Ucraina, la guerra dei “cronies”: la politica mondiale ridotta gioco d’azzardo

La Terza guerra mondiale buttata lì, en passant, tra uno spot e l’altro, minacciata senza alcuna reale consapevolezza da parte delle opinioni pubbliche.

Fabio Armao

Immagino non sia successo soltanto a me di trasalire quando il presidente statunitense Biden, nel corso di un’intervista, ha evocato la possibilità di una Terza guerra mondiale come conseguenza di un’invasione russa dell’Ucraina. Non che ignorassi gli eventi in corso e non fossi consapevole della gravità della situazione. Eppure, quell’affermazione mi suonava strana: più che eccessiva, fuori contesto, quasi fosse una battuta di una messa in scena da teatro dell’assurdo. È probabile che quella sorta di senso di estraniazione nascesse anche dal fatto che una notizia simile, che avrebbe dovuto esaurire l’attenzione dei media, risultava invece inframezzata tra altre, ai limiti del farsesco, sul dibattito politico italiano – tra un ex-presidente del consiglio che si riscopre improvvisamente anche ex-capo di un ex-movimento; e un altro ex-presidente del consiglio che viene rinviato a giudizio (e questo, a dire il vero, non costituirebbe una novità) e dichiara che non vede l’ora di difendersi in aula, ma denuncia i procuratori che l’hanno inquisito – seguite dalle statistiche quotidiane sulla pandemia da Covid-19 e dagli aggiornamenti sulle medaglie vinte dagli atleti italiani alle olimpiadi invernali di Pechino.

La Terza guerra mondiale buttata lì, en passant, tra uno spot e l’altro, minacciata a nostra insaputa, ovvero senza alcuna reale consapevolezza da parte delle opinioni pubbliche, nemmeno nei paesi democratici. Quasi si trattasse dell’ennesima grande sfida tra Paperone-Elon Musk e Rockerduck-Jeff Bezos, che sembrano ormai avere solo l’angosciante problema di dimostrare di saper dilapidare, scusate: investire, i propri immensi capitali meglio dell’avversario – e che, per la gioia di Freud, fanno ora a gara a chi è più bravo a lanciare razzi spaziali.

L’esempio non è casuale, perché Biden e Putin, non meno di Musk e Bezos sono i protagonisti di un capitalismo ridotto a puro gioco d’azzardo. La differenza, però, è che i due magnati mettono in gioco, diciamo per semplicità, denari propri; mentre i due politici, vite umane altrui, con la “leggerezza” che deriva loro dal fatto di non avere più neanche bisogno di perder tempo e risorse a mobilitare le masse, tantomeno poi di inventarsi un conflitto ideologico che, del resto, non esiste più nei fatti, dal momento che tutti i contendenti, democratici e totalitari, militano appunto nello stesso fronte capitalista.

Volendo cercare dei precedenti storici, l’impressione è che il confronto non vada fatto con quanto accadeva esattamente un secolo fa, durante la tregua tra le due guerre mondiali, quando il confronto tra nazionalismi stava per lasciare il posto a quello ancora più insanabile tra blocchi che ci avrebbe accompagnato fino al 1989. Piuttosto, bisogna spingersi più indietro nel tempo, all’epoca delle monarchie assolute, quando i sovrani godevano tra il resto anche della prerogativa di poter andare in guerra senza dover chiedere l’opinione dei propri sudditi.

Tuttavia, dovrebbe essere superfluo ricordarlo, la storia non si ripete mai uguale; e, oggi, le dinamiche di corte sono sostituite da una rete molto più articolata e transnazionale di scambi sociali tra regimi politici che, al di là delle differenze istituzionali, condividono le stesse modalità di interazione con il capitalismo. Il cronyism è ciò che accomuna gli USA di Biden e la Russia di Putin (come pure la Cina di Xi Jinping): la capacità del mercato di emanciparsi da quel poco che resta dei vincoli che gli stati, in particolare le democrazie, ancora impongono alla sua libertà, attraverso la costruzione di una fitta trama di relazioni clientelari con esponenti del sistema politico e delle istituzioni statali.

Niente a che vedere con il complotto del complesso militare-industriale, sia chiaro; dal momento che ci troviamo piuttosto di fronte a un complesso processo di privatizzazione della politica, in atto ormai dalla fine della Guerra fredda anche all’interno dei paesi maggiormente sviluppati, e che ha comportato, di conseguenza, anche una crescente privatizzazione della guerra. Ciò che contraddistingue la situazione odierna da quella secentesca e settecentesca, allora, è che il trionfo del neoliberismo risparmia ai novelli sovrani il bisogno anche soltanto di concepire quelle strategie politiche fatte di faide e matrimoni che avevano permesso ad alcune grandi dinastie – pensate agli Asburgo – di arrivare a dominare il mondo: la politica sopravvive come semplice pretesto narrativo, come sceneggiatura di una fiction televisiva, peraltro già vista e rivista.

Potrà sembrare un giudizio troppo severo (o riduttivo), soprattutto provenendo da un politologo; ma trae origine dalla constatazione che da decenni la guerra ha dimostrato di saper generare un’intera filiera economica globale ad alta redditività dotata di una propria autonomia, capace di coinvolgere tutte le sfere del capitalismo: da quella industriale della produzione degli armamenti, a quella commerciale del traffico e della vendita (lecita e illecita) delle armi stesse, fino alla sfera finanziaria delle quotazioni in borsa di società che, grazie al gioco delle fusioni e delle compartecipazioni azionarie, possono arrivare a concentrare risorse e competenze belliche superiori a quelle di molti stati, dovendo rendere conto del modo di impiegarle soltanto ai propri azionisti e non alle opinioni pubbliche di riferimento. E poi c’è il variegato universo del “capitale umano”, fatto di rappresentanti delle libere professioni coinvolti (imprenditori, avvocati, commercialisti, intermediari e trafficanti); come pure di manodopera, ivi compresi soldati della più varia natura: membri delle forze armate e di polizia, mercenari, guerriglieri, terroristi e appartenenti alle ormai infinite organizzazioni criminali.

In un contesto simile non ha neppure più molto senso parlare di guerre per il petrolio (o per il gas): le variabili esogene di volta in volta coinvolte possono essere le più diverse, ma basta la guerra in sé a movimentare merci e denaro, a produrre redditi e a garantire profitti speculativi. Se poi dovessero entrare in gioco anche diamanti, greggio o coltan, tanto di guadagnato. Anche nell’ipotesi che venissero confermate le notizie sul ritiro delle truppe russe lanciate nel momento in cui scrivo, fateci caso, le “prove di guerra” delle ultime settimane avranno comunque prodotto una considerevole movimentazione di armi, anche sotto forma di “donazioni” all’Ucraina, e di uomini, cui si aggiungono le altre cospicue risorse impiegate per le mastodontiche manovre militari messe in atto in particolare da Russia e Bielorussia.

Finora, il mercato globale della guerra aveva manifestato tutte le proprie potenzialità soprattutto nelle varie periferie del sistema internazionale, con l’ulteriore perverso vantaggio di scaricare i costi dei conflitti sulle popolazioni locali inermi dei paesi del Sud del mondo, convogliando però gli utili al Nord, nelle città globali sede dei principali centri finanziari e nei paradisi fiscali che ne rappresentano le succursali. L’azzardo di questi giorni consiste, invece, proprio nel pretendere di giocare nel cuore stesso dell’Europa, scommettendo che le conseguenze possano rimanere comunque circoscritte; magari contando sul solo coinvolgimento di contractors e gruppi paramilitari e non anche delle forze armate statali, evitando insomma la “nazionalizzazione” dello scontro. E assumendo, come sempre, che le inevitabili conseguenze per le popolazioni civili possano essere liquidate come mero danno collaterale. Il fatto, evidente, che l’Ucraina non sia equiparabile alle tante poste precedenti – non all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia, alla Siria e neanche alla Crimea o al Donbass – finisce paradossalmente per trasformarsi in un incentivo per i bookmakers.

Il primo a puntare forte su questo tavolo è stato Vladimir Putin, ma da lui c’era da aspettarselo: è pur sempre il leader di uno stato autoritario che può contare sulla fedeltà sia dei vertici delle forze armate, sia dei suoi amici di San Pietroburgo cui ha delegato la gestione del mercato, garantendosi una rendita vitalizia di tutto rispetto e messa al sicuro nei paradisi fiscali.

Quello che più sorprende, semmai, è il presidente statunitense Joseph Biden, dal quale ci si poteva aspettare che attenuasse, almeno, le derive familistiche che Donald Trump aveva imposto nel corso del suo mandato, rendendo la stessa Casa Bianca una filiale del capitalismo clientelare statunitense di cui aveva già incarnato, con successo altalenante, il volto imprenditoriale. Detto in una battuta, la sensazione di straniamento deriva proprio dal sentirgli evocare la Terza guerra mondiale in televisione durante un’intervista e non davanti al Congresso. E non si tratta di una mera questione di forma, ma di sostanza; perché denota una volontà esplicita di prescindere dalle procedure previste dalla democrazia parlamentare, oltre che un assoluto disinteresse per l’opinione di quelle masse che, a rigore, dovrebbero ancora rappresentare il fondamento ultimo della legittimità della sua carica.

Ragionando in astratto, fino a un paio di anni fa, mi sarei comunque sentito di affermare, con un certo ottimismo, che la differenza con il 1914 dell’attentato di Sarajevo o con il 1938 della conferenza di Monaco è che oggi possiamo legittimamente ipotizzare una minor propensione alla guerra da parte delle masse; e che ciò costituisce un valido deterrente nei confronti di leadership irresponsabili. Negli stessi giorni in cui si aggravava la crisi internazionale sull’Ucraina, tuttavia, le sole manifestazioni cui abbiamo assistito – dall’Italia alla Francia, dal Canada alla Nuova Zelanda – sono state quelle contro il green pass. Il che fa temere che la globalizzazione neoliberale abbia finito col corrompere l’idea stessa di cittadinanza democratica a un punto tale da spingere alla mobilitazione soltanto più coloro che ne incarnano al meglio lo spirito individualistico (persino egotistico) – che si manifesta proprio nel cogliere delle misure governative le limitazioni che comportano per le libertà dei singoli, perdendo del tutto di vista la loro principale finalità: tutelare gli interessi collettivi riducendo, per quanto possibile, i danni economico-sociali della pandemia.

CREDIT FOTO: Credit: Adam Schultz / White House via CNP (s) – EPA/MIKHAIL KLIMENTYEV / KREMLIN / SPUTNIK / POOL MANDATORY CREDIT (d)



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