Terre di confine/La frontera di Gloria Anzaldúa: Ogni parola è una rivolta

Sconfiniamo dal Texas al mondo in compagnia di Gloria Anzaldúa, meticcia per l'anagrafe e ribelle per scelta.

Daniele Barbieri

“I libri mi hanno salvato dalla pazzia” scrive Gloria Evangelina Anzaldúa (ma lei preferiva firmarsi come gloria anzaldúa, con le minuscole come bell hooks, oppure con la sigla GEA): “La conoscenza ha aperto i luoghi in me sigillati e mi ha insegnato dapprima come sopravvivere e poi come librarmi in volo”. Una frase che molte persone, pur senza essere chicanas o femministe come lei, potrebbero sottoscrivere: l’ignoranza è il primo anello della catena che ci rende schiave e schiavi nelle teste prima che nei corpi,

È una lettura indispensabile – ma faticosa, poi spiegherò perchè – questo “Terre di confine / La frontera” del 1987 che meritoriamente le edizioni Black Coffee ripubblicano (300 pagine, 18 euro) nella nuova traduzione di Paola Zaccaria che strada facendo deve essersi sentita oscillare fra l’angoscia dell’intraducibile e la felicità di aver trovato le parole giuste, a volte lasciate in originale, ben motivando questa sofferta scelta. Nuova traduzione della stessa Paola Zaccaria, perché nel 2000 ancora non aveva fatto pienamente i conti con “una lingua mestiza” cioè “insubordinata, selvatica, non etero-normativa, indisciplinata, smurante, denazionalizzate e deuniversalizzante”. S-murante: che abbatte i muri. Un “testo-corpo” che bisogna dunque affrontare con la passione e i sensi prima che con i vocabolari. Perché qui ogni parola può essere un mondo nuovo e/o una rivolta urgente.

Il tipo di linguaggio che oggi viene  definito “transfemminista” (o simili etichette-gabbiette) è a volte diventato uno stereotipo. Qui invece siamo all’origine e al senso compiuto: una vera rottura dei confini, muoversi controcorrente, mettere tutto sottosopra.

Un libro assolutamente da leggere ma con calma perchè molti passaggi non sono facili: il piacere dell’immaginazione ma anche la trasformazione personale che verranno insieme alla lettura – e dopo – compenseranno di ogni piccola fatica.

Scritto in poesia e prosa ma anche in molte lingue parte da “una frontiera fisica reale” (fra il Texas e il Messico) per poi scavalcarne molte: “psicologiche, sessuali, spirituali” e ovviamente di classe e di razza (o meglio di razzismo).

“Questa è la mia casa

questa sottile linea di

filo spinato

[…]

Questa terra un tempo era messicana

è stata india sempre

e lo è ancora.

E lo sarà di nuovo”.

Gli ultimi quattro versi torneranno più volte nel libro.

Filo spinato: magari non lo sapete ma sono 1950 miglia sul confine Messico-Usa; e io aggiungo che il muro di Berlino era lungo 43 chilometri, tanto per fare i conti con matematica e storia.

Altri numeri? Quelli del genocidio anzitutto: “prima della Conquista, in Messico e nello Yucatan c’erano 25 milioni di nativi; subito dopo… la popolazione india era stata ridotta a meno di 7 milioni”. Oppure quello delle persone che “legalmente o illegalmente” attraversano la frontiera: “10 milioni di persone senza documenti hanno fatto ritorno nel Sudovest”

Poi assenze e presenze, sogni e serpenti, segreti e false verità, silenzi e “terrorismo linguistico”, sentieri e arti: la storia di GEA (un acronimo che rimanda alla Terra) che si intreccia con mille o milioni di altre. “Verso una nuova coscienza”. Fu genocidio sì ma anche ecocidio e “cervicidio” perchè nella simbologia nativa la cerbiatta rappresenta tutte le donne. Una poesia intitolata “Un mare di cavoli (Per quanti hanno sempre lavorato nei campi” oppure un’altra “per Juanita Ramos e le altre lesbiche ispaniche” lascerà il segno. E tantissimo altro.

Una possibile colonna sonora aggiuntiva o parallela? Se non conoscete “Arauco tiene una pena” di Violeta Parra, il momento giusto per ascoltarla è proprio leggendo questo libro.



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