Una Repubblica (s)fondata sull’anti-antifascismo

Ripubblichiamo un saggio di Tomaso Montanari uscito su MicroMega 3/2020 in cui spiega perché con i fascisti non può esserci memoria condivisa. Non in una Repubblica che sull’antifascismo si fonda.

Tomaso Montanari

Basta con l’uso fascista delle foibe! di Paolo Flores d’Arcais
«Non tutti gli antifascisti hanno lottato per la libertà, alcuni lo hanno fatto per l’egemonia sovietica dell’Italia. E non tutti i fascisti erano dei mascalzoni, come pretende la “vulgata antifascista”, la storia scritta dai vincitori». Sono parole del gennaio 2020 e pubblicate non sul Primato Nazionale (foglio di CasaPound) o sul Secolo d’Italia, né pronunciate da Giorgia Meloni o Matteo Salvini. Bensì apparse sul Corriere della Sera a firma di un editorialista di punta del giornale, Aldo Grasso 1. E non si tratta di una deplorevole eccezione. L’anno precedente, per pescare un esempio a caso, un altro editorialista di rango del Corriere, Pierluigi Battista, si era schierato a favore della presenza dello stand di un editore programmaticamente fascista al Salone del Libro di Torino: «Non considerare le opinioni diverse, anche sideralmente diverse, come reati: i reati d’opinione sono odiosi, sempre. Non pensare di far valere le proprie ragioni con l’aiuto della polizia: tentazione dei meschini, oltre che degli intolleranti. Non discriminare autori sgraditi, che presentano i loro libri sgraditi in una manifestazione culturale che dovrebbe conoscere piuttosto la bellezza della battaglia delle idee, non il conformismo di chi pretende di averne il monopolio» 2.
Sia il «terzismo» di Grasso che la retorica della tolleranza di Battista sono spie di un atteggiamento largamente condiviso dalla borghesia italiana che si ritiene liberale, e che ha nel Corriere il suo punto di riferimento: un atteggiamento che si potrebbe chiamare anti-antifascismo.

Di questa affezione della nostra classe dirigente scrisse molto bene Giorgio Bocca – proprio su MicroMega – nel 2004. Merita citarlo estesamente quel pezzo, intitolato «Basta con l’anti-antifascismo», il cui occhiello recitava così: «Nel regime berlusconiano, l’antifascismo è di nuovo il nemico del sistema, oggetto di una crociata antipartigiana che si trascina secondo i temi e i metodi della diffamazione, dei ricatti affidati ai cortigiani, della falsificazione della storia (anche da parte della supposta opposizione)»:

Un tale che si definisce il portavoce della comunità ebraica di Milano ha sostenuto in un’intervista a Sette, ebdomadario del Corriere della Sera, la seguente tesi: la rapida conversione dal fascismo all’antifascismo di molti giovani alla caduta del regime non convince, è stata troppo rapida, è mancato il «travaglio storico». È più convincente il ritorno alla democrazia dei neofascisti: ci hanno messo sessant’anni per maturare salde e serie convinzioni democratiche. Prima deduzione: anche gli ebrei possono essere dei perfetti cretini, per cui venti mesi di guerra partigiana non sono un travaglio storico e sessant’anni di rimasticamento fascista invece sì. Seconda deduzione: dietro l’apparente cretinismo c’è la solita, storica, strategica manovra della destra autoritaria di voltare gabbana per arrivare a un nuovo unanimismo. Cappuccetto rosso applicato alla politica, il lupo che si traveste da agnello.
La conversione a trecentosessanta gradi di Gianfranco Fini è una di quelle acrobazie che solo i grandi cinici antidemocratici sanno compiere proprio perché privi di coscienza e responsabilità democratiche: fare dei trattati della carta straccia, affrontare le apostasie più audaci e vergognose, come mostrano le storie dei fascismi.
La conversione del neofascismo italiano all’antifascismo è stata una delle pagine più indecenti della politica italiana e l’indifferenza con cui è stata accolta dalla pubblica opinione è la misura del disfacimento civile e politico del paese, il suo navigare nel vuoto.
A confermare questo senso del vuoto ci pensa anche la sinistra migliorista: in una trasmissione televisiva Massimo D’Alema ha confermato la sua vocazione al suicidio affermando che non esiste un regime e che viviamo in un ottimo Stato di diritto. Uno dei leader dell’opposizione, uno che passa per una fine testa politica, si è dato la zappa sui piedi, avendo prima di questa stupefacente dichiarazione spiegato che il governo Berlusconi non ha fatto altro che occuparsi degli interessi personali del suo padrone, si è impegnato a fondo nella guerra alla magistratura, ha ottenuto privilegi anticostituzionali e si è impadronito dell’informazione televisiva 3.

Bocca continuava anatomizzando «la crociata contro l’antifascismo», che passava innanzitutto attraverso l’equiparazione delle parti: «Bisogna rispettare i caduti, anche i caduti di Salò, combattevano per degli ideali. Una confusa retorica, un fascio di tutte le erbe, una falsificazione della storia».
Tra il 2004 della lucida e ferma analisi di Bocca e il 2019-20 di Grasso e Battista cosa è successo? È successo che, nel discorso pubblico, l’anti-antifascismo ha vinto. È successo, esulta Giuliano Ferrara, che dell’antifascismo «ci siamo liberati, grazie alla cultura democratica e liberale vera, alla sua storiografia (Renzo De Felice e seguaci) e all’iniziativa politica liberante di una destra che può non piacere ma ebbe in Craxi, in un socialista di prim’ordine, il capo e predecessore di Berlusconi. Oggi l’antifascismo non è un obbligo civico» 4.
Se siamo arrivati a questo orribile traguardo è anche per responsabilità di coloro che hanno assunto le cariche di vertice della Repubblica negli ultimi decenni: e segnatamente – duole dirlo – di coloro che provenivano dal centro-sinistra. È il 9 maggio 1996 quando Luciano Violante pronuncia il suo discorso di insediamento da presidente della Camera dei deputati:

Mi chiedo se l’Italia di oggi – e quindi noi tutti – non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri; non perché avessero ragione o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le parti, bensì perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà [applausi]. Questo sforzo, a distanza di mezzo secolo, aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro paese, a costruire la liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fondamentale fatto di vivere in questo paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e più sereno. Dopo, poi, all’interno di quel sistema comunemente condiviso, potranno esservi tutte le legittime distinzioni e contrapposizioni.

Al di là dei caveat incidentali di cui Violante cosparge il discorso, il senso è chiaro ed è esattamente il ribaltamento della prospettiva della Costituzione: che, come spiega Francesco Pallante in questo stesso volume, per i fascisti è un comando perentorio che esclude dalle stesse libertà costituzionali. Nell’Italia costituzionale e democratica non può esserci un «sistema comunemente condiviso» con i fascisti, che in quanto tali ne rimangono fuori e ne subiscono gli effetti: viceversa, la costruzione di questa «condivisione» non può che significare l’archiviazione della pregiudiziale antifascista, e dunque la fine dell’antifascismo che informa la Carta in ogni articolo.

Nel 2001 fu la volta del presidente della Repubblica. Parlando il 14 ottobre nei pressi di Bologna, Carlo Azeglio Ciampi disse: «Abbiamo sempre presente, nel nostro operare quotidiano, l’importanza del valore dell’unità d’Italia. Questa unità che sentiamo essenziale per noi, quell’unità che oggi, a mezzo secolo di distanza, dobbiamo pur dirlo, era il sentimento che animò molti dei giovani che allora fecero scelte diverse e che le fecero credendo di servire ugualmente l’onore della propria Patria». Parole straordinariamente infelici, il cui miglior commento si dovette ad Antonio Tabucchi:

Con l’eufemistica circonlocuzione «giovani che fecero scelte diverse», il presidente italiano non può che riferirsi ai nazi-fascisti di Salò, cioè a quelle persone che si schierarono militarmente con Mussolini e Hitler dopo la resa dell’Italia. […] Il punto è che Ciampi non si può permettere di dire ciò che vuole, perché dall’alto della sua carica, fornendo informazioni errate ai giovani e ai cittadini e in particolare a coloro che non hanno accesso allo studio della Storia, egli disorienta gravemente l’opinione pubblica italiana già fortemente disorientata. Che coloro che avevano scelto il nazi-fascismo fossero animati da un sentimento di unità d’Italia è una falsità storica grossolana. La repubblica di Salò, nata dopo l’8 settembre 1943 (data dell’armistizio chiesto dall’Italia agli Alleati) fu uno stato fantoccio creato dai nazisti nel nord d’Italia, più o meno nelle stesse zone che oggi sono in mano al partito separatista della Lega; e l’idea che questo staterello artificiale, roccaforte del nazi-fascismo, tendesse all’unità d’Italia corrisponde al dire che la repubblica di Vichy aspirava all’unità di Francia. Che poi i repubblichini, scherani e servi dei nazisti, autori di massacri, torturatori e aguzzini, con simboli di morte ben espliciti sull’uniforme, credessero di avere servito «l’onore della Patria», è una dichiarazione che involgarisce l’idea di patria e il concetto di onore. Ciampi si appella alla presunta buonafede, specificando che certi giovani fecero «scelte sbagliate», e lasciando intendere che queste scelte sono da assolversi perché furono fatte in buonafede. Con lo stesso ragionamento qualcuno potrebbe arrivare ad assolvere i terroristi di Bin Laden, che sono senz’altro animati dalla «buona fede», anzi da troppa buona fede. Lunedì 15 ottobre, quando a Parigi è arrivata la notizia del discorso di Ciampi, in un’aula della Sorbona, il giurista Antonio Cassese chiudeva il corso della cattedra Blaise Pascal con un dibattito sulla giustizia penale internazionale insieme a Robert Badinter, Philippe Kirsch, «padre» dello statuto della Corte penale internazionale, e il Presidente del tribunale internazionale dell’Aja Claude Jorda. Nell’intervallo dei lavori, chiacchierando nel cortile con i numerosi studenti presenti, ho letto loro le parole del presidente della Repubblica italiana. Mi hanno guardato con stupore. Uno di loro mi ha condotto davanti alla lapide della «Cour d’Honneur» dove sotto un lungo elenco di nomi c’è scritto: «Ai professori e agli studenti caduti per la Francia, 1939-1945». L’unità della Francia è lì, nei nomi delle persone di quella lapide, non in coloro che furono i loro assassini. Se il presidente Chirac venisse a raccontare a questi studenti che i collaborazionisti o i poliziotti di Vichy avevano comunque agito per l’onore della patria lo prenderebbero a fischi. In Italia non fischia nessuno. Il «blanchissage» di Salò è cominciato da tempo. Del suo iniziatore, il deputato ex comunista Violante, si dice avesse ambizioni di capo dello Stato e dunque dovesse conquistarsi le simpatie della destra in Parlamento 5.

Nel 2004 questo clima culturale-politico-istituzionale revisionista partorì il Giorno del ricordo, che ha lo scopo di «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». La legge istitutiva fu sottoscritta soprattutto da parlamentari di Alleanza Nazionale e di Forza Italia, primi firmatari Roberto Menia e Ignazio La Russa, due ex missini. La scelta del 10 febbraio non è innocente: il Giorno del ricordo si presenta esplicitamente come una risposta di parte fascista alla Giornata della memoria, che commemora le vittime della Shoà meno di due settimane prima, il 27 gennaio di ogni anno. Ancora una volta la parola chiave è: equiparazione. Che questo risultato sia stato raggiunto, lo conferma per esempio il messaggio che il presidente Sergio Mattarella ha inviato per il Giorno del ricordo di quest’anno 2020. Dopo aver scritto che «la dittatura del comunismo […] scatenò, in quelle regioni di confine, una persecuzione contro gli italiani, mascherata talvolta da rappresaglia per le angherie fasciste, ma che si risolse in vera e propria pulizia etnica, che colpì in modo feroce e generalizzato una popolazione inerme e incolpevole», il capo dello Stato prosegue così: «Si deve soprattutto alla lotta strenua degli esuli e dei loro discendenti se oggi, sia pure con lentezza e fatica, il triste capitolo delle foibe e dell’esodo è uscito dal cono d’ombra ed è entrato a far parte della storia nazionale, accettata e condivisa. Conquistando, doverosamente, la dignità della memoria. Esistono ancora piccole sacche di deprecabile negazionismo militante. Ma oggi il vero avversario da battere, più forte e più insidioso, è quello dell’indifferenza, del disinteresse, della noncuranza, che si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi».
È stato questa volta Angelo d’Orsi a spiegare allo stesso Mattarella (che nelle medesime ore riceveva il commosso ringraziamento di Giorgia Meloni) perché queste sue parole fossero gravi, e inaccettabili:

Le scrivo per esprimerle amarezza e sconcerto dopo il suo discorso del 10 febbraio, in cui non si è limitato a rendere onore a quelli che, nella narrazione corrente, ormai sono i «martiri delle foibe», ma ha usato ancora una espressione storicamente errata, politicamente pericolosa, moralmente inaccettabile: «Pulizia etnica». Ella, signor Presidente, è caduto nella trappola della equiparazione del grande, spaventoso crimine, il genocidio della Shoà, con gli avvenimenti al confine orientale, tra Italia e Jugoslavia, fra il 1941 e il 1948, grosso modo.

D’Orsi si concentra dunque sull’«uso scorretto del termine “negazionismo”»

che si riferisce, propriamente, alle ideologie che negano Auschwitz, ossia sostengono che mai è esistita una volontà sterminazionista e genocidaria nel nazismo. Da qualche tempo, ahimè, la destra estrema si è impadronita della parola e la va usando a proprio piacimento, e in particolare ne fa uno strabiliante abuso sulla «questione foibe», e applica l’etichetta, che ovviamente suona infamante, a chi semplicemente si impegna, scientificamente – tutti gli storici degni di questo nome –, nella ricerca della verità in merito alle «complesse vicende del confine orientale», come recita la legge del 2004, istitutiva del «Giorno del ricordo», non a caso voluto a ridosso di quello «della memoria» che dovrebbe invece rammemorarci, nel giorno dell’apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dell’Armata rossa. Ella, signor Presidente, non senza un palpabile disprezzo, ha parlato di «piccole sacche di deprecabile negazionismo militante», che si ostinerebbero a «negare»: che cosa? La «pulizia etnica» che viene identificata come la somma dei «crimini comunisti» in quelle terre. E lodevolmente, Lei, signor Presidente, invita allo studio della storia. Ma è precisamente ciò che i «negazionisti» nel distorto messaggio che Ella ha tenuto, cercano di fare, e vengono insultati, isolati, quasi cancellati. E mentre giornalisti senza etica e politici in caccia di voti snocciolano cifre fantastiche (1.000, 2.000, 10.000, 20.000, fino alle 30.000 annunciate da un tg nazionale ieri in apertura…), il paziente lavoro dei ricercatori propone un’altra versione, frutto dello scavo (compreso quello tremendo delle cavità del Carso chiamate «foibe»), dell’accumulo di documenti, delle prove testimoniali verificate. La storiografia ci dice tutt’altro dalla chiacchiera politico-mediatica: le vittime accertate, ad oggi, furono poco più di 800 (compresi i militari), parecchie delle quali giustiziate, essendosi macchiate di crimini, autentici quanto taciuti, verso le popolazioni locali: nessun generale italiano accusato di crimini di guerra è mai stato punito. […] Il Suo discorso, mi consenta, insomma, fa un grave torto alla conoscenza storica, che Ella, lodevolmente, incita a perseguire, e genera conflitti che Ella e la legge del 2004 vorrebbero chiudere 6.

Rimozione, equiparazione, revisionismo: ignoranza e manipolazione della storia al servizio di un unico fine, lo sdoganamento dei fascismi. È in questo contesto che va letto il terribile documento approvato dal parlamento europeo il 19 settembre 2019, che ironicamente ha per titolo «Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa», e che mette sullo stesso piano nazifascismo e comunismo. Un testo, ha scritto l’Anpi, che accomuna «in un’unica riprovazione oppressi ed oppressori, vittime e carnefici, invasori e liberatori, per di più ignorando lo spaventoso tributo di sangue pagato dai popoli dell’Unione Sovietica (più di 22 milioni di morti) e persino il simbolico evento della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata rossa. Davanti al crescente pericolo di nazifascismi, razzismi, nazionalismi, si sceglie una strada di lacerante divisione invece che di responsabile e rigorosa unità».
In conclusione, quando ci chiediamo come sia possibile che città come Pistoia o l’Aquila siano governate da sindaci di Fratelli d’Italia legati a CasaPound; come sia possibile che CasaPound stessa sia ammessa alle elezioni; che un professore esplicitamente nazista insegni Filosofia del diritto all’Università di Siena; che il comune di Firenze abbia celebrato come un padre della patria quel Franco Zeffirelli esplicitamente razzista e mai stanco di lodare le cose buone fatte da Mussolini; che si fatichi a trovare un giudice disposto a far applicare le leggi Scelba e Mancino; che la maggioranza dei commentatori si sia stracciata le vesti per la decisione di Facebook di chiudere la pagina di CasaPound – e l’elenco potrebbe essere lunghissimo – , quando si cerca una risposta a tutto questo, non si deve dimenticare che il rigetto dell’antifascismo e la riabilitazione del fascismo sono da addebitare in ottima parte ai vertici stessi della Repubblica, oltre che alla straordinaria efficacia dello scandalismo revisionista (si pensi ai vendutissimi falsi storici di un Giampaolo Pansa).
Dalla «bella teoria della continuità dello Stato, una continuità che vuol dire immobilità, o peggio ritorno indietro. Che vuol poi dire semplicemente poter restare sempre seduti sulla medesima seggiola» 7 che impedì di ripulire lo Stato dai gerarchi fascisti siamo passati alla bella teoria del «sistema di valori condiviso»: nel mezzo il tradimento di una sinistra che ha barattato l’indulgenza verso il proprio (remoto) passato comunista in cambio di un’apertura ai fascisti. E soprattutto l’eterna zona grigia di quella borghesia italiana gretta e ignorante che da sempre non solo legge, ma anche possiede, il Corriere della Sera. La stessa che oggi gongola all’idea degli affari resi possibili dal coronavirus, la stessa che ha sempre guardato con diffidenza la nostra Costituzione, ritenendola addirittura «sovietica» (così Berlusconi). Un establishment unito dalla viscerale condivisione di un valore fondante: l’anti-antifascismo.

NOTE
1 A. Grasso, «La storia, i libri di Pansa e il paese che lo celebra», Corriere della Sera, 20/1/2020.
2 P. Battista, «Buon Salone: di tutti i libri», Corriere della Sera, 5/5/2019, bit.ly/3bH9qK7.
3 L’articolo è apparso su MicroMega n. 1/2004 ed è disponibile al seguente link: bit.ly/3dNOmDz.
4 G. Ferrara, «All’armi siamo stufi», Il Foglio, 17/2/2018, bit.ly/2xHFKOl.
5 A. Tabucchi, «L’Italia alla deriva», l’Unità, 21/10/2001.
6 A. d’Orsi, «Monsieur le Président. Lettera a Sergio Mattarella», il manifesto, 11/2/2020, bit.ly/3bJmn61.
7 C. Levi, L’Orologio, Einaudi, Torino 1950.



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