Trent’anni senza Paolo Borsellino

In vita accusato di carrierismo, solo dopo morto gli venne tributato l’onore che meritava.

Gian Carlo Caselli

Ripercorrere la storia di Paolo Borsellino è un esercizio da farsi sempre, non solo nel trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio nella quale – insieme al magistrato – furono trucidati dalla mafia Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi
Qui vorrei ricordare l’editoriale di Leonardo Sciascia pubblicato dal Corriere della sera il 10 gennaio 1987, intitolato dalla redazione “I professionisti dell’antimafia”. Nel 1986 Borsellino (conclusa l’inchiesta del maxiprocesso) fa domanda per essere nominato capo della procura della Repubblica di Marsala. Il suo concorrente (Alcamo) è un magistrato molto più anziano ma pressoché digiuno di mafia. Il Csm si spacca. C’è chi sostiene che deve applicarsi il criterio dell’anzianità di servizio, all’epoca prevalente in caso di assegnazione degli incarichi direttivi. Ma c’è chi obietta che l’anzianità vale solo per gli incarichi ordinari, mentre per gli incarichi in zona di mafia (come Marsala) c’era una direttiva specifica del Csm (15 maggio 1986), in base alla quale si doveva tenere in debito conto il criterio della professionalità antimafia. L’età o la competenza? Il Csm si divide, prevale il secondo criterio e Borsellino viene nominato (anche col mio voto) a maggioranza.
Nella vicenda irrompe a piedi giunti Leonardo Sciascia con l’editoriale sui “professionisti dell’antimafia” che in sostanza, se pure in maniera indiretta, accusa Borsellino di essere un carrierista, uno che in nome dell’antimafia dà gomitate e calci per scavalcare colleghi più anziani e meritevoli, che non hanno avuto la “fortuna” di occuparsi di mafia. Tesi assurda e falsa. Borsellino ne soffrì molto, anche se lo stesso Sciascia, qualche anno dopo, incontrandolo, ammetterà di essere stato male informato. Del resto, che uno zelante e spregiudicato informatore gli avesse messo una pulce nell’orecchio, risulta chiaro dal fatto che Sciascia cita, nel suo articolo, un “bollettino” del Csm non certo acquistabile in edicola, che perciò qualcuno doveva avergli “rifilato”.
Il danno provocato fu comunque enorme. Il siluro di Sciascia affonderà un bersaglio grosso che non era nel suo mirino, Giovanni Falcone. Nel 1987 Nino Caponnetto, conseguito lo straordinario risultato del maxiprocesso, lascia Palermo convinto (come tutti) che il testimone di capo dell’ufficio istruzione passerà a Falcone. Ma non va così, e l’articolo di Sciascia – strumentalizzato in modo spregevole – ebbe un peso decisivo nella umiliante “bocciatura” del campione dell’antimafia.
Mi sono spesso chiesto come abbia fatto Sciascia a prendere un tale abbaglio, ignorando o bypassando dati di fatto assolutamente incontrovertibili e decisivi. Uno per tutti: nell’estate del 1985, subito dopo l’uccisione dei poliziotti Beppe Montana, Ninni Cassarà e Roberto Antiochia, Borsellino e Falcone (con le rispettive famiglie) furono letteralmente “deportati” sull’isola dell’Asinara e rinchiusi in un supercarcere che era stato usato per i terroristi. Ciò perché i due magistrati potessero scrivere l’ordinanza-sentenza che concludeva l’istruttoria del maxiprocesso in sicurezza. Il fatto era noto (compresa la “burocratica” e surreale richiesta di rimborso delle spese di soggiorno…) ed è inconciliabile con ogni prospettazione di un Borsellino biecamente carrierista.
Una risposta possibile è che anche un genio indiscusso del pensiero e della letteratura come Sciascia (del quale io personalmente ho letto e apprezzato quasi tutto) può a volte sbagliare. Purtroppo a farne le spese furono due ineccepibili servitori dello Stato, tutt’altro che “carrieristi”, che dopo morti (e solo dopo morti) ricevono il riconoscimento che in vita fu loro negato. Persino da un intellettuale raffinato come Leonardo Sciascia.

credit foto WikiMedia



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