Tecnocrazia, malattia senile della democrazia?

In questa puntata: "La democrazia dei tecnocrati" di Diego Giannone e Adriano Cozzolino e "Destino delle ideologie" di Jean Meynaud.

Pierfranco Pellizzetti

«Si insinuava un autoritarismo che per efficacia non
è certo paragonabile agli eccessi totalitari del XX
secolo, ma che lede la costituzione della libertà […]
che Ian Buruma chiama ‘tecnocrazia autoritaria’»[1].
Ralf Dahrendorf
«Queste rendite non derivano necessariamente dal
fatto di possedere un patrimonio di conoscenze che
pochi hanno, bensì dal fatto di riuscire a creare
un’impressione di valore»[2].
Mariana Mazzucato, Rosie Collington

Ideologia, chiave per leggere il cambiamento
I sessant’anni che separano i due saggi qui messi a confronto sono una valida testimonianza dello scarto che in questo lasso di tempo si è determinato a livello della stessa concettualizzazione riguardo alla governance politica. La misura dei cambiamenti indotti da un quasi incommensurabile salto sistemico.
Difatti il campo di indagine dello scienziato politico francese Jean Meynaud si colloca nel bel mezzo della costruzione ispirata dal paradigma keynesiano: il Welfare State. La ricerca dei politologi Diego Giannone e Adriano Cozzolino parte dalla fine temporale dell’analisi precedente e registra gli effetti di smantellamento del compromesso che aveva assicurato una trentennale crescita economica, accompagnata dallo scambio politico tra piena occupazione tendenziale e regolazione del capitalismo attraverso l’intervento pubblico in funzione anti-ciclica. Il passaggio dall’interazione sinergica tra democrazia ed economia capitalistica alla denuncia radicale di tale accordo, avviata nel passaggio dal frame liberal-socialista a quello neo-liberista. Una rottura in cui l’aspetto ideologico svolge un’irrinunciabile funzione euristica.
Proprio a tale proposito il ragionamento dell’antico docente dell’Università di Losanna, nato nel 1914 a Carpentras in Provenza, parte dalla domanda “siamo davvero arrivati alla fine dei conflitti ideologici?” (J. M. pag. 17). Intendendo per ideologia qualcosa di simile alla weltanschauung che entra in campo nel confronto agonistico/antagonistico tra gruppi sociali. Quel sistema di idee in cui si mescolano proposizioni di fatto e giudizi di valore che Raymond Aron chiamava “ismi”, caratterizzati da almeno tre aspetti costitutivi: “potenziale emozionale (a differenza delle pure idee essi mirano meno a dimostrare che a convincere); giustificazione di interessi o di gruppi; struttura apparentemente logica”[3]. Un prodotto intellettuale di cui si direbbe sia venuta meno l’utilità nel periodo in cui scrive Meynaud; in apparenza pacificato: quanto i philosophes parigini definivano “i Trenta Gloriosi” (1945-1973) e lo storico inglese Eric Hobsbawm “l’età dell’oro”. “A un’Età della catastrofe, che va dal 1914 sino ai postumi della seconda guerra mondiale, hanno fatto seguito una trentina d’anni di straordinaria crescita economica e trasformazione sociale, che probabilmente hanno modificato la società umana più profondamente di qualunque altro periodo di analoga brevità. Guardando indietro, quegli anni possono essere considerati come una specie di Età dell’oro, e così furono visti non appena giunsero al termine all’inizio degli anni ’70. L’ultima parte del secolo è stata una nuova epoca di decomposizione, di incertezza e di crisi”[4]. Da qui il commento del suo collega anglo-americano Tony Judt, segnalando l’avvento di un’altra età, quella “dell’oblio”: “con troppa sicurezza e poca riflessione ci siamo lasciati alle spalle il ventesimo secolo, lanciandoci a testa bassa in quello successivo ammantato di mezze verità egoistiche: il trionfo dell’Occidente, la fine della Storia, il momento unipolare americano, l’avanzata ineluttabile della globalizzazione e il libero mercato”[5]. Sicché Thomas Piketty potrà osservare che – dopo i Trenta Gloriosi – sia giunta “la brutta parentesi dei ‘trenta ingloriosi’ (i quali, in verità, saranno tra non molto trentacinque o quaranta)”[6].
L’ultimo quarto del Novecento che – a posteriori – ha avvalorato i dubbi espressi da Meynaud. “Secondo i suoi sostenitori, la tesi dell’affievolimento delle ideologie esprime e sintetizza i comportamenti politici effettivi nei regimi pluralisti a economia sviluppata. […] Questa posizione non può essere accettata che con beneficio d’inventario. L’affermazione che le nostre società obbediscano ormai a potenti correnti pacificatrici serve troppo bene certi interessi per non provocare disagio” (J. M. pag.37).

Complessità e tecnocrazia
Come illustrano dettagliatamente i politologi dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” Giannone e Cozzolino, nella fase matura della stagione welfariana lo Stato pianificatore e interventista determinava un aumento esponenziale della complessità di governance, per cui sempre di più lo Stato tendeva a diventare “un’impresa di servizi che devono funzionare bene. Un’impresa che deve essere redditizia e che ha come campo d’azione la nazione stessa” (D. G. e A. C. pag. 41). Un processo di trasformazione delle istituzioni, acuito dalle politiche di privatizzazioni e liberalizzazioni, che il ceto di partito non è in grado di governare – anche – per mancanza di competenze e attitudine al problem-solving. Un cambiamento radicale che il sistema partitocratico affronta sempre di più facendo ricorso all’opzione tecnocratica. E con questo ritorniamo ancora una volta ai distinguo di Jean Meynaud.
Tale soluzione “non si configura né come un mero potere sostitutivo, né come un potere di transizione votato all’ordinaria amministrazione. Essa diventa invece espressione di una capacità politica autonoma di cui i tecnocrati sono portatori, e dunque di una politica tecnocratica che è possibile analizzare empiricamente, […] mettendo in evidenza come i tecnocrati siano stati portatori di una specifica visione del mondo fondata su un insieme coerente di valori e credenze che strutturano una vera e propria ideologia tecnocratica” (D. G. e A. C. pag. 13). Alla luce della fondamentale distinzione tra il tecnico e il tecnocrate; nel differente rapporto che intercorre con il potere, “il tecnico può essere definito come un esperto dotato di una competenza specialistica in un particolare ambito o settore, che gestisce il potere in maniera indiretta e in ruoli di natura amministrativa. Il tecnico è l’esperto del particolare, che svolge  la sua funzione sotto la direzione di altre élite, individuando i mezzi più idonei ed efficaci per raggiungere fini politicamente determinati. Il tecnocrate, invece,  è il tecnico collocato in ruoli decisionali di natura altamente politica, che gestisce il potere in maniera diretta e in posizione di comando. Egli diventa ‘l’esperto del generale’, incaricato di individuare sia i fini da raggiungere che i mezzi più idonei” (D. G. e A. C. pag. 27). E tutto questo nella singolare specularità con l’altra figura centrale in questa fase storica: la grande consulenza di direzione strategica (Big Con), oggetto di una recente indagine curata dall’Economista Mariana Mazzucato. Nel comune riferimento al frame egemone a partire dalla svolta restaurativa guidata dall’ideologia neoliberista – declinata a destra come restaurazione conservatrice reaganiano-thatcheriana e a sinistra quale Terza Via clintoniano-blairiana – di cui tecnocrati e consulenti risultano i più fedeli cani da guardia. “Nel 1984 Reagan varò la legge sulla concorrenza negli appalti, che imponeva alle agenzie governative federali degli Stati Uniti di attuare ‘una concorrenza piena e aperta attraverso l’uso di procedure competitive’. […] Dagli anni Ottanta i politici neoliberisti iniziarono a invocare l’introduzione di un pacchetto di riforme del settore pubblico noto come New Public Management, che puntava a ricalcare le prassi in uso nel settore pubblico su quello delle imprese private”[7]. E la Mazzucato specifica non trattarsi di scelte disinteressate: “nel 1991 due professori universitari, Christopher Hood e Michael Jackson, coniarono il termine consultocrazia per descrivere la crescente influenza dei consulenti gestionali. La consultocrazia era definita come un ‘movimento disegnato per promuovere gli interessi di carriera di un gruppo ristretto di new manageralist (dirigenti e consulenti) e come uno strumento per favorire interessi particolari’. Questo per quanto riguarda l’affarismo Big Con. Per la scalata al potere della tecnocrazia, i tecnocrati risultano i costruttori di uno Stato “che da un lato accentua la sua funzione dirigista, con l’accentramento di poteri e competenze nelle mani dell’esecutivo anche attraverso l’utilizzo abnorme della fiducia o dello strumento legislativo del decreto legge; dall’altro limita il suo campo d’azione, attraverso l’adozione di vincoli di natura macro-economica, regole tese a ridurre la spesa pubblica e a mantenere il bilancio in pareggio, generale ristrutturazione della spesa sociale e del welfare, con conseguente taglio dei diritti e delle prestazioni socio-sanitarie” (D. G. e A. C. pag. 34). Una politica con altri mezzi per la messa sotto tutela della democrazia rappresentativa, a centralità partitica e quindi parlamentare. In una direzione squisitamente neoliberale: “privatizzazioni, liberalizzazioni, ripensamento del ruolo dello Stato in economia, potenziamento della concorrenza e riforme del lavoro” (D. G. e A. C. pag. 202).

Tecnocrazia made in Italy
Questo svuotamento tecnocratico prende avvio nella fase terminale del Novecento e subisce un’accelerazione nel 2008, la più grave crisi economica occidentale dopo quella del 1929, a seguito dell’esplosione della bolla finanziaria di Wall Street. E l’Italia della Prima Repubblica morente è un vero laboratorio del processo. Per ben quattro volte nell’arco di un trentennio il nostro Paese ha sperimentato soluzioni a guida tecnocratica: i governi di Carlo Azeglio Ciampi (1993-94), Lamberto Dini (1995-96), Mario Monti (2011-13) e Mario Draghi (2021-22). Monti a parte, “la Banca d’Italia resta, in questo arco storico, il principale attore istituzionale nella formazione di una classe di tecnocrati con una chiara visione politica del cambiamento. Del resto, è uno dei maggiori protagonisti della storia della Banca, Guido Carli, ad affermare che ‘la Banca d’Italia capì che si doveva selezionare una nuova classe dirigente. In questo fummo autonomi, indipendenti” (D. G. e A. C. pag. 211). Così Giannone e Cozzolino ci accompagnano in un viaggio che giudicano ben lungi dall’essere concluso. Per questo utilizzano categorie gramsciane di “interregno” (una situazione di cui non si intravvede la fine) e di “rivoluzione passiva”, in cui i processi di trasformazione sono governati dall’alto. In attesa che il tempo dia risposta al quesito se “la democrazia riuscirà a ricomprendere e riportare l’expertise nel suo alveo, oppure se essa verrà inesorabilmente fagocitata dall’elitarismo economicista della tecnocrazia” (D. G. e A. C. pag. 213). Lasciando così irrisolto l’antico dubbio di Jean Meynaud; che si può dire profetico: “nei Paesi democratici, i rappresentanti eletti sono spesso, in diritto e in fatto, esclusi dalle decisioni più importanti. Capita così che le preferenze dei tecnocrati prevalgano sugli altri fattori di scelta. È del tutto utopistico ammettere che, prolungandosi e approfondendosi, queste tendenze trasformerebbero i cittadini in oggetti influenzabili e manipolabili, e che questi perderebbero il gusto e forse anche il senso delle divisioni di parte?” (J. M. pag.225). Era il 1964!

Nelle puntate precedenti

[1] Ralf Dahrendorf, Erasmiani, Laterza, Roma/Bari2007 pag. 214
[2] Mariana Mazzucato e Rosie Collington, Il Grande Imbroglio, Laterza, Roma/Bari 2023 pag. 6
[3] Raymond Aron, “Les idéologies et leurs application au XXéme siecle”, Res Publica, numero speciale 1960 pag. 276
[4] Eic J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995 pag. 18
[5] Tony Judt, L’età dell’oblio, Laterza, Roma /Bari 2011 pag. 3
[6] Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014 pag.157
[7] M. Mazzucato e R. Collington, Il Grande Imbroglio, cit. pag. 53
[8] Ivi pag. 54



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