Fabrizio Barca: “Essere uguali significa avere le stesse possibilità di essere diversi”

Dal libro “Le parole della disuguaglianza” (Donzelli) un’intervista al coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità.

Fabrizio Barca

Estratto dal libro “Le parole della disuguaglianza” (Donzelli)
Cosa significa «uguaglianza»?
La migliore definizione l’hanno data i nostri costituenti durante quel meraviglioso incontro tra culture diverse che ha dato vita ai principi della nostra Costituzione. L’articolo 3 della Carta parla, infatti, di «pieno sviluppo della persona umana», anticipando di una trentina di anni la teoria di Amartya Sen. Essere uguali, infatti, non significa assomigliarsi tutti gli uni con gli altri, ma avere le stesse possibilità di essere diversi, che è anche la ragione per la quale «diversità» è la parola vicina a «disuguaglianze» nel nome del nostro Forum. Sen parla inoltre di libertà come possibilità della persona di vivere la vita secondo i suoi desideri e secondo le proprie potenzialità, includendo anche il concetto di giustizia ambientale, sottolineando che non bisogna ridurre lo spazio di libertà alla generazione successiva, bisogna piuttosto rafforzarla. Esistono anche strumenti per misurare il livello di disuguaglianze, come l’indicatore di Gini o altri indicatori che valutano il livello di concentrazione della ricchezza o, ancora più importante, le possibilità di mobilità sociale. Sono indici che hanno segnalato un netto peggioramento, se guardiamo alle disuguaglianze interne ai paesi. Dobbiamo però, per onestà intellettuale, riconoscere che la riduzione tra paesi, invece, è sicuramente diminuita, soprattutto per l’ascesa di Indonesia, Cina, India e altri paesi. Le due cose non sono del tutto scollegate ma certamente non è a causa di questa ascesa che le disuguaglianze interne ai paesi sono aumentate. Dobbiamo piuttosto guardare all’incapacità di attrezzare e adeguare il sistema capitalistico e la nostra democrazia ai grandi cambiamenti dei nostri tempi, compreso l’arrivo di milioni di lavoratori che, ceteris paribus, hanno spiazzato una parte della nostra forza lavoro influendo sulla riduzione del potere contrattuale. Questo ha certamente contribuito all’aumento delle disuguaglianze, tuttavia, come affermava Sylos Labini, era nostro compito adattare la società utilizzando nuove tecnologie e competenze. Dunque, non c’era nulla di inevitabile nel peggioramento al quale abbiamo assistito, che non riguarda solo i redditi ma anche l’accesso ai servizi fondamentali. Con il Covid-19 è emerso chiaramente quanto i territori fossero attrezzati in maniera differente per affrontare l’emergenza, in base a quanto fatto in passato in termini di sanità, welfare, copertura digitale per la scuola e così via.

Da ultimo, c’è il tema del riconoscimento: parte delle disuguaglianze non è legata al reale peggioramento delle proprie condizioni, ma alla sensazione di non essere più riconosciuti per quello che si è. Io ho lavorato tanti anni nelle aree interne del paese e posso affermare che una larga parte di popolazione, in quei territori, si sente considerata di secondo rango, come se a contare siano solo le metropoli. Tutto questo deve essere però motivo di ottimismo, o quanto meno di reazione, di volontà di correggere il tiro, altrimenti non ci sarebbe stato nulla da fare.

Quanto è centrale il contrasto alla povertà educativa nella lotta alle disuguaglianze?

Facciamo un esempio, prendiamo una giovane ragazza di 18 anni e pensiamo a ciò che è necessario valutare e offrire per garantirle un pieno sviluppo. Prima di tutto dobbiamo considerare, ed eventualmente compensare, le condizioni nelle quali è nata e cresciuta, il quartiere dove ha vissuto, i libri che si leggono a casa, il linguaggio, i ragazzi che frequenta – consideriamo che nelle aree interne, fino ai 14 anni, molti giovani hanno frequentato sei coetanei, se sono fortunati. Poi dobbiamo valutare e, di nuovo essere pronti a compensare, la quantità dei mezzi finanziari a sua disposizione per potersi iscrivere all’università lontana, a un percorso di formazione professionale o avviare una startup. Nell’approccio del Forum ci sono questi due componenti fondamentali: equilibrare le opportunità e rimettere in moto la macchina della mobilità sociale. Questo significa aggredire la povertà educativa, da un lato, e riequilibrare le condizioni economiche dei giovani di 18 anni, dall’altro. Poi c’è un altro punto fondamentale che è quello degli Andrea Morniroli, dei Marco Rossi-Doria e anche proprio del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile che parte dalle Fondazioni. Il privato e il pubblico possono e devono contaminarsi gli uni con gli altri. Io, da ministro, ho letteralmente copiato dalla Fondazione Con il Sud, perché gli interventi che erano avviati sui territori funzionavano ed erano replicabili. Se c’è un’esperienza importante che ha funzionato deve diventare sistema. Questa unione pubblico-privato dovrebbe valere in tutti i campi della nostra vita e della nostra società, anche nel contrasto alla povertà educativa non si può scaricare tutto sugli insegnanti, bisogna coinvolgere tutta la comunità locale, dalla stazione dei carabinieri alla parrocchia, dalle organizzazioni di cittadinanza alle famiglie. Con il Covid-19 si è venuta a creare una situazione drammatica e, per questo, è fondamentale lavorare con i più piccoli, dagli zero ai sei anni, ma anche con gli adolescenti che rischiano di perdersi per strada, andando a ingrossare un numero già bassissimo di iscritti all’università, e rischiando di non essere più spendibili in età adulta. Ma non si può risolvere il problema della scuola se non la si connette al welfare, alla mobilità, alla sicurezza, e se non si agisce da comunità aperta che lascia entrare nuove idee e affronta i problemi in modo strategico, non con i bandi di gara – mi permetta un poco di polemica – ma con strategie partecipate sul territorio.

Durante la pandemia abbiamo scoperto nuovi modi di lavorare e interagire da casa, dimostrando che non sempre è necessario migrare per poter lavorare. Che impatto potrebbe avere nel Mezzogiorno e nelle aree interne? E che cosa si potrebbe fare per orientare gli interventi in questa direzione?

A mio avviso, il modo migliore di parlare del Sud è pensarlo come luogo dove tutte le contraddizioni, che sono comuni al resto del paese, hanno conseguenze più gravi. Se lo leggiamo in un altro modo, cadiamo nel «differenzialismo», che è un vizio in cui cascano anche i migliori, come viene approfondito in uno splendido saggio di Stefania Patriarca. La Pubblica amministrazione italiana funziona male nel suo complesso, non si è modernizzata, non esprime sufficiente discrezionalità, non l’abbiamo rinnovata in maniera organica, e nel Sud tutto questo ha effetti peggiori rispetto al resto del paese. Quello che va fatto è trovare insieme delle linee di indirizzo da attuare poi a livello territoriale. Questo non si può fare solo trasferendo dei soldi, abbiamo usato sussidi dappertutto, forma di sostegno spesso criticata da liberisti, che in realtà non è altro che un complemento fondamentale del neoliberismo. Sostenendo l’idea che il mercato decide tutto, si abbassa il livello di conflitto e quindi di confronto, ma il conflitto non deve essere per forza violento, anzi! È fondamentale per produrre innovazione. Oggi al cittadino viene detto: «Non ti piace questo ospedale o questa città? Trovane un altro», invece di creare spazi e momenti di confronto per migliorare le condizioni di vita di quel territorio. Così, però, si peggiora solo la situazione perché le persone non hanno bisogno di essere commiserate né di forme di carità. Accetteranno tuttavia il sussidio ma continuando a mal sopportare la propria condizione, aumentando sentimenti di risentimento e malcontento. Dunque, non è questa la soluzione, bisogna essere strategici, andare a valutare quelle azioni che hanno un impatto e un obiettivo preciso. Solo così potremmo intervenire in un processo che, anche se a rilento, sta già avvenendo, incentivato dalla pandemia: stiamo facendo più attenzione ai luoghi, al turismo lento e ai cibi a km zero, all’autoproduzione di energia elettrica e ai servizi fondamentali. Anche sotto la lente del capitalismo, questi settori possono diventare domanda, includendo e coinvolgendo però anche le aree interne e quelle del Sud in un percorso di crescita più giusto e inclusivo. Investiamo dunque nelle persone, nei giovani, nelle idee innovative e alternative. È meglio trovare il modo di erogare un prestito che, anche se non viene restituito interamente, dà vita a una nuova attività, piuttosto che un sussidio che serve solo a tenere in vita un’azienda morente. Le idee e le soluzioni bisogna andarle a pescare nell’intelligenza e nello spirito delle persone nel Sud, come nei territori di tutta Italia.

(credit foto ANSA/ FRANCESCA BALDI)



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