Trattativa Stato-mafia, dopo la sentenza: “… e giustizia per tutti”

Lo Stato è incolpevole. Questa la sentenza della Corte d’Appello nella “trattativa Stato-mafia”. Ma come si è arrivati a questa decisione? E, da oggi, lo Stato è da considerarsi “innocente”?

Giuseppe Panissidi

Assolto. Nella cosiddetta “trattativa Stato-mafia” lo Stato è incolpevole. Parola della Corte d’Appello di Palermo. Che, da un lato, bacchetta lo Stato, definendo “improvvida” la condotta dei suoi uomini implicati nel pasticciaccio, dall’altro ne decreta l’incolpevolezza in virtù di ragioni logico-giuridiche concernenti il dolo, ovvero l’assenza del dolo, quale indefettibile elemento psicologico-soggettivo del reato.

Riassumendo concisamente.

Se la finalità ultima degli imputati era la cessazione delle stragi, ne consegue che non poteva sussistere alcuna intenzione di minacciare un corpo politico dello Stato, alla stregua dell’imputazione originaria, di fatto favorendo la mafia, ossia contribuendo a farle raggiungere i suoi obiettivi.

È del tutto evidente, allora, che l’asse argomentativo deve spostarsi sul dolo, in costanza dell’asserita buona fede e giustezza, anzi nobiltà, dell’intenzione. Ora, parrebbe vagamente semplicistico e retorico richiamare un romanzo di science fiction della metà del ‘900, “Il lastrico dell’inferno”, di Damon Knight, in tema di buone intenzioni… infernali. Sembra, invece, assai più opportuno e cogente, esaminare la nozione giuridica di dolo, posta a sostegno della sentenza liberatoria, come concettualizzata negli ambiti del diritto, della dottrina e della giurisprudenza.

Il dolo, criterio di imputazione soggettiva in ordine alle fattispecie di reato, si configura quando il responsabile del fatto criminoso agisce con coscienza e volontà, ovvero si rappresenta e realizza l’evento voluto.  Questa la condizione necessaria, ma non sufficiente, poiché la coscienza e la volontà, proprie del dolo, debbono ricadere su ogni elemento costituente il fatto tipico, a norma dell’art. 42 del codice penale. Il successivo art. 43, infatti, stabilisce che, ai fini della sussistenza del dolo, sono richieste non solo la coscienza e la volontà della condotta, ma altresì la previsione e volontà dell’evento.

Per tali ragioni, il dolo è più grave della colpa, giuridicamente intesa, poiché agire per dolo significa, sostanzialmente, commettere un fatto-reato in modo consapevole. La colpa, invece, presuppone esattamente il contrario, in quanto che chi agisce per colpa non lo fa con intenzione, e il reato si concretizza a causa di un comportamento imprudente o negligente.

Se non che, questo il punto dirimente, la concezione giuridica del dolo introduce una precisa e pacifica distinzione tra dolo diretto e dolo indiretto.

Il primo, definito anche intenzionale o di primo grado, si configura, per l’appunto, quando la condotta del soggetto sia finalizzata a realizzare esattamente l’evento, se il reato è di evento, o a porre in essere la condotta criminosa descritta dalla norma, nei reati di condotta.

Nell’ipotesi di dolo indiretto, invece – punctum dolens del caso che occupa – il responsabile attua una condotta finalizzata a un altro scopo, e però, nell’agire, si trova di fronte alla possibilità di conseguenze differenti rispetto allo scopo e accetta il rischio di causarle. Basti pensare al dolo eventuale o di previsione, che si ha quando l’agente accetta probabilità elevate che si produca un fatto di reato, indipendentemente dalla circostanza che lo volesse e se lo rappresentasse come tale.

Ancora. Nel diritto penale, si distinguono anche il dolo concomitante, che guida tutto il processo esecutivo del delitto, e il dolo susseguente, che, sorgendo dopo l’azione positiva, dunque non intenzionalmente diretta a cagionare l’evento, consiste in un consapevole, volontario rifiuto di impedire l’evento stesso, a fortiori in costanza di un obbligo giuridico a impedirlo, a norma dell’art. 40 c. p., o anche della mera possibilità.

Non è difficile intendere come la concezione giuridica del dolo non sia monolitica e astratta, bensì articolata al suo interno e per nulla univoca.

Ebbene, secondo il letterale tenore della parte motiva della sentenza di assoluzione qui in commento, delle due, l’una.

Se la condotta degli imputati è stata “improvvida”, benché contro l’intenzione, e anzi dettata dalla più nobile intenzione, ma tuttavia imprudente o negligente, ne consegue che sussiste, quanto meno, la colpa, penalmente rilevante a mente del citato art. 43 c. p. Se, poi, a tal fine, si fosse resa necessaria la riqualificazione giuridica del fatto, la Corte aveva il potere di provvedere, alla sola e indubbia condizione preclusiva di non mutare il fatto, bensì limitandosi a decidere un nuovo “nomen iuris”, un diverso titolo del delitto.

Se, invece, gli imputati, di fronte alla possibilità di conseguenze differenti rispetto allo scopo del proprio agire, hanno accettato il rischio di causarle, allora sussiste il dolo indiretto, che presuppone come sufficienti, ai fini della responsabilità, l’evidenza della sola possibilità di conseguenze differenti e della sola accettazione del rischio.

Purtuttavia, tali considerazioni sul dolo non esauriscono il tema.

Nell’iter argomentativo, la sentenza pone nella giusta evidenza il fatto determinante che la minaccia allo Stato si è fermata “all’ultimo miglio”, vale a dire che non ha raggiunto i destinatari. Non si comprende, allora, per quale misteriosa ragione la motivazione si limiti a focalizzare sulla mancanza dell’elemento soggettivo del dolo. Se, infatti, i destinatari istituzionali non hanno percepito la minaccia, restando liberi nelle proprie determinazioni, quand’anche siffatta minaccia abbia compiuto un certo percorso, essa è nondimeno rimasta allo stato di tentativo, come tale carente di oggettiva e concreta effettualità conclusiva.

Il delitto di minaccia, infatti, presuppone la produzione di un effetto intimidatorio sul soggetto passivo. Qualora il soggetto, per qualsiasi ragione, non ne venga a conoscenza, tale turbamento non può verificarsi, evidentemente. E tuttavia permane il tentativo, che cade sotto la norma incriminatrice dell’art. 56 c. p., poiché sono stati comunque compiuti “atti idonei”, così la legge penale, a provocare l’evento.

Può giovare una breve esemplificazione. Se un soggetto invia una lettera minatoria a taluno, ma la missiva viene intercettata o si smarrisce e, pertanto, non giunge mai a conoscenza del destinatario, la libertà morale della vittima non viene ferita, palesemente, ma il mittente, se individuato, non viene assolto perché il fatto non costituisce reato, ma viene incriminato in ordine al tentativo. Se, poi, il tentativo risultasse perpetrato, vedi caso, nello spirito di una nobile intenzione morale o sociale, il responsabile non potrebbe comunque venire assolto dal delitto di tentata minaccia, previa derubricazione dell’eventuale imputazione originaria di minaccia, bensì subirebbe una condanna a una pena inferiore, in virtù della concessione delle attenuanti previste dall’art. 62 c. p.

Come sempre, qualche domanda sorge spontanea.

La prima. La Corte ha provveduto a derubricare il delitto di cui trattasi come tentativo, in quanto azione non pienamente realizzata e conclusa? In caso negativo, per quali ragioni, data l’”illogicità manifesta”, così schematizzata in dottrina, rispetto all’assunto palesato dalla stessa Corte relativamente alla mancanza dell’”ultimo miglio”? È infatti, di tutta evidenza che, ove mai non si trattasse di minaccia solo tentata, bensì compiutamente realizzata, se ossia la minaccia avesse raggiunto i destinatari istituzionali, apparirebbe logicamente insostenibile la tesi della mancanza dell’ultimo miglio. E però, tale eventualità logicamente significherebbe e attesterebbe il contrario dell’assunto della Corte.

La seconda. Se si assume che gli imputati abbiano agito “per motivi di particolare valore morale o sociale”, essi avrebbero di certo diritto alle circostanze attenuanti previste dal citato art. 62 c. p. Che, però, è ontologicamente altro dall’applicazione della scriminante, causa oggettiva di esclusione della configurabilità di un reato e quindi della sua punibilità, come tale tassativamente esclusa dalla legge penale in ipotesi di condotte ispirate ai nobili motivi di cui sopra.

Infatti, alla luce della dottrina e del magistero giurisprudenziale, la circostanza attenuante del motivo di particolare valore sociale si caratterizza sia per l’intenzione dell’agente rivolta ad eliminare situazioni di fatto ritenute immorali e antisociali, sia quando il movente risulti conforme alla morale ed ai costumi del luogo e del tempo del reato commesso. In altre parole, si tratta di un elemento accidentale, che esige che l’agente sia spinto da motivi di spiccato valore etico e sociale, condivisi dalla coscienza pubblica e, quindi, meritevoli di un particolare apprezzamento e riconosciuti preminenti dalla coscienza della collettività, e intorno ai quali vi sia un generale consenso.  Insomma, il responsabile deve avere commesso il reato per realizzare uno scopo altamente nobile e altruistico.

Nondimeno, si deve ancora ribadire che, in casi siffatti, si versa incontrovertibilmente in tema di cause attenuanti, non già scriminanti, ovvero di riduzione della pena, non di assoluzione.

Certamente, non solo per Hans Kelsen, il giudice/interprete ha un’ampia discrezionalità nella ricerca di ulteriori significati della norma. Purtuttavia, la norma resta imperativa e inaggirabile, cosicché l’idea/principio del libero convincimento o prudente apprezzamento nella valutazione probatoria in capo all’organo giudicante, coniugato con il vincolo del ragionevole dubbio, cardini della giurisdizione largamente riconosciuti di rilevanza costituzionale, persegue lo scopo essenziale di stringere il giudice e la norma in una relazione inscindibile, perché il convincimento è libero non in quanto creativo, ma, al contrario, in quanto logico, razionale e conforme alla legge e al fatto. Questa la via maestra nella produzione del diritto, anche con il contributo del giudice.

Ne discende che il vigente sistema di giustizia penale, mentre esige che si realizzi l’autonomia della valutazione probatoria, nel contempo impone che essa non sia mai disgiunta dalla concretezza e dalla logicità, quali precondizioni di accertamento della verità delle ipotesi fattuali prospettate nel giudizio, in specie di quella accusatoria, ai fini della giustezza della decisione finale.

Quod demonstrandum.  



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