Tornare impero. Il sogno di Xi Jinping e la vulnerabilità del soft power cinese

Intervista a Giorgio Cuscito, analista di Limes, studioso di geopolitica della Cina e dell'Indo-Pacifico, autore di "Xi Jinping. Come la Cina sogna di tornare impero".

Roberto Rosano

A colloquio con Giorgio Cuscito, consigliere redazionale, docente e analista di Limes, studioso di geopolitica della Cina e dell’Indo-Pacifico, e autore di Xi Jinping. Come la Cina sogna di tornare impero (Piemme, 2023).
Perché il marchio cinese non riesce ad avere un afflato universale?
Perché sono accadute una serie di accidentalità quasi tutte a sfavore della Cina. La competizione con gli Usa si è aggravata enormemente, il che ha posto in evidenza la natura assertiva della Repubblica Popolare. Una superpotenza deve sì avere appeal nei confronti del resto del mondo, ma deve anche possedere forze armate di prima qualità. Questo tentativo di progresso militare e tecnologico risulta però una minaccia allo status quo sia dalla prospettiva americana sia dalla prospettiva di tutti i Paesi che hanno beneficiato dell’ordine a guida americana.
Ma in estrema sintesi, che cosa dovrebbe dimostrare la Cina per accreditarsi “universalmente”?
Dovrebbe dimostrare di avere “buone intenzioni” e che la propria ascesa non rappresenta un rischio per il mondo, ma addirittura un progresso. Non è affatto facile.
Lo scoppio della guerra in Ucraina quanto ha inciso sui progetti di Xi Jinping?
La Cina si era associata in maniera ufficiale alla Russia poco prima dello scoppio della guerra: non si trattava di un’alleanza, ma certamente di un partenariato. Tant’è che tutti hanno pensato che anche la Cina potesse attaccare Taiwan, approfittando del momento. E qui entra in gioco il fattore Taiwan: la Cina dice di voler conseguire l’unificazione con Taiwan pacificamente, ma è difficile proporsi al mondo come Paese pacifico quando ti dichiari disposto anche all’uso della forza qualora ce ne fosse bisogno.
Ma la Cina ha un “mito operativo” abbastanza solido per giustificare l’uso della forza come fanno gli americani?
La differenza sta nel fatto che l’American Dream, sviluppato dagli Usa durante la guerra fredda e a seguire, è un’idea non tanto di democrazia quanto di libertà. È un progetto al quale tutti possono aderire perché sostanzialmente garantisce libertà e benessere individuale a tutti.
Il sogno cinese invece…
È un sogno dei cinesi.
Ma la Cina, secondo Lei, pensa almeno a un’ecumene levantina, panasiatica? È sorprendente come questo gigantesco Paese non riesca a costruire non solo un forte “mito operativo”, ma neanche un sistema di alleanze regionali…
Da una parte c’è un sogno per i cinesi che consiste nel riportare la Cina al centro del mondo, magari oggi in condominio con l’America, un domani chi lo sa. Dall’altro c’è il progetto di aprire al resto del mondo le opportunità derivanti dalla centralità cinese, che sono soprattutto di natura economica. La Cina si propone ai Paesi del Sud Est Asiatico, dell’Africa e del Medio Oriente come un modello di sviluppo. Questa narrazione esiste da prima delle Vie della Seta… Anche negli anni Settanta la Cina si proponeva come un Paese di pari livello rispetto ai Paesi africani…
Oggi molto meno di pari livello naturalmente… Ma l’idea era: “Potete seguire il nostro modello di sviluppo. Guardate come siamo cresciuti noi…”. Quanto rimane di tutto ciò?
Questo concetto rimane. Il tentativo di catturare il consenso dei Paesi in via di sviluppo o del Sud Globale, come amiamo dire oggi, c’è ancora. Però non sempre la presenza delle imprese e delle forze armate è ben voluta, anche in Paesi che sono partecipi delle Vie della Seta in maniera forte come il Pakistan. Quest’ultimo, ad esempio, manifesta diversi problemi di natura securitaria: non accettano la presenza cinese…
E che progetti hanno invece i cinesi nel Sud Est Asiatico?
I cinesi sognano che diventi il loro cortile di casa, scontano però la paura che questi Paesi nutrono nei confronti del loro progresso militare. Sanno quanto possono essere assertivi, soprattutto nei Mari Cinesi con le loro isole artificiali. Quindi che fanno? Si appoggiano all’ombrello di sicurezza americano. La Cina avrebbe degli elementi per catalizzare consenso, banalmente la filosofia confuciana, diffusa nel Sud Est Asiatico, a Taiwan, nello stesso Giappone, in Thailandia…
…ma anche il buddhismo, il taoismo…
Sono tutti elementi culturali molto forti e molto condivisi che però il governo cinese non utilizza tanto come strumento per catalizzare consenso…
Forse perché è ancora un Paese troppo comunista, che non si è ancora reso conto fino in fondo delle opportunità offerte dall’elemento religioso in politica?
L’elemento religioso, per i cinesi, deve comunque sottostare ai dettami del Partito e quindi è difficile trasformarlo in un vero strumento di proiezione fuori dai confini nazionali, ma aggiungo anche un dato di fatto che mostra tutta la vulnerabilità del soft power cinese: la distanza tra Cina e Taiwan è aumentata e non diminuita negli ultimi anni. Questo conferma la vulnerabilità del “sogno cinese” che, in fondo, potrebbe essere appetibile per i taiwanesi, che sono di etnia han (sebbene tale etnia sia, come tutte, un costrutto molto artificiale). I taiwanesi sono han, parlano cinese, scrivono cinese, hanno una storia in comune con i vicini del Continente. I cinesi avrebbero potuto far leva sul fatto che i giapponesi li hanno colonizzati (in maniera non sempre morbida) e mostrarsi come i “fratelli redentori” eppure…
Eppure i taiwanesi addirittura rilanciano il rapporto con il Giappone…
E non serbano rancori o brutti ricordi nei confronti del colonialismo nipponico… Il punto è che per catalizzare il consenso, non devi mostrarti solo come un modello, ma anche come qualcosa di accessibile, malleabile. Il sogno americano permette a chiunque, anche agli stranieri, almeno nella narrazione, di abbracciarlo…
Persino la Cina l’ha abbracciato: è diventato un Paese capitalista, consumista, demograficamente debole, sempre più individualista…
Ecco, esattamente. È questione di fruibilità. Oggi la Cina ha come priorità affermare sé stessa più che abbracciare gli altri. Il problema della Cina è che cerca di fare più cose contemporaneamente: stabilizzarsi all’interno, sviluppare un cortile di casa e proiettarsi fuori. Questi tre obiettivi prevedono cose che possono andare in contrasto l’una con l’altra perché sviluppare un cortile di casa può voler dire usare la forza, ma questo contrasta con il progetto di un soft power fruibile da tutti. È qui la frizione.
Ma la Cina sarebbe disposta a rinunciare alla forza nei confronti di Taiwan per migliorare la propria immagine all’estero oppure la riconquista di Taiwan è troppo importante dal punto di vista strategico?
La mia impressione è che la priorità resti la protezione di sé stessa e lo sviluppo di una linea di difesa che includa anche Taiwan. La Cina, molto probabilmente pensa che, solo dopo aver raggiunto questo traguardo, si potrà sviluppare un soft power di lungo periodo. I cinesi pensano di dover completare il processo di unità nazionale, ma contemporaneamente cercano di sviluppare un soft power perché comunque sia la sussistenza dell’economia cinese dipende ancora in gran parte dalle esportazioni, dall’assorbimento di conoscenza dall’estero. Quindi, paradossalmente hanno ancora bisogno della globalizzazione a guida americana però già si preparano a offrirsi come guida alternativa di questo sistema, probabilmente non da soli perché sanno che, in questo momento, non possono superare l’America. Sanno, però, che questo momento potrebbe arrivare.
E l’ultimo incontro Biden-Xi sembra dimostrare proprio questo. Che cosa pensa a riguardo?
Quando Xi ha detto “questo mondo è grande abbastanza per Usa e Cina” è stato interpretato correttamente come un segnale positivo…
Sì, non facciamoci del male, insomma… Ma c’è una seconda interpretazione possibile?
Sì, ricordiamo che, qualche anno fa, la Cina ha detto la stessa cosa riferendosi al Pacifico. Quindi, questo significa che il panorama cinese si è già esteso. E poi vuol dire anche: “Noi siamo sullo stesso livello”. Quando si parla della Cina, bisogna saper leggere tra le righe. Le dichiarazioni ufficiali possono sembrare molto banali però…
Quindi, per semplificare: i cinesi ammirano l’America, è quella la loro “asticella”, e ambiscono non solo a raggiungerla, ma anche a superarla, ma sanno che non possono (ancora!). Ma vediamo quali sarebbero le carte per conquistare il primato: dominio dei mari, tecnologia, moneta.
Su tutti e tre i fronti la Cina è ancora indietro, ma meno di quanto lo fosse cinque anni fa perché dal punto di vista navale ha sviluppato una seconda e una terza portaerei (sebbene la terza non sia ancora in funzione). Ma l’America ne ha undici! In termini di unità navali, invece, la Cina ha superato l’America.
Ma non basta?
Eh no.
Perché?
Perché bisogna guardare innanzitutto la tecnologia dei propri dispositivi e quella statunitense è ancora avanti sebbene la Cina stia facendo dei grossi progressi soprattutto per quel che riguarda i sommergibili.
E poi c’è l’esperienza…
La Cina sembra averne ancora poca. L’ultima guerra che ha combattuto è stata negli anni Settanta, per il Vietnam, e da lì in poi ha cercato di maturare esperienza tramite attività di peacekeeping Onu in giro per il mondo e tramite l’invio di contractor in maniera via via più forte in giro per il Medio Oriente, l’Africa. Ciò naturalmente non basta perché gli Usa…
…hanno sempre gli stivali sul campo…
La Cina per esempio non ha mai condotto operazioni di sbarco navale che poi oggi sarebbero multidominio, cioè per mare, aria, satelliti. Quindi un’invasione di Taiwan sarebbe estremamente complessa e la Cina non ha in questo momento abbastanza esperienza. Peraltro ha solo una base navale all’estero, che è quella di Gibuti, mentre l’America ne ha a bizzeffe, anche sul nostro territorio.
E del piano di sviluppo cambogiano invece cosa si sa?
In Cambogia c’è un piano di sviluppo di una infrastruttura nella base di Ream, che era americana tra l’altro. Quindi è vero che la Cina fa fatica, ma cerca di inserirsi nei luoghi in cui il sogno americano comincia a scricchiolare. L’America, dal suo canto, sta faticando molto a proteggere il proprio status quo.
Ma al di là della tecnologia ad uso militare, la Cina a che punto è?
Nel campo tecnologico la produzione dello smartphone Huawei P60pro ha dimostrato che, in realtà, la Cina è indietro di soli quattro anni, mentre si pensava lo fosse di una decina. Questo perché la Cina sta cercando delle soluzioni per progredire nel campo dei semiconduttori o per aggirare il sistema delle sanzioni. Interessante è il rapporto con la Corea del Sud, che comunque fa parte dello schema americano, ma non rinuncia ai rapporti con la Cina.
Veniamo ora alla moneta: lo yuán, la “moneta tonda, la moneta del Popolo”, come si destreggia a livello internazionale in questo momento?
Una moneta è forte quando il Paese che la detiene è forte. Il dollaro è forte perché è la moneta della prima potenza al mondo, non il contrario. Per internazionalizzare la propria moneta la Cina dovrebbe guadagnare un’immagine più stabile, più affidabile all’estero e poi dovrebbero esserci altre condizioni economiche interne, al momento ancora carenti. Internazionalizzazione significa anche esporsi alle oscillazioni del mercato in maniera molto più forte: la Cina negli anni passati, durante la crisi negli Usa ha resistito perché il suo mercato era semichiuso. Oggi, una piena internazionalizzazione della moneta potrebbe esporre la Repubblica Popolare all’oscillazione dei mercati stranieri, a problemi con le esportazioni, a torsioni di qualunque tipo. Però, strategicamente parlando, le Vie della Seta erano state pensate, nelle fucine strategiche cinesi, come un volano per la diffusione dello yuán…
Che limiti ha l’alleanza senza limiti con la Russia sbandierata da Xi e in cosa è diversa dalla nostra con l’America?
A legare noi e l’America non è certo un rapporto paritario, ma un obbligo di sicurezza più o meno reciproco. Nel caso di Cina e Russia non possiamo parlare di una vera alleanza perché non c’è un obbligo di difesa reciproca (la Cina non sta intervenendo a difesa della Russia o contro l’Ucraina, anche se l’avrà forse aiutata a livello satellitare o nello spostamento di equipaggiamento militare), come la Russia molto probabilmente non interverrebbe in difesa della Cina qualora quest’ultima invadesse Taiwan. Però, in quel caso, probabilmente Usa e Giappone interverrebbero in difesa di Taiwan contro la Cina. Quindi Cina e Russia sono Paesi che storicamente non si fidano l’uno dell’altro, sono state protagonisti di una guerra (tra XIX e XX secolo, la Russia ha tolto territori alla Cina), sono due potenze nucleari con un confine comune, quindi non c’è mai stata e non potrà mai esserci una vera alleanza però…
…il nemico del mio nemico è mio amico…
Fino a che punto possa arrivare questa “comunione” non è chiaro, ma non ci sono segnali incoraggianti provenienti dall’Ucraina o dall’estremo Oriente. La Cina in più occasioni ha segnalato di non essere contenta dell’iniziativa russa in Ucraina, Paese col quale intratteneva buoni rapporti sotto il profilo agroalimentare e militare. L’Ucraina era uno dei principali fornitori di armi della Cina fino a poco fa: la prima portaerei cinese viene dall’Ucraina, ad esempio.
Volendo cercare altri partner affidabili…
Faremmo molta fatica. Cambogia e Laos potrebbero essere considerati Paesi “affini”, ma non così la Corea del Nord. Quest’ultima e la Cina hanno intrapreso, nel corso degli anni, percorsi molto diversi, dal punto di vista sia economico sia politico. Non sono più partner stretti, però una cosa è rimasta intatta: il bisogno cinese di preservarla. Perché se la Corea del Nord collassasse, quella del Sud si espanderebbe fino ai confini cinesi, il che vorrebbe dire per la Cina confinare con ventimila soldati americani e anche probabilmente con l’arsenale atomico nordcoreano (in costruzione) passato fondamentalmente nelle mani degli Usa.
Cina e Corea del Nord non sono “alleate”, però la Cina è già intervenuta per i nordcoreani contro gli americani.
Sì e ha ricacciato gli americani verso Seul. È stata una delle più grandi vittorie strategiche di Pechino, sebbene per colpa di questa abbia rinunciato a Taiwan. Perché, all’epoca, Mao stava organizzando l’invasione di Taiwan, ma con lo scoppio della guerra di Corea e con l’avanzata degli americani, sospese il piano: questo è un argomento molto importante per il futuro. Tendiamo a concentrarci su Taiwan, ma la storia della penisola coreana e quella di Taiwan sono collegate e potrebbero esserlo anche in futuro. La Corea del Nord non è stata normalizzata, checché se ne dica, e potrebbe diventare un altro motivo di scontro.



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