Tra desiderio e limite. Dieci storie di procreazione assistita

Le voci di dieci donne raccolte in un libro edito da Fandango giungono finalmente a spezzare il pressoché totale silenzio che circonda i percorsi di fecondazione assistita nel nostro Paese.

Ingrid Colanicchia

Desiderio e limite: sono i due termini che definiscono lo spazio entro cui ci si muove durante un percorso di procreazione medicalmente assistita (pma). Due termini che si parlano incessantemente, in un processo di negoziazione continua che determina i confini che ogni coppia, con la propria storia, si dà. “Limiti” del proprio corpo, certo, che ci si aspettava fosse in grado di generare e invece si scopre non esserlo, ma anche limiti che ci si domanda senza sosta dove fissare per timore di perdere la testa, la lucidità, per timore di soccombere, schiacciati dal proprio desiderio incompiuto: quanti tentativi fare? Uno? Due? Tre? Limitarsi all’omologa o in caso di insuccesso prendere in considerazione anche l’eterologa[1]? E in caso farla completa per aumentare al massimo le possibilità oppure parziale in modo che abbia il corredo genetico di almeno uno dei due? Ed è eticamente corretto comprare da un’altra donna e un altro uomo quegli ovuli e quel seme necessari alla realizzazione del proprio desiderio? E quali parole usare per dire a quei figli tanto voluti quali limiti ci si è concessi di superare?

Non è un caso, quindi, che il libro di Maddalena Vianello In fondo al desiderio. Dieci storie di procreazione assistita (da poco dato alle stampe da Fandango) non solo sia ripetutamente scandito da queste due parole – desiderio e limite – ma si intitoli proprio così, In fondo al desiderio. Perché un percorso di pma pone domande continue, per rispondere alle quali non si può che interrogare il proprio desiderio, metterlo in discussione, cercare (come se fosse possibile, e giusto) di bonificarlo da sovrastrutture, da pressioni sociali e familiari, da paure, per provare a vedere se è veramente “puro” e dunque meritevole di superare il “limite”. Perché un percorso di pma porta proprio lì, in fondo al desiderio.

Lo raccontano tutte e dieci le storie raccolte da Vianello e a lei consegnate con grande generosità e onestà da altrettante donne che, partendo da situazioni diverse e approdando a presenti altrettanto diversi, quel percorso lo hanno fatto.

Vianello, come vuole la tradizione femminista in cui si iscrive, non può che partire da sé, dalla propria storia, d’altronde, come annuncia sin da principio, sono state le sue reazioni di fronte alla diagnosi di sterilità e lungo il percorso della pma a porre il seme di questo libro. Perché quando tutto è finito, ed è nato Adriano, ha avuto «il desiderio di trasformare quella esperienza in un gesto vitale», per sé e per le altre.

Non solo vitale, ma prezioso e necessario, perché questo libro interviene a spezzare il pressoché totale silenzio che circonda i percorsi di fecondazione assistita nel nostro Paese. Un silenzio che, come dice Barbara (una delle nove donne che a Vianello hanno affidato la propria storia), è «veleno». Ed è veleno non solo perché, come abbiamo scritto di recente, contribuisce a rendere sfocati i contorni della questione, ma perché fa sentire sole e soli chi in quei percorsi è immerso.

E invece, come scrive Vianello, «è bastato cominciare a raccontare la mia storia per scoprire di non essere sola nella stanza».

In quella “stanza” c’è Angela, che ammette senza giri di parole di aver provato gelosia per le amiche che restavano incinte mentre il suo di corpo non faceva ciò che lei avrebbe desiderato: «Non ne vado fiera, ma ho dovuto farci i conti. Tenevo tutta una mia contabilità dei meriti e dei demeriti, di quali donne dovessero avere un bambino e quali no. E molte, moltissime non superavano il test. Non reggevano il confronto, io lo meritavo di più, sempre».

C’è Tina, che dopo due tentativi di pma e l’inizio di un procedimento di adozione arriva a capire di non volerlo più un figlio. E seguendo il consiglio del suo analista si spinge verso l’arte: «Un’altra possibilità di generare. Una ricerca continua al servizio della creazione».

C’è Marilena, che assieme alla compagna sceglie la Spagna per quell’opportunità che il suo Paese ha deciso di non darle: perché, come ricorda nell’introduzione Barbara Leda Kenny, di tutti i limiti della versione iniziale della Legge 40 che regolamenta le tecnologie di fecondazione assistita – divieto di diagnosi pre-impianto, divieto di crioconservazione, impianto unico e contemporaneo di massimo tre embrioni, divieto di eterologa, accesso al percorso limitato alle coppie eterosessuali – è solo quest’ultimo a essere rimasto in piedi.

Con loro ci sono Katharina, Sara, M., Paola, Lorenza e tutte le migliaia di coppie che ogni anno tentano di avere un figlio con la procreazione assistita. Diecimila bambini vedono la luce così ogni anno, ma la probabilità di ottenere una gravidanza per ciclo di trattamento è inversamente proporzionale all’età: i dati relativi al 2018, ci dicono che su cento cicli a fresco (Fivet/Icsi[2]) iniziati in pazienti con meno di 34 anni, sono state ottenute circa 22 gravidanze, mentre su cento cicli iniziati in pazienti con età maggiore di 43 anni, ne sono state ottenute circa cinque.

Questo libro non è un’ode alla maternità, Vianello lo chiarisce sin da subito. «La scelta della maternità non ha nulla, ma proprio nulla di nobile rispetto alla decisione di non riprodursi. E viceversa. Le une non sono vittime del patriarcato incapaci di ribellarsi di fronte al destino biologico, le altre non sono bambine mai cresciute, inermi di fronte al proprio egoismo».

È invece l’avvio di una riflessione condivisa che, come scrive Kenny, ci «aiuta a capire meglio di cosa abbiamo bisogno, a mettere a fuoco come dovrebbe essere un servizio pubblico che ci permette di realizzare il desiderio di maternità. Questo percorso le donne l’hanno fatto per l’educazione di genere, per l’interruzione di gravidanza, per l’accompagnamento al parto e per il parto». È giunta l’ora di farlo anche per la fecondazione assistita.

 

[1] Fecondazione in cui l’ovulo o lo sperma o l’embrione sono di soggetti terzi rispetti alla coppia.

[2] Si tratta di due tecniche di fecondazione assistita. La Fivet è la fecondazione in vitro con trasferimento di embrioni in utero; la Icsi è la fecondazione in vitro tramite iniezione di spermatozoo in citoplasma.



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