Un Capitalismo in scadenza?

La deriva suicida del capitale e i silenzi sospetti degli economisti mainstream. Una riflessione sulla questione, inaggirabile ma rimossa, di “come finirà il Capitalismo”.

Pierfranco Pellizzetti

«Il Capitalismo usa e corrompe. È un
enorme consumatore di energie vitali
di cui non controlla la crescita»[1].
Michel Albert

«Se il Capitalismo è sempre capace di
prosperare, declinare e trasformarsi è
perché si confronta con istituzioni che
lo prendono per la collottola e lo
rimettono in moto»[2].
Paolo Leon

Wolfgang Streeck, Come finirà il Capitalismo – anatomia di un sistema in crisi, Meltemi, Milano 2021
Roberto Petrini, Il declino dell’Italia, Laterza, Roma/Bari 2003

Promesse mancate

Ciò che chiamiamo “Capitalismo” – nel corso dei suoi due, due e mezzo secoli in cui è diventato il cuore pulsante di ciò che chiamiamo “Occidente” – ha conosciuto battute d’arresto anche gravi che definiamo genericamente “crisi”: dalla “grande depressione” del 1873-1896 a quella del ’29-’30 per arrivare al crollo del muro di Wall Street del 2008-2011. Sicché si potrebbe ritenere che l’araba fenice possa rinascere anche questa volta dalla cenere delle catastrofi in cui si consuma la seconda decade del Terzo Millennio. Eppure l’autorevole sociologo Wolfgang Streeck, direttore emerito dell’istituto Max Plank di Colonia, nel suo più recente saggio si dichiara disposto a sostenere che siamo di fronte a una vera e propria Götterdämmerung epocale, «pur essendo consapevole di quante volte il capitalismo sia stato dichiarato morto in passato. Infatti tutti i suoi principali teorici ne hanno predetto la fine imminente, sin da quando il concetto è entrato in uso a metà del 1800. Fra questi includiamo non solo critici radicali come Marx o Polanyi, ma anche teorici borghesi come Weber, Schumpeter, Sombart e Keynes» (W.S. pag.91).

Del resto il fatto che qualcosa non sia ancora accaduto, nonostante le ragionevoli previsioni che lo annunciavano, non comporta necessariamente che non avverrà mai. Soprattutto considerando che discutiamo di un fenomeno storico, entrato in incubazione nell’età di mezzo, insieme al rifiorire urbano e al nascere di un soggetto inaudito (a parte – forse – il brevissimo periodo della popperiana Società Aperta nell’Atene periclea) quale il borghese; convissuto a lungo a fianco della monarchia feudale e poi – come Terzo Stato – con l’Assolutismo, infine diventato egemone grazie alle rivoluzioni del “Lungo Settecento” che portano il suo nome (Inglese del 1689, Americana del 1776, Francese del 1789). Un percorso plurisecolare, da cui l’ordine ad oggi vigente ha derivato quei tratti ibridi sottolineati da Karl Polanyi: «l’obiettivo delle grandi rivoluzioni, inglese e francese, era stato la libertà in campo economico; ma tale opera è rimasta incompiuta. L’impianto feudale del monopolio terriero è sopravvissuto alla rivoluzione […]. È sorto così il capitalismo, come un ibrido tra violenza e libertà»[3].

Un soggetto sfuggente che Streeck – al fine di determinarne lo stato di salute – propone di «definirlo come una società moderna che assicura la sua riproduzione collettiva come effetto collaterale involontario della massimizzazione del profitto individuale nel proseguimento dell’accumulazione di capitale, attraverso un ‘processo lavorativo’ che combina capitale privato e forza lavoro mercificata, adempiendo alla promessa mandevilliana di trasformare vizi privati in benefici pubblici» (W.S. pag.93).

Una promessa che non sembra più in grado di onorare.

La perdita di futuro

Il fatto è che il Capitalismo si regge grazie a risorse non-capitalistiche che consuma senza essere in grado di rimpiazzare. Come ci spiegò Cornelius Castoriadis, «il capitalismo ha potuto funzionare soltanto perché ha ereditato una serie di tipi antropologici che non ha creato e non avrebbe potuto creare: giudici incorruttibili, funzionari usi ad agire weberianamente in conformità a principi universalistici, educatori che si consacrano alla loro vocazione, operai che hanno coscienza professionale». Poi aggiunge: «questi tipi non possono sorgere da soli. Sono stati creati in periodi storici anteriori, con riferimento a valori allora consacrati: l’onestà, il servizio dello Stato, la trasmissione del sapere, il lavoro ben fatto»[4].

Rispetto al trend secolare, Streeck sottolinea l’estrema dissipazione, con relativa perdita di orientamento al futuro, avvenuta nell’ultimo quarto del secolo scorso, con la dichiarazione di divorzio tra Democrazia e Capitalismo. Conseguenza del fatto che, in quel periodo, è stata portata a termine la definitiva messa fuori gioco del principale contrappeso alla deriva suicida del capitale: «dopo aver distrutto nella seconda metà del Ventesimo secolo la manodopera operaia, ora sta attaccando e annientando anche la classe media – in altre parole, la nuova piccola borghesia, che è il vettore stesso dello stile di vita neocapitalista e neoliberale» (W.S. pag.22). E mentre una classe operaia divisa e sconfitta come soggetto politico non incontra più solidarietà e comunità, l’agire economico perde con la democrazia il proprio propulsore. Infatti, in sinergia con il capitalismo di Stato la democrazia funzionava «da motore del progresso economico e sociale, redistribuendo parte dei proventi dell’economia di mercato capitalista verso il basso, attraverso sia i rapporti industriali che la politica sociale, contribuiva all’aumento del tenore di vita della gente comune e forniva quindi legittimità all’economia di mercato capitalista; al contempo, stimolava la crescita economica assicurando un livello sufficiente di domanda aggregata» (W.S. pag.40). Un duplice ruolo essenziale alle politiche welfariane. Ossia quel compromesso keynesiano-fordista senza il quale sarebbe stata impensabile quanto Eric Hobsbawm chiama “l’Età dell’Oro”, i Trenta Gloriosi che corrispondono all’assetto più civile e inclusivo nella storia dell’umanità. A fronte della disponibilità del capitale ad accettare profitti più bassi e politiche distributive, in cambio della stabilità economica e della pace sociale. Per questo le plutocrazie cercarono un’alternativa alla democrazia, che fu trovata in quella strategia di de-nazionalizzazione conosciuta come “globalizzazione”. Dopo l’Età di Keynes arrivò l’ora del suo antagonista storico – Friedrich Hayek – e con lui quelli che Thomàs Piketty definisce i Quaranta Ingloriosi. La cornice ideologica di riconsiderazione della democrazia egualitaria, imperante nel keynesianesimo, giudicata un freno all’efficienza sotto l’odierno hayekianesimo e il dilagare della mercatizzazione dall’economia alla società; coinvolgendo quelle che Polyanyi riteneva “merci fittizie”: “lavoro, terra e moneta”. In altre parole la deregolamentazione dell’occupazione precarizzata, la gara tra l’esaurimento della natura e l’innovazione tecnologica come tattica per guadagnare tempo, la finanziarizzazione quale tendenza a una sempre maggiore disuguaglianza associata alla crescita abnorme del settore bancario e al suo potere di lobbying. E qui Streeck svolge una considerazione che potrebbe riguardarci da vicino: «l’industria finanziaria, là dove il disastro ha avuto origine, ha messo in scena una piena ripresa: profitti, dividendi, stipendi e bonus sono tornati al loro posto, mentre la riregolazione si è impantanata in negoziati internazionali e lobby nazionali. I governi, primo fra tutti quello degli Stati Uniti, si mantengono saldamente nella morsa delle industrie produttrici di denaro. Queste, a loro volta, sono state generosamente rifornite di denaro a basso costo, creato dal nulla per loro conto dagli amici delle banche centrali – tra cui spicca l’ex uomo di Goldman Sachs, Mario Draghi, al timone della BCE –, denaro su cui poi siedono o che investono in debito pubblico. La crescita rimane anemica e così anche i mercati del lavoro; la liquidità senza precedenti non è riuscita a far ripartire l’economia e l’ineguaglianza sta raggiungendo vette sempre più alte» (W.S. pag.81).

Se non un mondo allo stremo, almeno un assetto socio-economico che affonda nel discredito; nella perdita di legittimità. Mentre in Italia abbiamo insediato uno dei suoi proconsoli alla guida del “governo dei Migliori”, con il compito di risanare un Paese depauperato dei valori civici dalla transizione postdemocratica finanziarizzata.

Uno sguardo dall’Italia

Oggi Wolfgang Streeck stigmatizza l’opera della corporazione finanziario-bancaria e delle sue porte girevoli tra mondo accademico, governo e attività speculative; che, se non pratiche corruttive, favoriscono sistematici fenomeni collusivi all’insegna del principio “cane non mangia cane”. Vedi il caso del procuratore generale dell’amministrazione Obama, Eric Holder, in congedo temporaneo da uno studio legale di Wall Street specializzato nel rappresentare società finanziarie. «Sotto Holder nessun banchiere è dovuto andare in tribunale per non dire in prigione. Naturalmente, il presidente Obama, che ha nominato Holder, ha ricevuto più di un terzo dei contributi della sua campagna dall’industria finanziaria» (W.S. pag.56). Più di dieci anni fa un valoroso giornalista economico italiano – Roberto Petrini – segnalava i silenzi sospetti e le palesi condiscendenze di un’altra corporazione, subalterna quanto funzionale ai signori del denaro: quella degli economisti mainstream. In una persino impietosa raccolta di sfondoni degli appartenenti alla sezione italiota della categoria, poche settimane prima del fatidico 2008; con il crollo del muro di Wall Street che fece rumore almeno quanto quello di Berlino 1989. Disse Alberto Alesina: «quella in atto è una correzione come ce ne sono state tante altre. No, non vedo in arrivo lo scoppio di una bolla». Gli fece eco il compare Francesco Giavazzi: «la crisi del mercato ipotecario americano è seria ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generale»[5].

Del resto Petrini già due decadi fa aveva colto sul campo buona parte dei processi di deterioramento degli equilibri post keynesiani su cui oggi Streeck basa le sue brillanti teorizzazioni sociologiche. Segnali deboli dal laboratorio micro e periferico italiano, che vent’anni dopo si sarebbero trasformati in un immenso uragano di diseguaglianze e precarizzazioni. Avvertiti con grande anticipo nel Belpaese che non c’è più, visto che «la globalizzazione, con la caduta di dazi e frontiere, ci ha lasciati a competere a mani nude con Paesi lontani e assai aggressivi» (R.P. pag.V). Quell’Italia in cui già allora la disuguaglianza era maggiore che in Europa e addirittura superiore a quella degli Stati Uniti: «il 10 per cento più povero degli italiani ha visto scendere la propria percentuale di reddito familiare dal 2,7 per cento del 1991 al 2,1 del 2000, nello stesso arco temporale, il 10 per cento degli italiani più ricchi ha aumentato la propria fetta di torta dal 23,8 al 26,6 per cento» (R.P. pag.45). Mentre iniziava a manifestarsi l’attacco al posto di lavoro fisso e normato. Scriveva il giornalista di Repubblica, amaramente lungimirante: «li chiamano co.co.co. Sono 2 milioni e 400mila i cosiddetti lavoratori parasubordinati. Forse l’espressione migliore dell’incertezza e della confusione che segna il nostro mercato del lavoro» (R.P. pag.73). Il tutto come lettura in grande anticipo del cronista di razza dei fenomeni che avrebbero determinato la svolta epocale. Tanto da formulare l’identica domanda che ora – vent’anni dopo – si pone Streeck: «quali meccanismi si sono messi in moto nella nostra società? Chi alimenterà i consumi di massa quando la classe media che ha sorretto l’Italia dal dopoguerra a oggi sarà piombata nell’incertezza e sarà costretta a tirare la cinghia?» (R.P. pag.44).

Purtroppo il destino dei meglio esploratori del cambiamento è quello della vox clamans in deserto. E a questo non si sottrae Roberto Petrini, come tutti quelli che vennero tacciati di essere sirene del malaugurio; quelli che denunciavano l’avvento di “un medioevo prossimo venturo” mentre procedeva lo sbaraccamento dello Stato Sociale di Keynes, dimostratosi capace di integrare il neurovegetativo del mercato con il sistema nervoso della politica economica, e si imponeva a forza di colpi di mano la Società Libera di Hayek, all’insegna dell’assiomatica dell’interesse. E in quegli stessi anni Giorgio Ruffolo formulava la tesi su cui ora riflette Streeck (e noi con lui): «l’economia dell’equilibrio, che noi ipotizziamo, non sappiamo fino a che punto possa essere compatibile con una forma squilibrante come quella capitalistica. Certo si tratterebbe di una forma di capitalismo che non abbiamo ancora conosciuto»[6].

Tanto da rendere addirittura impellente che l’intelligenza collettiva incominci a riflettere sulla questione inaggirabile (ad oggi rimossa) di “come finirà il Capitalismo”.

NOTE

[1] M. Albert, Capitalismo contro Capitalismo, il Mulino, Bologna 1993 pag.118

[2] P. Leon, IL Capitalismo e lo Stato, Castelvecchi, Roma 2014 pag.45

[3] K. Polanyi, Per un nuovo Occidente, il Saggiatore, Milano 2013 pag.215

[4] C, Castoriadis, Les carrefours du labyrinthe, Seuil, Parigi 1996 pag.68

[5] R. Petrini, Processo agli economisti, Chiarelettere, Milano 2009 pag.34

[6] G, Ruffolo, Il futuro dell’economia, (a cura di M. Pirani) Mondadori, Milano 1993 pag.219



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