Mappe del nuovo mondo: Peter Handke e Joan Didion

La rubrica compie un anno, un'occasione speciale per parlare di due autori molto noti e rintracciare nelle loro opere le caratteristiche fondanti della Letteratura contemporanea.

Andrea Maffei

A un anno dalla nascita di ‘Mappa del nuovo mondo’ dobbiamo ringraziare tutti quelli che hanno reso possibile questo traguardo e creduto nel progetto, a partire naturalmente dalla redazione di Micromega, nonché dagli affezionati lettori che ci hanno seguito finora. In questo mese di giugno cade anche la seconda puntata maggiorata, dopo quella di dicembre scorso. Per tale giro di boa abbiamo pensato di presentare oggi alla gentile lettrice al lettore due autori già largamente noti, come il premio Nobel Peter Handke e Joan Didion. Perché li abbiamo scelti per questa occasione? Perché a nostro avviso nella loro opera è possibile ravvisare caratteristiche fondanti anche della Letteratura contemporanea in generale. Ne abbiamo individuate e ne discuteremo quattro: frammentarietà e bagliore, autore come vate debole, tendenziale concavità, autori dalle cento porte. Buona lettura.

Peter Handke, La donna mancina, trad. di A. M. Carpi, Milano, Garzanti, 1999
Parlare dell’austriaco Peter Handke (premio Nobel 2019) può equivalere a parlare della Letteratura contemporanea in toto: diversi tratti che caratterizzano l’uno, difatti, lo stesso fanno con l’altra. “Ma cosa si intende per Letteratura contemporanea?”, si potrebbe domandare. Ci è dato rispondere che si tratta di un fenomeno complesso e multiforme, la cui natura la nostra rubrica si pone l’obiettivo di indagare, così che non ci resterebbe che suggerire la lettura delle puntate precedenti e quella delle successive. C’è un’altra domanda ugualmente interessante, però, che qui possiamo provare a soddisfare: quando nasce la Letteratura contemporanea così come noi la conosciamo? Crediamo che le sue cristalline sorgenti possano ben essere rappresentate da due pagine specifiche, l’una scritta addirittura alla metà dell’Ottocento, l’altra a inizio Novecento. La prima, celeberrima, è di Charles Baudelaire. Parla un poeta: “Poco fa, mentre attraversavo la via in tutta fretta, mentre saltellavo nel fango, attraverso quel mobile caos in cui la morte giunge al galoppo da tutti i lati allo stesso istante, la mia aureola, per un brusco movimento, è scivolata dalla mia testa nella fanghiglia della strada. Non ho avuto il coraggio di raccattarla.” La seconda, altrettanto nota, appartiene a Thomas Stearn Eliot, […] Figlio dell’uomo, / tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto/ un cumulo di immagini infrante, dove batte il sole […].

Che cosa significano queste due citazioni e perché su esse si fonderebbe la Letteratura contemporanea (non ha importanza il fatto che qualche scrittore, anche eccellente, odierno possa non averle mai lette: la potenza di un testo si misura più sull’influenza che riesce ad avere su chi non l’ha letto che su chi l’ha letto, si veda il caso Nietzsche tra Otto e Novecento)? Ciascuna introduce alcuni temi fondamentali. Baudelaire quello della velocità incessante, soffocante, che se egli riconosceva in un viale trafficato di carrozze noi identifichiamo nelle alienanti metropoli, o anche solo nelle città. In secondo luogo abbiamo il poeta senza aureola, non più nume: l’idea del poeta-vate è tramontata prima ancora che D’annunzio nasca. Ma non è tutto qui, poiché il poeta non solo è privo dell’aureola: essa gli è finita nella fanga. Egli è cioè un reietto della società, un parassita, un sovversivo (si ascolti ciò che riguardo ai poeti cantava un poeta italiano, Claudio Lolli, nella sua meravigliosa Ho visto anche degli zingari felici), e in quanto tale è combattuto e i tempi in cui viveva alla giornata, buttando giù versi in una qualche trattoria da rive gauche sono definitivamente tramontati: se nascesse oggi, Baudelaire sarebbe affamato e umiliato e offeso, lavorerebbe consegnando un qualche pacco per una multinazionale, e se tentasse di appartarsi per scrivere versi il tempo speso gli verrebbe addebitato. Baudelaire però non ci parla soltanto per mezzo del contenuto, ma anche attraverso la forma. La raccolta Lo spleen di Parigi, da cui l’estratto è colto, infatti, non è né in prosa né in poesia, bensì in una ibrida prosa ritmica o prosa poetica. Eliot, invece, tratta anzitutto di inesplicabilità, di morte della parola (in proposito si vedano le puntate MDNM di dicembre scorso e di marzo), ma anche d’una realtà come vetro in frantumi, impossibile da ricostruire, da reimmaginare intero. Sintetizzando: Baudelaire preconizza, nella società di massa, la morte del poeta, mentre Eliot mezzo secolo più tardi affermava l’impossibilità di dire, di vedere.

Le Lettere contemporanee in che modo hanno elaborato, dunque, queste due pagine? Come si anticipava prima, è possibile osservarlo ad esempio studiando il lavoro di Handke. Proveremo a schematizzare i quattro tratti più riconoscibili della sua opera, i quali combaciano perfettamente con alcune delle qualità fondamentali della Letteratura odierna.

1) Frammentarietà e bagliore (da Eliot, ma anche da Baudelaire). I libri di Handke sono quasi tutti costituiti da brevi, franti pensieri raggruppati per paragrafi. Anche testi almeno teoricamente più canonici – come il consigliatissimo Infelicità senza desideri (Garzanti), in cui racconta la biografia e il suicidio della madre – si smarriscono quasi immediatamente fra divagazioni, memorie, aforismi, bizzarìe varie (pagine e pagine ad esempio contenute in parentesi tonda), e di fatto l’assenza di una vera narrazione. A che genere appartiene un’opera come questa? Abbagliati, giusto e a stento possiamo dire ciò che non è (il rimando montaliano è in questa puntata quanto mai opportuno): e non è un romanzo. Il superamento del romanzo tradizionale è forse il tema portante della Letteratura contemporanea: e qui rientriamo all’indefinibile raccolta Lo spleen di Parigi. Su questo argomento torneremo anche più in basso.

2) Autore come vate debole (da Baudelaire). Anche questo lo vedremo in dettaglio fra poco, parlando di Joan Didion.

3) Tendenziale concavità (si torna a rimandare alla già citata puntata di dicembre). Intendiamo dire che spesso il significato del testo risulta non individuabile chiaramente e anzi per lo più soggettivo. Talora Handke così raggiunge risultati eccellenti, come in Canto alla durata (Einaudi), forse il suo capolavoro letterario, talaltra decisamente meno, come nell’inintelligibile, La mia giornata nell’altra terra (Guanda). D’altronde la questione della concavità del messaggio riguarda, se bene osserviamo, diremmo la totalità delle arti contemporanee (pensiamo solo al teatro di Pinter!), non solo alte ma anche popolari. Se la gentile lettrice o il lettore accendesse proprio in questo momento la radio, probabilmente la prima canzone in cui s’imbatterebbe parlerebbe sì, in maniera generale, di amore, ma ascoltando attentamente il testo ci si avvedrebbe di interi versi e strofe di opaco significato (forse neppure si riuscirà a stabilire se si tratta d’un amore lieto o tormentato, finito o nel suo divenire), che a volte sconfortati si crederà non ne posseggano alcuno.

4) Autori dalle cento porte. Forse la domanda che più spesso riceviamo dai lettori di MDNM inizia con l’indicarci il nome d’un autore o d’un’autrice e chiedere, “Da quale suo testo mi converrebbe partire?” Ora, la prima opera con cui si incontra uno scrittore è molto più importante di quanto si creda. Infatti chi iniziasse a leggere Rilke, per porre un esempio, dai Sonetti a Orfeo probabilmente verrebbe respinto dalla loro oscurità, chi iniziasse dalle Lettere a un giovane poeta resterebbe avendo capito poco e niente, chi addirittura cominciasse dai versi giovanili o dal Libro d’ore scapperebbe via lontano. Ma è frequente, per gli autori contemporanei, avere l’impressione d’una certa – verrebbe da dire – uniformità di risultati. Dato che prima abbiamo citato la radio, rammentiamo un programma radiofonico che proprio di recente, all’indomani della scomparsa di Hans Magnus Enzensberger, incoraggiava i suoi ascoltatori a indicare quale fosse “il loro Enzensberger”, come se ognuno ne avesse uno diverso. Ma davvero, da dove iniziare a leggere uno come Enzensberger, da dove Kadare, da dove Vassalli, da dove Nooteboom, da dove Coetzee, da dove Janet Frame, da dove Vargas Llosa? e così via. Nella bibliografia d’uno scrittore, insomma, spesso non v’è un’opera che spicchi nettamente sulle altre o che si ponga a chiave di tutte. Si tratta naturalmente per lo più di un’impressione, figlia di ragioni differenti. Anzitutto gli autori sono ancora viventi e la critica non ha avuto modo di analizzarli a fondo e compiutamente; in secondo luogo non si è ancora potuto osservare la loro eventuale influenza sulle generazioni successive, fattore che pure è da tenere in conto. Aggiungiamo che gli autori contemporanei sono in genere assai prolifici, e non è raro che si diano alla prosa, ai versi, al teatro e poi compongano saggi e memorie e libri di interviste. È da sottolineare, infine, che spesso alla figura del critico è sostituita quella del venditore, che di volta in volta giura la massima eccellenza del prodotto che ha in mano e lo dichiara migliore di tutti gli altri precedenti. Ciò soddisfa il dogma tanto contemporaneo della crescita permanente, ma chi abbia vissuto anche solo un giorno nel mondo reale sa bene come esso non possieda proprio nulla di autentico. Un senso di spaesamento, insomma. E dunque da dove cominciare a leggere Peter Handke? Dal saggio Storia di una matita (Guanda), dagli appunti sparsi de Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi (Edizioni Settecolori), dal puzzle de I calabroni (Guanda), da Insulti al pubblico (Quodlibet), che probabilmente lascerà il lettore determinato a non posare mai più gli occhi su una pagina di Handke?

Nella necessità di scegliere, abbiamo optato per La donna mancina. Perché? Perché in quest’opera è possibile osservare la narrazione classica dapprima incrinarsi, come per l’intervento di un distorsore, poi infine rumorosamente esplodere nell’irriconciliabile moderno. Lo sfondo è, naturalmente, quello d’una agiata e all’apparenza sicura borghesia. Un giorno la moglie decide di lasciare il marito (che pure giura di amarla e davvero la ama, a modo suo) e il figlio e partire, non si sa per dove ma soprattutto non si sa perché: gli stessi nessi logici richiesti dalla narrazione tradizionale sono un’imbrigliatura per la Letteratura moderna. Dal sapore inconfondibilmente kafkiano del lungo e potente finale spiccano, come tanti sghembi cardi da un unico cespuglio, le molte strane teste delle opere di Handke.

Joan Didion, Verso Betlemme. Scritti 1961-1968, trad. di D. Vezzoli, Milano, il Saggiatore, 2008
Proviamo a ripartire dal secondo punto della precedente recensione: autore come vate debole. Con pensiero debole i filosofi Vanni Vattimo e Pier Aldo Rovatti intendono – nel loro omologo e celeberrimo saggio postmodernista – la rinuncia ad approdare a qualsiasi definitiva e salda verità e l’accettazione piena e intima di tale condizione. Così noi nella Letteratura contemporanea possiamo parlare di autore come vate debole anzitutto contrapponendolo ai vati forti del passato, da quelli più illustri dei poemi epici ed eroici agli altri più moderni, come un D’annunzio, ma anche – benché di segno differente – un Neruda (ci riferiamo ad esempio alla sua magnifica autobiografia Confesso che ho vissuto). Nella Letteratura contemporanea si assiste a uno strano fenomeno: il ritorno dell’autore al tempo stesso narratore e persona fisica in primissimo piano (ciò è perfettamente nello spirito del tempo, nella sovrastruttura – ormai definitivamente interiorizzata dalla società, almeno occidentale – per cui misura di tutte le cose è il sé, per lo più irrelato dalla comunità), ma senza più una via da indicare, anzi egli stesso vagabondo e pellegrino, anch’egli la stessa frammentaria visione di chi legge, non più l’onniscenza dei suoi padri d’Otto e Novecento. Sorprenderà notarne l’abbondanza di casi. Prendiamo il noto Emmanuel Carrère. Nei suoi scritti compare come narratore/personaggio/persona (nel senso che appare come personaggio Carrère che fa lo scrittore e che addirittura ragiona sulla scrittura scrivendola): non ha però verità certe da predicarci, strade per cui accompagnarci, egli stesso tenta, insieme coi suoi lettori, di capire qualcosa che comunque non comprenderà mai del tutto (ne L’avversario, ad esempio, forse il suo esito massimo). Handke, nei suoi saggi, appare in queste stesse vesti. Simili circostanze possiamo osservarle anche in Dubravka Ugresić (recentemente mancata, lasciando un grosso vuoto nella Letteratura mondiale) o nella già vista Jamaica Kincaid o in Claudio Magris o in Sebastiano Vassalli o in Kundera o nella stessa Annie Ernaux.

Un esempio particolarmente significativo ci pare quello della statunitense Joan Didion (1934-2021). Che genere di testi compone? È davvero difficile definirli, ancora: per lo più si tratta di incroci fra saggi e memorie, con un taglio che sta fra il letterario e il giornalistico (non per caso è assimilata alla corrente cosiddetta New Journalism, con Tom Wolfe, Norman Mailer e lo stesso Truman Capote). Qual è il filo conduttore del racconto? L’autrice stessa, la quale tuttavia non offre quasi mai un parere, ma si limita a operare come fosse gli occhi e le orecchie della lettrice del lettore. Talora impiega la scrittura per esorcizzare gli indicibili dolori ai quali la vita l’ha sottoposta: nel giro di brevissimo tempo l’improvvisa dipartita del marito (narrata nel suo celebre L’anno del pensiero magico) e della figlia (riferita in Blue nights). Con simili argomenti sarebbe facile ricavare un testo in cui chi scrive in qualche senso si pone a maestro di chi legge, insegnandogli ad affrontare il male, ad esempio: pensiamo ai vari e pur validi contributi di Tiziano Terzani. La Didion invece sfugge totalmente a tale ruolo. Espone i fatti, e talvolta essi riguardano il suo stesso stato di salute, le sue stesse reazioni, ma l’intento non è mai didascalico.

Così la sua voce familiare e la sua persona fisica accompagnano i lettori dalle riflessioni politiche (Idee fisse. L’America dopo l’11 settembre) a quelle più squisitamente immaginifiche e letterarie (The White Album). Il migliore suo risultato, però, a nostro avviso lo ottiene in testi frazionati per articoli e argomenti eterogenei, ciascuno in un paragrafo o in un capitoletto. Pensiamo ad esempio a Miami o, soprattutto, a Verso Betlemme (questo e tutti gli altri testi citati dell’autrice sono editi, in Italia, per il Saggiatore). Quest’ultimo rappresenta una miscellanea di immagini tratte dagli Stati Uniti degli anni Sessanta, in piena atmosfera hippy (ne tratteremo più nel dettaglio il giorno in cui recensiremo Ferlinghetti). Chi abbia una qualche familiarità con la cultura made in USA naturalmente potrà trarne un godimento aggiuntivo. Per le pagine scorrono le immagini dei pittoreschi matrimoni di Las Vegas, col prete vestito da Elvis e gli sposi ubriachi, quella di Joan Baez tenutaria d’una comune o centro di meditazione che fosse, quella del vecchio John Wayne, quelle della California, delle Hawaii, di New York. Ma forse più di tutte restano impresse le istantanee d’un mondo davvero non più decifrabile, in cui si finisce ammazzati una notte in un motel sconosciuto, lungo uno stradone che nessuno ha mai tastato con le mani (si leggano in proposito le pagine indimenticabili di Pavese, in La luna e i falò), a intermittenza investiti da luci al neon che indefesse pubblicizzano merce di cui nessuno ha bisogno e che col loro insopportabile bagliore entrano dentro la vita e non le si riesce più a scacciare, e ancora la musica leggera che in horror vacui annulla ogni silenzio, ogni pensiero, le telecamere della televisione che tutti cercano e non sanno perché e forse si spaventerebbero a scoprirlo, le bibite ipercaloriche in bicchieri di plastica giganteschi e in generale i fast food, la colossale insegna d’un rodeo e un tizio abbigliato da sceriffo, i fucili, l’ossessione per il ranking universitario e le chiese di fedi inventate ieri o l’altro ieri, per lo più a pagamento, una solitudine chissà se migliore o peggiore di quella di prima, ma per certo diversa e nuova: la solitudine della postmodernità.



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