi, tra cui Riccardo Muti, Glauco Mauri e Pierfrancesco Favino. Nonostante appelli e lettere aperte, come quella dell’ottobre 2020 dell’attore comasco Stefano Dragone (cognome, si direbbe, davvero all’altezza dell’era Draghi), che chiedeva al ministro spiegazioni dell’incomprensibile perché della chiusura dei teatri e dell’apertura delle chiese, più numerose (100 mila sul territorio nazionale, di cui 30 mila riaperte al culto) e dunque potenzialmente molto più contagiose dei teatri (1.236, non contando però i piccoli teatri di paese). Dati percentuali sul contagio da Covid che Stefano Massini, sulla base di studi pubblicati dall’Università tecnica di Berlino, ha nel febbraio 2021 così riassunto in tv a «Piazza pulita»: supermercati 1%, uffici 8%, scuole 2,9%, teatri 0,5.

Dunque, l’indice di contagiosità dei teatri era ed è impercettibilmente minuscolo. Ma allora davvero non si capisce il perché dell’ostinata decisione governativa di chiusura dei teatri, che sono un caposaldo della nostra civiltà, e quindi di mortificazione dell’alto valore artistico-creativo della cultura teatrale, derubricata talvolta nei Palazzi del governo a svago, intrattenimento, divertimento («i nostri artisti che ci fanno divertire»: così l’ex-premier Conte in una sua infelice uscita). La difesa dei teatri è stata così regalata, colpevole l’inerzia del Pd e la scomparsa dei 5S, alla mitica coppia Salvini-Meloni in perenne campagna elettorale, dinanzi ai quali si è aperta una sconfinata prateria propagandistica fra i settori e le fasce di lavoratori più in sofferenza nel mondo dello spettacolo.

Non si capisce perché gli appelli talvolta disperati di compagnie, operatori, artisti, attori e registi di cinema e teatro siano quasi tutti caduti nel vuoto, rimasti senza adeguate risposte. Con un po’ di cattiveria, ci sarebbe da sospettare che Franceschini sia stato il ministro non del MiC, ma del Mi-Cei (sigla non meno brutta della prima): basterebbe assimilare la prima C alla seconda e tutto filerebbe. L’ipotesi che su Franceschini, e sul governo Conte prima e Draghi poi, abbia influito la pressione corporativa della Cei, ossia dei vescovi d’Italia, non è poi tanto peregrina.

In ogni caso, una sufficiente spiegazione teologica del sì alle «chiese aperte», costi quel che costi, è stata offerta da un recente articolo di don Pino Lorizio apparso su un settimanale cattolico, su cui qui vale la pena di soffermarsi. Don Pino, docente di «Teologia fondamentale» nella Pontificia Università Lateranense, nell’intento di contrapporsi a una non meglio precisata «koiné laicista del nostro Paese», tratteggia un’argomentazione che, a mio avviso, parte da una falsa premessa e da un principio ipostatico, indimostrabile. Conclusioni? Una serie di non sequitur.

La premessa: la «koiné laicista» contrapporrebbe faziosamente chiese e teatri, fede religiosa e cultura, dal che conseguirebbe per il teologo la necessità di difendere il valore culturale della religione e l’apertura delle chiese al culto. Come se – supremo non-senso e falsità – i laici avessero mai sostenuto di voler chiudere le chiese e aprire i teatri, o addirittura, proibire il culto religioso, mentre in realtà han sempre ripetuto che, a parità di condizioni e misure igienico-sanitarie, i teatri vanno tenuti aperti, così come le chiese. Altrimenti, si tratterebbe non di un diritto, ma di un privilegio. Laicità significa uguali diritti per tutti, credenti, non credenti e miscredenti, e per tutti i settori e le attività, religiose o non-religiose. Questo è il sale della democrazia. La sempre risorgente polemica «antilaicista» da parte di gerarchie o ambienti cattolici di destra, deformando strumentalmente in questo caso il dibattito pubblico, peraltro molto rachitico, su «chiese aperte teatri chiusi», fa sospettare che si pretenda tuttora affermare in qualche modo la priorità e il primato assoluto della religione. Nella nostalgia di un oggi malaugurabile Stato confessionale.

L’ipostasi: l’assunzione unilaterale della «dimensione religiosa, trascendente» a «struttura fondamentale dell’umano», unica ed esclusivista, dal che, ritengo, segue (il)logicamente: 1) che la dimensione religiosa sia, – contro ogni diversa verità fattuale, – onnicomprensiva dell’umano; al di fuori, non ci sarebbe che peccato, deviazione, perdizione, diabolicità; 2) che rispetto all’ipostasi dell’«uomo ad una sola dimensione», quella religiosa, l’ateo, l’agnostico, il diversamente pensante sia riducibile di conseguenza a uno spregevole mezzo-uomo, se non a un sotto-uomo (penso all’antica indifendibile sinonimia di «cristiano» e «uomo»). Due arbitrarie assurdità anti-laiche e anti-universalistiche, che hanno da sempre giustificato feroci censure e repressioni della libertà intellettuale e dello spirito critico. Non vorrei che la «Teologia fondamentale», di cui don Pino è autorevole docente, possa a qualcuno apparire, più che fondamentale, «fondamentalista».

Sarebbe bene che il cattolicissimo ministro del MiC prendesse le distanze da tali posizioni, a parole e a fatti, apprestandosi, d’ora in poi, a una difesa, senza se e senza ma, anche dei teatri e degli altri spazi culturali, non solo di quelli religiosi, se vuole essere, come deve, il ministro di tutti.



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