Un bonus al posto della politica industriale

Il bonus da 53 milioni di euro per i servizi termali è l’ennesima pezza a freddo sul buco colossale che sgonfia le gomme del nostro apparato produttivo, in panne da tempo indeterminato.

Pierfranco Pellizzetti

«La Silicon Valley, contrariamente a quanto
sostiene la favola diffusa della confluenza
accidentale di ottimo clima e capitalismo di
avventura, ha avuto una direzione strategica
in ogni fase del suo sviluppo».
Parag Kharma
«Timeo danaos et dona ferentes»
Virgilio

Tutti alle terme! Mia moglie riceve via whatsapp da un’amica consulente del lavoro il rimbalzo del messaggino, datato 10 agosto di quest’anno, proveniente dal Ministero dello Sviluppo che annuncia il lancio del bonus terme. Ossia, l’iniziativa del “leghista buono” Giancarlo Giorgetti di varare un piano da 53 milioni di euro per acquisti agevolati di servizi termali fino a un massimo di 200 €. Probabilmente nell’intento di beneficiare una fascia elettorale giudicata vicina alla propria compagine di partito.

Per ora non si riscontrano battute ironiche sull’iniziativa, neppure da parte dei cronisti malignazzi in servizio permanente – tipo l’Alessandro De Angelis di Huffington Post – o dell’orchessa mannara Maria Giovanna Maglie, a suo tempo scatenati nel massacro pregiudiziale e protervo del precedente governo, impegnato a promuovere monopattini elettrici a uso urbano. Non per ragioni clientelari, semmai come (generosa e magari ingenua) sperimentazione di nuove soluzioni per la mobilità civica, sostitutive delle ormai troppo ingombranti quattroruote.

D’altro canto questa dei bonus come “aiutino” per gli amici degli amici non è altro che l’ennesima pezza a freddo sul buco colossale che sgonfia le gomme del nostro apparato produttivo, in panne da tempo indeterminato, a fronte dell’acclarata e certificata incapacità del nostro ceto dirigente di elaborare soluzioni sistemiche; nell’oscillazione permanente tra le teatralizzazioni inconcludenti del personale politico e la foga accaparratrice di Confindustria, nella pretesa indimostrata e pretestuosa di saper tradurre le risorse in investimenti. Mentre ogni altra destinazione sarebbe solo dissipazione improduttiva. L’esecrato Sussidistan, destinato a dare sollievo ai tanto disprezzati “poveracci”. Nel lessico di Matteo Renzi, “gli sfigati”.

In effetti è dal primo centro sinistra con Giorgio Ruffolo Segretario Generale della Programmazione Economica – dal 1969 fino al 1975 – che in Italia non si fa più pianificazione strategica; e tantomeno accompagnamento alla competitività (a parte la breve parentesi di sperimentazioni sul campo di Fabrizio Barca, ministro della coesione territoriale nel governo Monti tra il 2011 e il 2013). Nel frattempo l’universo delle nostre imprese praticava la sistematica serrata degli investimenti; ad opera delle terze generazioni delle famiglie d’impresa, che hanno concorso a svendere un Paese asceso con il Miracolo Economico al rango di grande nazione industriale.

Questo ritiro combinato di regolazione e imprenditorialità ha comportato una grave perdita di terreno rispetto agli altri partner europei, che continuavano a promuovere sviluppo ognuno a modo suo. Ma sempre a mezzo di politiche industriali.

La Francia, aggirando le normative di Bruxelles, ha favorito sistematicamente l’affermarsi dei cosiddetti “campioni nazionali” e – comunque – ha messo in campo scelte strategiche di specializzazione competitiva fin dall’immediato secondo dopoguerra, quando scelse di puntare sul settore della mobilità collettiva realizzando una serie di proposte vincenti; che vanno dall’aereo passeggeri per le tratte di media distanza “Caravelle” al treno veloce (TGV), passando per le metropolitane automatizzate arrivando alla partnership europea ma ubicata nell’Esagono dell’Airbus.

La Spagna promuove crescita attraverso le programmazioni strategiche di territorio: la strada scelta per uscire dalla crisi di de-industrializzazione perseguita pioneristicamente da Barcellona, con il suo piano realizzato già negli anni Ottanta. Si trattava di un intervento pianificatorio di taglio politico in cui tutte le risorse urbane – pubbliche o private che fossero – partecipavano alla messa a punto di un action-set di riqualificazione delle vocazioni di territorio, rese operative attraverso adeguati interventi di infrastrutturazione. In questo modo la città catalana è diventata il polo meridionale della logistica europea. Oggi evolutosi nel sistema dei porti mediterranei spagnoli che integrano – con Barcellona – Valencia, Tarragona e Algesiras.

Diversa la strada per la primazia competitiva percorsa dalla Magna Germania, in base agli accordi raggiunti tra le parti sociali (in particolare la IG Metall, il sindacato tedesco dei metalmeccanici, e le associazioni datoriali): concentrare le proprie produzioni nella fascia di alta gamma, offrendo al mercato prodotti di riconosciuta qualità, tale da giustificare quei prezzi necessari per remunerare con salari adeguati maestranze di elevata professionalità. E il resto lo si va a produrre nei paesi alla periferia del sistema industriale; nell’Est europeo.

A fronte di questo florilegio di criteri per il governo democratico dell’economia, noi italiani siamo rimasti ai giochetti. Magari – lo dico con rammarico – all’imbarco di panglossiani liberisti come il Vittorio Colao, chiamato dal premier Conte a coordinare con la sua cassetta degli attrezzi anacronistica e fasulla (fatta di Mani Invisibili e di Laissez Faire) gli Stati Generali indetti a luglio dell’altr’anno; e che non produssero uno straccio di progettualità. Quel Colao oggi richiamato al ruolo ministeriale dal premier Draghi insieme a un manipolo di tecnici di Palazzo; dallo scienziato in carriera Cingolani allo stupefacente Franco Giovannini, sponsor del Ponte sullo stretto di Messina. I cosiddetti “migliori” preposti agli esercizi illusionistici e alla distribuzione di pacchetti dono. Mentre veniva allontanata dai luoghi del governo l’unica economista con specifiche competenze riguardo al ruolo innovativo industriale del soggetto pubblico: Mariana Mazzucato.

Fatto sta che mentre parliamo di competitività, un Paese che a partire dal secondo dopoguerra ha basato sull’export le proprie fortune economiche, occupazionali e sociali, da tempo si è ridotto a puntare tutte le proprie carte sul tris al ribasso rappresentato dalle stranote “3 effe”: food, fashion, furniture; cibo, moda e arredamento. Prodotti a scarsissimo contenuto innovativo e a bassissima soglia di entrata per la riproducibilità da parte dei Paesi di nuova industrializzazione.

Difatti i capi di vestiario italian style ormai vengono imitati sistematicamente nei falansteri del Terzo e Quarto Mondo, come le varie suppellettili.

Ancora più grave la situazione di un presunto vanto nazionale come l’alimentare.

Tanto per dire, mi viene segnalato che nel Policlinico San Martino di Genova, uno dei più grandi ospedali civili d’Europa, ai pazienti viene distribuita a pranzo e cena una busta verdina di grattugiato, simile a quelle del Grana Padano, marchiata “Gran Moravia” e prodotta nella Repubblica Ceca.

Alla faccia delle tambureggianti pubblicità di stampo vagamente sovranista “italiano al cento per cento”; dal latte alle nocciole, dal polletto al riso.



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