The Good Place: un’etica per il paradiso (o per l’inferno?)

Ora disponibile su Netflix, la serie tv pone una domanda chiara: “Se esistesse qualcosa dopo la morte, pensate che meritereste di finire nel ‘lato buono’ dell’aldilà?”.

Sofia Belardinelli

Vi considerate brave persone? Se esistesse qualcosa dopo la morte, pensate che meritereste di finire nel ‘lato buono’ dell’aldilà? E se invece sapeste, in cuor vostro, di non meritare di passare il resto dell’eternità in paradiso, visto come avete vissuto sulla Terra, ma finiste lì per sbaglio – per un errore tecnico – come vi comportereste?

È proprio con questa improbabile eventualità che si apre The Good Place, un’originalissima serie televisiva statunitense in quattro stagioni, andata in onda tra il 2016 e il 2020 e ora disponibile sul canale di streaming Netflix. A vivere questa distopica esperienza ultraterrena, catapultata suo malgrado in paradiso, è Eleanor Shellstrop, una mediocrissima cittadina ‘a stelle e strisce’ che, dopo una morte tanto insulsa quanto lo è stata la sua vita, si risveglia nell’ufficio di Michael, architetto immortale dell’aldilà, il quale le annuncia che lei, Eleanor, è morta, e che sì, ce l’ha fatta: è stata destinata al Good Place, nel quale potrà trascorrere felicemente il resto dell’eternità.

Visitando per la prima volta questo incantevole paradiso – in tutto e per tutto simile a una ridente cittadina, con negozi, ristoranti e vicini assolutamente amabili (d’altronde, si sta parlando di un’utopia) – Eleanor capisce che c’è stato uno scambio di persona: come aveva subodorato, infatti, quel posto in paradiso non è riservato a lei, un’egoista ed egocentrica che non ha mai fatto nulla per gli altri, ma a una sua omonima che nella vita è stata un’encomiabile attivista per i diritti umani, e la cui morte, per puro caso, ha coinciso esattamente con quella della ‘nostra’ Eleanor. Insomma, un bug di sistema sembra aver dato alla giovane un’insperata opportunità.

E chi si lascerebbe scappare una tale occasione, confessando di essere la persona sbagliata? Di sicuro non l’egoista Eleanor, che coglie al volo la buona sorte e inizia ad elaborare un piano per rimanere sotto copertura – cioè per fare in modo che gli immortali creatori di quell’angolo di paradiso non si accorgano della sua vera (mediocre) natura.

È a questo punto che entra in gioco un altro dei personaggi principali, e la trama si fa sempre più succosa: si tratta di Chidi, professore di filosofia morale che ha sempre agito secondo i principi etici studiati durante il suo percorso accademico e che per questo, in seguito a una morte sfortunata, è giunto in paradiso. Eleanor vede in questo docente dalla vita moralmente irreprensibile, a lei assegnato come sua ‘anima gemella’, la sua possibilità di salvezza: sarà lui, infatti, a insegnarle ‘come essere una brava persona’.

Ecco, dunque, il vero protagonista di questa strana e straordinaria serie: la filosofia, e in particolare l’etica. Tra situazioni comiche e surreali, tra episodi divertenti ed eventi paradossali, i protagonisti (sono quattro, in tutto, gli eroi di questo improbabile viaggio in paradiso: a Eleanor e Chidi si aggiungono Jason, anche lui finito lì per sbaglio sotto le mentite spoglie di un monaco buddhista, e Tahani, giovane miliardaria filantropa) – i protagonisti, dunque, si interrogano continuamente su alcune delle domande più profonde della riflessione umana: la bontà è una virtù innata, oppure si può imparare ad essere buoni? Ma soprattutto, cosa significa davvero ‘essere buoni’? E come districarsi tra le infinite scelte a cui siamo costantemente chiamati dalla complessità del mondo reale?

Andando avanti nella visione, seguiamo i protagonisti – sempre accompagnati da Michael, l’architetto divino – nella progressiva comprensione di questo inusitato paradiso. Addentrandosi in esso, nella sua costruzione e nei suoi meccanismi di funzionamento, le stranezze aumentano, e le differenze rispetto al mondo terreno si fanno sempre più labili. Quanto più la trama si fa inverosimile, con colpi di scena inaspettati e a tratti esilaranti, tanto più ci immedesimiamo nei personaggi, che portano alla ribalta problemi etici con i quali si sono misurati, nel corso della storia del pensiero, i più grandi filosofi. Il dilemma dell’altruismo, ad esempio, o il problema del carrello ferroviario (di cui vi è una meravigliosa trasposizione visiva: da non perdere, per chi fosse appassionato di esperimenti mentali filosofici); la difficile scelta tra un approccio deontologico e uno consequenzialista, e i loro effetti nella vita reale; il significato profondo di valori come l’amore e l’amicizia; finanche il senso della finitudine umana, che, a ben guardare, potrebbe essere ciò che dà veramente uno scopo alla nostra esistenza.

Ma perché mai chi è in paradiso dovrebbe porsi domande tanto profonde, che rischiano di spalancare abissi?

Spoiler alert (parziale)

Il motivo si scopre nel primo grande colpo di scena del racconto, che giunge sul finire della prima stagione. A un certo punto, infatti, tutte le stranezze che caratterizzavano questo improbabile paradiso acquisiscono un significato: Eleanor, Chidi, Jason e Tahani non si trovano nel Good Place, e quel vicinato dai colori pastello non è neanche lontanamente simile al vero paradiso; Michael è in realtà un demone, un architetto del Bad Place che, con il beneplacito del suo capo, ha inventato un nuovo metodo di supplizio eterno, basato sulla sottile arma della tortura psicologica.

Da questo momento si apre un nuovo capitolo: i quattro protagonisti, sempre guidati dalla intraprendente Eleanor (ancora mossa, a questo punto del viaggio, dall’egoistico intento di salvare sé stessa, whatever it takes), cercano in tutti i modi di sconfiggere Michael e di fuggire dall’inferno nel quale si trovano da mesi, seppur a loro insaputa. Ma il loro legame si fa via via forte, e le sfide crescenti che si trovano ad affrontare li spinge a mettere in discussione le proprie convinzioni, il proprio stile di vita passato, e finanche sé stessi.

Nel loro tentativo di salvarsi, si rendono conto delle fallacie con cui l’intero aldilà è stato progettato: in un turbinio di cambi di scena, di viaggi nel tempo e nello spazio, i quattro si rendono infine conto che salvare sé stessi è una ‘così piccola ambizione’ di fronte a quello che hanno scoperto. E così, ad un certo punto, in maniera quasi naturale, l’obiettivo cambia, e diventa quello di salvare l’umanità da un sistema sbagliato, che condannerebbe tutti a un’eterna infelicità.

Insomma, quello che all’inizio sembra un classico show all’americana (mancano solo le risate preregistrate) si trasforma in una riflessione tutt’altro che scontata sull’etica umana. Senza mai scadere nel sentimentale, senza cedere al facile richiamo di un approccio religioso, si riflette su cosa significhi agire eticamente, se e come sia possibile farlo nel mondo odierno, che è costituito da catene causali tanto complesse da rendere pressoché impossibile evitare che le nostre azioni, seppur guidate dalle migliori intenzioni, abbiano impatti negativi in qualche tempo e luogo.

Ma quel che più conta – sembra suggerire The Good Place – non è il risultato, che dipende solo in parte dalla nostra volontà. Quel che importa non è che diventiamo effettivamente buoni e degni di un ipotetico paradiso, ma piuttosto che ci proviamo, che facciamo del nostro meglio per migliorare noi stessi e per agire eticamente nei confronti degli altri (i nostri prossimi, certo, ma non solo).

Michael Schur, il creatore della serie, ha spiegato in un’intervista a BuzzfeedNews che il messaggio che voleva inviare agli spettatori consiste nell’idea «che dobbiamo agli altri qualcosa, e che il compito di vivere sulla terra è quello di capire cosa dobbiamo loro e come possiamo procurarglielo. Questo è l’unico modo in cui potrà mai esservi progresso». La reciprocità, dunque, è alla base della nostra umanità: una chiave di lettura che ci responsabilizza, e suggerisce di concentrarsi sul vivere al meglio la realtà del presente, piuttosto che sperare in un incerto futuro.

 



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