Ucraina, le ipocrisie dell’Occidente

Gli affari in cambio di due occhi chiusi su tutto il resto: ecco la causa della scarsa credibilità occidentale, che infatti non ne azzecca una da almeno trent’anni.

Mario Barbati

L’Italia fornirà di armi per la prima volta un Paese in conflitto, superando con un decreto ad hoc la legge del 1990 che lo proibisce e allineandosi così agli altri 19 su 27 Stati membri dell’Ue che hanno deciso di inviare aiuti militari all’Ucraina invasa dalla Russia. Anche l’Unione Europea utilizzerà per la prima volta il proprio bilancio per acquistare e consegnare materiale bellico ed equipaggiamenti militari a un Paese fuori dalla Ue: 500 milioni di euro per l’esercito ucraino e 500 milioni per gli aiuti umanitari.

La pandemia prima e la guerra poi hanno provocato le famose “settimane in cui accadono decenni”, portando l’Europa a fare ciò che per decenni appunto non ha fatto: l’emissione di debito comune col Next Generation EU e spese di bilancio per sostenere la resistenza ucraina. Si rompe un tabù anche per la Germania (e la Svezia che abbandona la neutralità) che per la prima volta dalla seconda guerra mondiale invia armi a un Paese in guerra, abbandonando la politica di disarmo che ha sempre vietato l’export di armi in zone di conflitto.

Ma a differenza della Germania, che tramite il suo Ministero della Difesa ha reso pubblico l’elenco delle armi spedite (1.000 missili anticarro portatili e 500 missili terra-aria Stinger), il governo italiano ha ritenuto di secretare tipologia, costi e quantitativi del supporto bellico all’Ucraina, mettendo all’oscuro sia il parlamento che l’opinione pubblica. Ne è a conoscenza solo il Copasir, tenuto al segreto di Stato, e si sa solo che negli ultimi giorni due aerei militari italiani hanno consegnato i primi rifornimenti nello scalo polacco di Rzeszów-Jasionka. Sarà poi la Nato, o chi per essa, a trovare il modo di consegnarli all’esercito di Kiev nel teatro di guerra. Una decisione che ha provocato l’irritazione di praticamente tutti i gruppi parlamentari tranne il Pd, che nelle commissioni Esteri e Difesa della Camera hanno chiesto al ministro Guerini di informare almeno il parlamento, che dovrebbe svolgere una funzione di controllo sul governo e in Italia è ormai relegato al ruolo di passacarte. Non abbiamo quindi un elenco della tipologia di armi inviate, non abbiamo la possibilità di farlo giudicare agli analisti e agli esperti militari, non ne conosciamo i costi che sono a spese dei contribuenti, nonostante la risoluzione del governo sia stata sostenuta da tutti i gruppi parlamentari.

L’Italia spende ogni anno per la propria difesa militare 30,4 miliardi, negli ultimi anni come molti alleati europei non ha mai adempiuto alle richieste della Nato, che chiedeva ai propri membri di spendere il 2% del pil nazionale. Nel frattempo, l’Europa politica ma anche di difesa comune non è mai nata, un po’ per incapacità politica ma anche per non dispiacere alla Nato, che a oltre trent’anni dalla fine del patto di Varsavia appare utile come una suppellettile archeologica.

Fosse stata implementata in questi anni una Difesa comune europea, così come una comune politica di ripartizione e accoglienza dei migranti, si sarebbe potuto evitare l’invio di armi da parte dei singoli Paesi e acquisire maggiore autonomia rispetto alla Nato e agli Usa, interessati ma lontani dal conflitto bellico.

Oltre al parlamento, a volte anche l’informazione sembra congelata. Che il governo italiano si trovi ai margini delle trattative diplomatiche e dei tentativi di mediazione in corso è dimostrato dai fatti, ma non si può dire. O meglio, viene taciuto dai principali organi d’informazione. Soltanto ieri, il presidente della Cina Xi Jinping ha parlato in videoconferenza con Olaf Scholz ed Emmanuel Macron, attivissimi in questi giorni. Sono gli unici ad avere canali di comunicazione costanti con Putin (soprattutto Macron) e hanno incontrato più volte il premier israeliano Bennett, l’unico a volare a Mosca in queste ore. Sembra essere tornata la vecchia Europa a due, come dimostra la cena del 28 febbraio tenuta all’Eliseo tra Macron, Scholz e Vor der Leyen, con Palazzo Chigi che si affrettava a far diramare una nota in cui si parlava di “motivi tecnici” che avevano fatto saltare all’ultimo il collegamento, per nascondere il mancato invito. Il 7 marzo anche Biden ha organizzato una videochiamata con Johnson, Scholz e Macron: Italia assente e successiva telefonata Draghi-Scholz. Tutto questo dopo la gaffe poi chiarita col presidente ucraino lasciato in attesa al telefono da Palazzo Chigi. Da allora, l’Italia ha perso sempre più centralità ed è al momento fuori da ogni partita che conta a livello diplomatico.

Del resto, il governo Draghi era stato molto prudente nei primi giorni del conflitto riguardo le sanzioni, per via del 40% di importazione di gas che acquistiamo dalla Russia. Solo dopo le pressioni degli Usa, abbiamo aderito politicamente alla decisione di bloccare il sistema Swift per le transazioni internazionali, solo per alcune banche russe e salvaguardando i pagamenti con cui vengono effettuati i rifornimenti energetici. Anche Francia e Germania sono allineate all’Alleanza atlantica, ma hanno margini di manovra e autonomia che l’Italia non ha.

È proprio la vendita del gas russo che sta finanziando, almeno in parte, la guerra all’Ucraina: il regime di Putin ogni giorno incassa 700 milioni di euro dalla vendita di gas a Europa, Gran Bretagna, Stati Uniti. Ieri Usa e UK hanno annunciato il bando totale dell’import di gas e petrolio. La Russia esporta ogni giorno 275 milioni di metri cubi di gas e 3,5 milioni di barili di petrolio. Solo bloccando la vendita di forniture energetiche con l’estero, si potrebbe immaginare un collasso dell’economia russa e un rovesciamento del regime dello zar.

Altrimenti il destino dell’Ucraina è di essere sovrastato dall’aviazione e dall’armata russa. L’unica soluzione potrebbe essere offrire la neutralità di almeno una parte dell’Ucraina in cambio del pieno riconoscimento della democrazia e dell’autodeterminazione del popolo ucraino. Oppure non arrendersi almeno formalmente e mettere il governo ucraino in esilio, ponendolo nelle condizioni di guidare la guerriglia a distanza (solo a questo potrebbero servire le armi in arrivo). L’Ucraina beneficia infatti di rifornimenti armati già da tempo, solo nell’ultimo anno gli Usa hanno investito più di un miliardo nella sua sicurezza.

Battersi per il disarmo, per eliminare l’industria bellica e sostenere le ragioni della nonviolenza non può significare far finta di non vedere la barbarie del presente. “Non sono pacifista, sono contro la guerra” diceva Gino Strada. Ma di fronte all’autodeterminazione e alla volontà di indipendenza di un popolo (fosse anche una parte di popolo) non si può restare indifferenti. Al netto degli errori pregressi di cui è doveroso parlare per capire (l’espansione insensata della Nato, la comune cultura russa dei due Paesi, Ucraina in russo vuol dire “regione di frontiera”, i battaglioni fascistoidi e nazionalisti ucraini ma taluni anche russi), non si può restare indifferenti agli uomini che salutano donne e bambine per combattere una guerra che sanno già persa, agli ucraini a mani nude davanti ai tank russi, ai piccoli villaggi in cui a suonare gli allarmi antiaerei non sono le sirene ma le campane, alla foto di Lynsey Addario dei corpi morenti con i capi reclinati in terra di una famiglia in fuga. Cosa ne sarebbe stato della Resistenza partigiana (una parte esigua dell’Italia pecorona di allora come di oggi) senza il pur tardivo sostegno degli Alleati? Il corpo del presidente Zelensky si è messo a difesa di un popolo nell’era della comunicazione (“Mi servono munizioni, non un passaggio” ha detto a Biden).

Il problema è che quelle munizioni non basteranno, Zelensky lo sa bene. Putin si è messo in un punto di non ritorno, qualunque passo indietro faccia rispetto all’idea di annettersi e mangiarsi l’Ucraina verrà vista come una sconfitta e vissuta come tale da chi in Russia non abbraccia il suo nazionalismo. L’Occidente non può fare nulla per difendere Zelensky e il suo popolo, per evitare una terza guerra mondiale che stavolta non sarebbe convenzionale ma nucleare. Mai chi è nato dopo l’ultimo conflitto mondiale è stato così vicino all’apocalisse atomica. Per di più, oltre a subire i bombardamenti russi, i poveri ucraini in queste ore sono anche costretti a sorbirsi il meglio dell’ipocrisia occidentale, tipica delle società in decadenza. Come quelli che oggi fanno finta di scoprire che Putin è un “pazzo”, il “nuovo Hitler”, come se non fosse lo stesso Putin che ha raso al suolo Aleppo. Come se non fosse il medesimo “uomo senza volto” che ha sempre perseguitato gli oppositori politici e i giornalisti indipendenti, fino a farli fuori fisicamente, ma che faceva e fa comodo all’Occidente per il gas, per i denari che portavano il mercato e gli oligarchi russi, per le grandi aziende italiane e occidentali in affari con Mosca. Gli affari in cambio di due occhi chiusi su tutto il resto: ecco la causa della scarsa credibilità occidentale, che infatti non ne azzecca una da almeno trent’anni.

Così un giorno faremo finta di scoprire che Erdoğan sbatte in galera oppositori, attivisti politici, giornalisti, magistrati e ha sterminato il popolo curdo ma fa comodo stare in silenzio perché è pagato dall’Europa “buona” per bloccare i migranti al confine e anzi è a pieno titolo atlantista, membro della Nato. Un giorno faremo finta di scoprire che in Libia ci sono campi di concentramento e milizie feroci che fanno comodo all’Unione Europea che le finanzia, per evitare di gestire i flussi migratori. E via dicendo, perché condannare l’invasione in Ucraina, che va fermata in ogni modo possibile, non può significare non vedere le colpe e le ipocrisie dell’Occidente.

Credit foto: Kyiv (Kiev), 8 marzo 2022. ANSA EPA/ZURAB KURTSIKIDZE



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