L’Unione europea tra idealità e Realpolitik: il caso dei curdi

Con la guerra in Ucraina e la crisi energetica, la Turchia è tornata al centro delle relazioni internazionali. Con buona pace della democrazia.

Teresa Simeone

È indiscutibile che i piani su cui si muove la società civile, con le sue discussioni ideali, e la politica, con il pragmatismo che la caratterizza, siano di natura intrinsecamente diversa.
Fino a qualche tempo fa, la Turchia era un paese “attenzionato”, in cui il fallito colpo di Stato del 2016 aveva scatenato una violenta repressione, con conseguente compressione dei diritti umani e irrimediabile indebolimento della tenuta democratica. Dopo quell’evento la politica del governo si era inasprita, con una persecuzione durissima degli avversari, arresti di migliaia di persone tra militari, giornalisti, professori, giudici, avvocati e una svolta ancor più autoritaria nel tacitare qualsiasi forma di opposizione, anche quella che non c’entrava niente con il golpe.
Solo qualche anno fa era considerato un Paese che con difficoltà sarebbe potuto entrare nella UE, i cui valori fondanti escludono pene come la condanna a morte tanto che, in occasione del processo di adesione all’Unione, era stata abolita, salvo evocarne in seguito più volte il ripristino, com’è accaduto da parte del presidente Erdoğan dopo il 2016 e persino nel 2020.
Solo qualche anno fa si inneggiava al valore delle donne e degli uomini curdi che avevano aiutato l’occidente a contrastare l’ISIS. Solo qualche anno fa. Oggi tutto è cambiato: Erdoğan è uno statista affidabile, il cui ruolo è non solo riconosciuto ma fortemente sostenuto nel nuovo contesto determinato dalla guerra in Ucraina, i curdi sono pressoché dimenticati e il dissenso è stato derubricato a effetto collaterale di una politica governativa che cerca di garantire stabilità al Paese. E allora, la necessità di consentire alla Svezia e alla Finlandia di entrare, come da loro richiesto, nella NATO (per il cui ingresso c’è bisogno del consenso di tutti i paesi dell’alleanza), ha improvvisamente azzerato riflessioni, sciolto dubbi, raffreddato passioni civili, disatteso promesse, annullato impegni.
In nome dei valori occidentali, si è accettato di mettere in discussione i valori occidentali.
La situazione dei curdi è certamente singolare: rappresentano una realtà forte, democratica, aperta a questioni come l’uguaglianza di genere e l’ecologia, capace di accogliere e proteggere minoranze cristiane e yazidi, nonché di contrastare lo Stato islamico. Il memorandum firmato tra Turchia, Svezia e Finlandia, perciò, nel consentire ai due Paesi nordici di superare il veto turco, sancisce il trionfo internazionale di un presidente non proprio democratico, che dietro la giustificazione della lotta al terrorismo, vede riconosciuto formalmente il diritto di procedere contro un popolo che ha difeso i valori della libertà e della ragione contro il tentativo di costruire un califfato islamico. Gli accordi, infatti, prevedono la “cooperazione nella lotta contro il terrorismo”, che per la Turchia significa poter perseguire il movimento politico-militare curdo del PKK; il pieno sostegno di Finlandia e Svezia alla Turchia “contro le minacce alla sua sicurezza nazionale” con relative richieste di espulsioni ed estradizioni di sospetti terroristi; la fine degli embarghi nazionali sulle armi alla Turchia.
È un popolo, quello curdo, che cerca di costruire un proprio Stato, contrastato da Ankara che combatte non solo il PKK ma tutte le altre milizie e altre forze autonomiste curde, come l’YPG ad esempio, che non sono viste come organizzazioni terroristiche. La politica del governo turco nei confronti dei diritti umani, degli attivisti politici, dei curdi, dei giornalisti, delle donne – Erdoğan nel 2021, per compiacere i partiti conservatori, ha ritirato la Turchia dalla Convenzione di Istanbul, accordo internazionale entrato in vigore nel 2014 per combattere la violenza sulle donne, lo stupro coniugale e le mutilazioni genitali femminili – non può non apparire quello che in realtà è, una posizione chiusa e reazionaria, non certo degna di un Paese del terzo millennio.
La Realpolitik è necessaria, si dice, per cui chi ieri era un autocrate, oggi, con la guerra in atto in Ucraina e quella possibile che potrebbe delinearsi, alleanze da firmare per contrastarne altre in Oriente, problemi di crisi alimentare mondiale e approvvigionamento energetico da assicurare, vede sfumare la propria pericolosità agli occhi dei Paesi occidentali.
I dibattiti su democrazie e autocrazie possono essere rimandati. E, tuttavia, se si rinnegano o si disconoscono quei diritti che si pretende di voler salvare, come si può esser credibili nel sostenerli quando a violarli sono altri? Soprattutto, come si può tacere?
È vero che nella famosa conferenza stampa in cui il nostro premier, nel rimarcare la mancanza di galanteria con cui era stata negata la poltrona a Ursula von der Leyen, definì il presidente turco un dittatore, aggiunse poi che, per gli interessi del nostro Paese, si dovesse trovare un equilibrio e cooperare, ma il giudizio sulla scarsa natura democratica di Erdoğan rimaneva. In ogni caso, la Turchia, membro ONU, NATO e componente del G20, sempre più interessata a riattivare la propria presenza a livello internazionale, è uno dei partner commerciali più importanti del nostro Paese che, per tale motivo, è stato sempre più morbido rispetto ad altri nei suoi confronti. Per non parlare delle sue capacità gestionali nell’affaire migranti, dei cui spostamenti controlla le rotte.
E, infatti, il dialogo tra Turchia e Italia non si è mai interrotto così come il tentativo di cooperazione bilaterale che si è concretizzato in questi giorni ad Ankara con una serie di accordi che riguardano azioni di sostegno alle piccole e medie imprese, il riconoscimento delle reciproche patenti di guida, la collaborazione in campo scientifico e tecnologico, l’implementazione di programmi di formazione per i funzionari dei rispettivi Ministeri degli Esteri, il rafforzamento della cooperazione in materia di protezione civile, ambiente e sviluppo sostenibile.
È ovvio che le relazioni con la Turchia siano fondamentali in un periodo di crisi energetica scatenata dalla guerra che, senza la mediazione di Ankara, avrebbe per il nostro Paese costi molto alti. La tensione ideale non può, ingenuamente, misconoscere il peso politico di certe scelte strategiche per il futuro. Ma se, di fronte ai diritti, hanno sempre importanza soltanto gli interessi materiali, allora tutto si fa evanescente, qualsiasi lotta risulta impari, ogni principio inutile.
E anche il sacrificio di un popolo, come quello curdo, o il disconoscimento di valori, quale quelli di cui si è fatta portatrice l’Unione Europea sin dalla sua costituzione, diventa, nell’agenda occidentale, non solo possibile ma addirittura necessario. Se lo è, tuttavia, nel silenzio pragmatico della politica, che almeno non scompaia del tutto dal dibattito della società civile e del mondo intellettuale.



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