Esiste una teoria socio-economica della destra?

Una riflessione sulla congenita inettitudine della destra – nelle sue differenti intensità, da quella conservatrice a quella reazionaria – a promuovere un pensiero propositivo.

Pierfranco Pellizzetti

«La difficoltà non sta nelle idee nuove,
ma nell’evadere dalle idee vecchie»[1]
John M. Keynes
«Il cambiamento ha da tempo cessato
di coincidere con il progresso»[2].
Anthony Giddens

Reattivo contro proattivo
Al tempo degli estremi bagliori dell’Età welfariana, Albert Otto Hirschman scrisse un breve saggio dal titolo emblematico, The Rethoric of Reaction (malamente tradotto nell’edizione italiana come Retoriche dell’intransigenza), in cui esaminava le strategie argomentative del pensiero reazionario; quando «il carattere ostinatamente progressista dell’epoca fa sì che i reazionari vivano in un mondo ostile. Stante questa condizione della pubblica opinione, sono poco inclini a lanciare un attacco globale contro un obiettivo del genere. Essi invece lo sottoscriveranno (più o meno sinceramente), ma tenteranno poi di dimostrare che l’azione proposta o intrapresa è malconsigliata. Nel caso più tipico, insisteranno anzi che quest’azione produrrà, via un concatenamento di azioni non volute, l’esatto contrario dell’obiettivo proclamato e perseguito»[3].

Il trittico di format concettuali “futilità” (ogni tentativo di cambiare le cose è destinato ad abortire: da Giuseppe Tomasi di Lampedusa a Vilfredo Pareto), “perversità” (gli effetti inintenzionali di un’azione rivolta al bene che si trasforma nel contrario: da Edmund Burke a Joseph De Maistre) e “messa a repentaglio” (ogni riforma è una minaccia per conquiste precedenti: da Benjamin Constant a Gustave Le Bon).

Al rintocco di oltre trent’anni dal saggio hirschmaniano – mentre la congiuntura astrale ha da tempo sancito la fine dell’epoca progressista e, anche per il nostro disgraziato Paese, si annuncia alle porte l’instaurazione del dominio della destra – un tratto di quell’analisi risulta tuttora incontrovertibile: la sua congenita inettitudine a promuovere un pensiero propositivo; come spiegava Michael Walzer, effetto (nomen omen) di una natura reattiva[4], dunque mai proattivo. La tendenza a reagire rispetto all’attitudine – progressista – di anticipare. E se il pensiero di destra (nelle sue differenti intensità, dal conservatore al reazionario) fa proprio un lessico apparentemente progettuale, si tratta solo di riflessi condizionati, indotti dalla lunga stagione di mimetismo imitativo subalterno attraversata per larga parte del Novecento. Tanto da autorizzare una risposta negativa alla domanda in capo a questo testo. Passiamo a giustificare una tale affermazione.

L’azione pubblica conosce già a partire dagli albori della società l’idea di potere come tecnologia del controllo e di politica come amministrazione. Un quadro intellettuale stravolto dall’avanzata del concetto cardine della Modernità: il cambiamento, che rompe la staticità permanente degli assetti propri dell’Evo Antico e dell’Età di Mezzo; correlato alla scoperta, conseguente alle rivoluzioni del “Lungo Settecento” (rivoluzione inglese, americana e francese), della natura plastica della società, manipolabile dalla volontà progettuale di un soggetto collettivo.

La specializzazione della politica, derivante dalla rottura teorica e pratica conseguente, determina la formazione di due campi contrapposti: una sinistra per principio innovativa/progressista, ispirata dalla triade di valori ragione-consenso-inclusione, e una destra, apoditticamente avversa al cambiamento, acquartierata attorno agli assunti-guida gerarchia-autorità-tradizione.

Dalla parte di quelli che non capiscono (i nostalgici)
Sicché, se la Sinistra rettamente intesa è portatrice di pensiero del cambiamento/trasformazione, alla destra è intrinsecamente funzionale quello del potere in quanto conservazione. Due posizioni/mentalità tradizionalmente referenti di gruppi sociali profondamente diversi: la prima, i ceti emergenti, mentre alla seconda tendono a rivolgersi gli abbienti e gli impauriti. Con ininterrotti cambi di campo, dipendenti dall’evoluzione storica e dalle dinamiche antagonistiche degli interessi: al riguardo Eric Hobsbawm ha scritto che nel 1848-1849 «la borghesia cessò di essere una forza rivoluzionaria»[5].

La dialettica “indirizzo del cambiamento al progresso inclusivo” versus “inversione del processo per tutelare gli interessi penalizzati (e tranquillizzare quanti si percepiscono emarginati da una trasformazione di cui non comprendono il senso)”, al servizio delle istanze contrapposte del riscatto attraverso i diritti e del rassicuramento dei nostalgici delle passate certezze attraverso la riaffermazione dei doveri, ha conosciuto nel Novecento la propria più lampante esplicitazione.

L’apparentemente crisi terminale del capitalismo esplosa nel ‘29 riceve risposte progressiste nel New Deal rooseveltiano, poi nel Welfare State promosso dal binomio Keynes-Beveridge e perdurante nell’intero trentennio post-bellico ‘45-’73.

Nello stesso periodo i laboratori del pensiero reazionario – dalla Mont Pelerin, l’associazione dei “liberali da Guerra Fredda” fondata da Friedrich Hayek sul lago Lemano, ai think tank sul Potomac e l’Hudson – elaboravano strategie per smontare il blocco sociale progressista e creare le condizioni per la tanta attesa svolta reazionaria, volta in primo luogo a vanificare il clima intellettuale che aveva alimentato il riformismo progressista. Quindi sfociata nell’avvento del duo di distruttori Reagan e Thatcher; formidabili diffusori di generiche paure tra la piccola gente, pronta a rinunciare inconsapevolmente alle protezioni sociali a vantaggio delle plutocrazie e contro le politiche egualitarie attraverso la leva fiscale.

L’Economico che gioca in proprio
Una storia in larga misura anglosassone (che poi è dilagata in tutto l’Occidente). Come ricostruisce l’economista premio Nobel Paul Krugman: «Reagan insegnò come rivestire idee economiche elitiste con una retorica populista. Nixon, anche se non apparteneva alla destra ultraconservatrice, dimostrò come sfruttare il lato oscuro dell’America – risentimenti culturali e sociali, ansie legate alle sicurezza in patria e fuori, e soprattutto la razza – per vincere le elezioni»[6]. Operazione contro-rivoluzionaria progettata dai pensatoi reazionari e perseguita attraverso tambureggianti campagne anti-tasse. Quanto Noam Chomsky definisce “la tecnica standard delle privatizzazioni”: priva di fondi il settore pubblico, fai in modo che le cose non funzionino, la gente si arrabbi e lo consegni al settore privato. Così, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, si realizza lo smantellamento del compromesso civico-industriale (keynesiano), che nel giro del decennio successivo annulla l’intero sistema di sicurezza e garanzie attraverso l’introduzione di misure orientate all’affermazione di una flessibilità generalizzata (si scrive “flessibilità” ma si legge “precarietà”). Prende avvio la deregolamentazione che gli allievi di Pierre Bourdieu – i sociologi parigini Luc Boltansky ed Éve Chiappello – sintetizzano nel passaggio «dallo sfruttamento all’esclusione»[7].

Anche perché il quadro politico ha subito una mutazione genetica, rappresentata dall’inserimento di un terzo incomodo che gioca in proprio tra destra e sinistra: l’Economico che, liberatosi dei contrappesi, promuove la globalizzazione finanziaria con cui riduce il Politico all’attuale condizione servile. Con l’effetto indotto dell’omologazione dell’intero ceto politico ridotto a caporalato dell’egemonia finanziaria (e con la sinistra, diventata seconda-destra, che amministra, facendo ricorso al politicamente corretto, il capitale di consenso in costante erosione accumulato nelle passate stagioni). Oggi «il problema fondamentale sollevato dai processi di cambiamento sta nel fatto che possono finire per frammentare la società invece di ricostruirla. Al posto di istituzioni trasformate, avremmo in tal caso comuni e comunità di ogni natura. Al posto di classi sociali, vedremmo nascere tribù»[8].

In conclusione
Mentre il quadro competitivo della politica tende ad annullarsi nell’omologazione dei discorsi, la vecchia destra mette a frutto la propria superiore tecnologia del potere (non contrastata dalla capacità progettuale di una sinistra estinta) e si insedia definitivamente ai vertici delle istituzioni, vincendo le consultazioni elettorali: in Francia, in Ungheria, nel Regno Unito, in Polonia, in Grecia… e domani in Italia. Una destra composita, che trova il proprio punto comune nell’esorcismo del cambiamento:

– la destra sognatrice, che vagheggia il ritorno a un’ipotetica età dell’oro tipo fantasy;
– la destra risentita, che ricerca un capro espiatorio cui addebitare quello che non capisce (ma che la turba);
– la destra mercenaria, che si mette al servizio come massa di manovra per intimidire chi protesta e si oppone alla cancellazione dei diritti;
– la destra padronale, che scarica le proprie frustrazioni in odio dei lavoratori, vuoi in quanto a ciò remunerata, vuoi per il mito dell’uomo forte al comando;
– la destra Legge&Ordine, che vuole mettere a tacere la domanda disturbante di giustizia sociale;
– la destra sovranista, che presume di essere valorizzata da una politica nazionalista del “prima noi”;
– la destra suprematista, che trae il rafforzamento della propria identità dal disprezzo aggressivo dell’altro (comunque diverso dagli standard correnti nella sotto-cultura del maschio bianco-cristiano-etero).
E chi più ne ha più ne metta.

Sicché pensare che da questi residuati della politica e della società, esenti da qualsivoglia acculturamento civile alla convivenza e capacità di governo delle complessità, possa arrivare un progetto socio-economico minimamente plausibile, rimane una pia illusione. Piuttosto possiamo attenderci prese di posizione identitarie (ad esempio attacchi alla Costituzione repubblicana figlia della Resistenza, a partire dall’Art. 1), regolamenti di conti (contro il lavoro organizzato o i residui centri/soggetti che conservano le tradizioni illuministico-progressiste), saccheggi vari e occupazioni dello spazio pubblico, del sottogoverno, dei luoghi simbolo delle ascese sociali individuali. Attendiamoci il definitivo isolamento internazionale, sostituito dalle frequentazioni di affinità con Stati tendenzialmente “canaglia”.

Forse qualcuno potrebbe illudersi che per l’eterogenesi dei fini, o per qualche effetto serendipity, anche le nuove torme fameliche che sostituiranno i pallidi predecessori che si sono svenduti la lezione progressista, potranno sciogliere alcuni nodi che ci affliggono. In fondo persino il torbido regime fascista, che oggi viene lodato per il merito-tormentone dei “treni in orario”, aveva (casualmente) saputo inventare una soluzione economica che colpì negli anni Trenta la fantasia degli Stati democratici: il modello di economia mista con la creazione dell’Istituto di Ricostruzione Industriale (IRI), promosso nel 1933 dal ministro delle finanze Guido Beneduce e dal futuro presidente di Banca d’Italia Donato Menichella. I rumors sui dialoghi della leader di Fratelli d’Italia con Tremonti e il presidente di Confindustria Carlo Bonomi lasciano presagire campagne di arruolamento del nuovo governo prossimo futuro. Resta il fatto che il Fascismo restò un regime liberticida nonostante i Menichella e i Beneduce; e che l’avvento di questa destra, nonostante lo schermo di qualche personaggio con funzioni decorative, resta prigioniera di una mentalità reazionaria (con il sovrappeso dell’affarismo combinato con le frequentazioni tendenti al malavitoso tanto del sempiterno/osceno Silvio Berlusconi come del caricaturale Matteo Salvini).

Forse la chiave di questa (ir)resistibile ascesa del peggio sta in quanto scriveva profeticamente su MicroMega – nell’ormai lontano 1995 – Norberto Bobbio: «ciò che è avvenuto in questo secolo non è la fine, né tantomeno l’interruzione del progresso. Ma la dissociazione fra progresso scientifico e tecnico e progresso morale»[9].

NOTE

[1] J. M. Keynes, “Lettera aperta a Roosevelt”, New York Times 31 dicembre 1933

[2] A. Giddens, Oltre la destra e la sinistra, il Mulino, Bologna 1997 pag.63

[3] A. O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza, il Mulino, Bologna 1991 pag. 19

[4] M. Walzer, Reset 26 marzo 1996

[5] E. J. Hobsbawm. Il trionfo della borghesia, Laterza, Roma/Bari 1976 pag. 24

[6] P. Krugman, La coscienza di un liberal, Laterza, Roma/Bari 2008 pag. 165

[7] L. Boltansky ed É. Chiappello, Il nuovo spirito del Capitalismo, Mimesis, Sesto S. Giovanni 2014 pag. 401

[8] Manuel Castells, Volgere di millennio, Università Bocconi Editore, Milano 2003 pag. 421

[9] N. Bobbio, “Progresso, scienza e libertà”, MicroMega 2/1995

(credit foto ANSA/CLAUDIO PERI)



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