Un colabrodo chiamato Unione Europea

Francia e Italia non sono i soli Paesi a litigare in Europa. Fra la Germania in recessione, le diverse idee sul gas e Fiscal Compact e gli scontri tra Macron e Scholz, l'Unione Europa non è mai stata così spaccata.

Enrico Grazzini

Quando al Parlamento Europeo Charles Michel, presidente del Consiglio Europeo e rappresentante della politica estera dell’Unione Europea, ha affermato che la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen non doveva “prendere a calci le lattine per strada” ovvero non doveva perdere ancora altro tempo sulle questioni dell’energia e del gas, von der Leyen di fronte a tutti platealmente si è alzata e se ne è andata. Un fatto senza precedenti nella storia della UE. Non è stato l’unico scontro tra il belga Michel e la tedesca von der Leyen. In Turchia Michel si sedette di fianco del despota Erdogan lasciando in piedi von der Leyen. Il problema non è solo di sessismo e di lotta personale e di potere tra Michel – capo del Consiglio UE (l’organo decisionale che vede riuniti i capi di stato e di governo della UE) – e von der Leyen, capo della Commissione che conta come Commissari i 27 rappresentanti degli altrettanti paesi UE e che nominalmente dovrebbe dirigere la UE. La rottura è soprattutto sui contenuti. Michel, seguendo la linea franco-italiana, ha sollecitato von der Leyen ad avanzare proposte sul price cap dinamico del gas e una piattaforma comune europea per gli acquisti. Von der Leyen però è contro il price cap sul gas, proprio come il governo tedesco. La lotta continua.

I problemi tra i due rivelano spaccature profonde e radicali: Francia e Germania sono ai ferri corti su ognuno dei tre maggiori problemi dell’Europa: energia, Ucraina e difesa, debito e sviluppo. La diarchia che regge l’Europa si è spezzata. Anche sul nuovo Fiscal Compact, come vedremo, sarà difficile trovare un accordo. La Francia di Emmanuel Macron va da una parte e la Germania del contraddittorio governo tricolore (socialisti, verdi e liberali) va dall’altra, e sembra addirittura prendere le distanze dalla UE.

Per la prima volta in un articolo del Corriere della Sera l’ex direttore Ferruccio de Bortoli e l’economista Andrea Monticini dell’Università Cattolica prospettano la rottura dell’euro da parte della Germania, anche se in chiave dichiaratamente ipotetica e “fantascientifica”. Il loro ragionamento è questo: l’inflazione è molto più bassa in Francia che in Germania poiché la Germania prende energia dalle centrali nucleari mentre la Germania dipende dal gas russo, che manca. Quindi i costi dell’energia sono più bassi in Francia che in Germania. Così in Germania l’inflazione è all’11,1%, mentre in Francia è aumentata solo del 6,4%. È chiaro che se continuasse così l’industria francese diventerebbe molto più concorrenziale di quella tedesca e allora ci sarebbero forti squilibri nella bilancia dei pagamenti. Per recuperare competitività alla Germania in futuro potrebbe convenire uscire dall’euro e svalutare. Per i due articolisti la soluzione ai problemi dell’asimmetria inflazionistica sarebbe l’unione fiscale europea, ma ambedue sanno che è un esito quasi impossibile perché la Germania non ha mai voluto unioni e trasferimenti fiscali. E persegue ostinatamente l’austerità.

L’Europa è in stallo completo anche perché l’economia tedesca sta attraversando una crisi esistenziale gravissima. L’economia della Germania è alla “canna del gas” per via delle sanzioni alla Russia di Putin e del blocco energetico e perché la strada dell’export mercantilistico le è preclusa. L’unica cosa che recentemente ha unito Macron e il premier tedesco Olaf Scholz è la condanna alla politica protezionistica del Presidente americano Joe Biden che proclama il Buy American (compra americano) e sovvenziona la reindustrializzazione dell’America con soldi pubblici. Il protezionismo avanza. Così Scholz si è precipitato in Cina ed è stato il primo leader occidentale a vedere Xi Jinping dopo il Congresso del PCC. Ma anche il mercato cinese si sta restringendo per via del confronto geopolitico tra USA e Cina e del fatto che l’economia cinese sta diventando altrettanto competitiva e avanzata di quella tedesca.

La Germania dovrebbe allora cercare di puntare sul mercato interno e su più consumi, più investimenti e più spesa pubblica. Ma Christian Lindner, l’arcigno ministro liberale dell’economia, va in direzione opposta e vuole il pareggio di bilancio già a partire dall’anno prossimo, anche a costo di truccare i conti, come lo accusa di fare la Corte dei Conti tedesca. Punta al pareggio anche a costo di suicidare l’economia. Per la prima volta la Germania – da molti anni leader mondiale dell’export – ha conosciuto quest’anno il deficit commerciale. Così la Germania si avvia verso la recessione, trascinando dietro di sé la UE e l’eurozona.

Se si aggiunge che il governo Scholz ha promosso il sistema di difesa missilistico di progettazione americano-israeliana contro il progetto franco-italiano e che blocca una efficace politica comune europea sull’energia, si comprende bene che la politica UE è completamente paralizzata. La Germania si sta armando da sola senza la Francia e in compagnia degli USA. Mentre in Europa i paesi sono in competizione tra loro per le forniture di gas e a livello geopolitico e l’inflazione resta alta intorno al 10% anno su anno. La Banca Centrale Europea della francese Christine Lagarde è obbligata a seguire la FED e non solo alza i tassi contro l’inflazione e comprime il credito ma prevede anche di attuare una nuova politica di restrizione monetaria (Quantitative Tightening). La stagflazione (inflazione + recessione) è quindi alle porte. Nouriel Roubini (uno dei rarissimi buoni economisti di fama usciti dalla università Bocconi di Milano), noto per avere previsto la crisi dei subprime, non è più solo questa volta a prevedere un disastro economico. Tutti i paesi stanno tirando la cinghia, nessuno rilancia l’economia e il commercio mondiale frena. Prima era la Cina la locomativa del mondo ma ora anche il Dragone è quasi fermo.

Il Nuovo Fiscal Compact e la BCE che “salverà” gli Stati al posto del MES
Nel frattempo, il 9 novembre, la Commissione UE ha fatto uscire il suo nuovo progetto per sostituire il vecchio Fiscal Compact, il famigerato piano europeo che obbligava tutti gli Stati ad arrivare entro 20 anni a un rapporto debito su PIL del 60%. Considerando che ormai questo rapporto nei paesi europei è cresciuto in media al 90% e oltre, e che il vecchio Fiscal Compact è diventato del tutto ineseguibile, la Commissione ne ha escogitato uno nuovo. Il nuovo è nel segno della continuità con il precedente ma comporta una maggiore flessibilità (anche perché altrimenti l’euro si spaccherebbe subito). Il quadro dell’austerità imposto dal Trattato ultraliberista di Maastricht resta tuttavia intatto: tutta l’attenzione è rivolta a limitare la spesa pubblica, il debito pubblico e il deficit, che non può superare il 3% annuo. Nella nuova proposta di governance economica non viene fatto cenno né alla possibilità di politiche industriali europee né al problema del debito privato (all’incirca doppio rispetto a quello pubblico) né a riforme sulle regole della finanza privata – che è sempre stata quella che provoca le crisi – e dei mercati finanziari. Tutte le proposte sono mirate solo a vincolare la spesa statale, anche se retoricamente si invocano più investimenti pubblici.

La Commissione UE, come una sorta di Gosplan Europeo, controllerà in maniera centralizzata e costante i bilanci e le politiche fiscali nazionali. La Commissione vigilerà soprattutto sui Paesi a debito più alto come l’Italia e la Grecia con l’obiettivo che nel giro di quattro, o in alcuni casi sette, anni diminuisca il rapporto debito/PIL e che il deficit annuale non sia superiore al 3%. Il parametro chiave su cui la Commissione vigilerà costantemente è il saldo primario di bilancio pubblico: le spese di Stato dovranno essere sempre inferiori alle entrate fiscali al netto degli interessi da pagare ai mercati. In pratica i cittadini dovranno continuare a pagare più tasse di quanto lo Stato spende per i servizi pubblici e il surplus fiscale servirà a pagare gli interessi e il debito ai mercati. Chi sgarra subirà sanzioni e “danni reputazionali”. Ricordiamo tuttavia che né il Consiglio UE né la Commissione né tanto meno la BCE sono organi eletti e sottoposti a controllo democratico. Gli europei sono diretti da organi intergovernativi senza democrazia. Il debito pubblico dovrà diminuire ma l’assurdità è che il debito rischia comunque di aumentare se il PIL non cresce grazie a politiche espansive di deficit sostenute dalla BCE. In pratica a decidere veramente sui bilanci pubblici saranno sempre i “liberi mercati”.

La BCE ha tuttavia già previsto che i “liberi mercati” faranno deragliare gli Stati che hanno un debito pubblico elevato come l’Italia, e quindi ha recentemente elaborato un nuovo strumento di salvataggio che è la vera grande novità dell’eurozona: il Transmission Protection Instrument (TPI). Grazie al nuovo TPI la BCE in deroga al Trattato di Maastricht potrà intervenire per salvare gli stati dagli attacchi speculativi comprando in via eccezionale e temporanea i loro titoli di debito sui mercati. In cambio gli Stati che chiederanno aiuto alla BCE dovranno attuare tutti i programmi di “riforme strutturali” dettati dalla Commissione UE. In pratica, in caso di crisi, i governi non saranno più “commissariati” dal famigerato MES, il Fondo Salva Stati, e dalla Troika come avvenne in Grecia, ma direttamente dalla Commissione UE e dalla BCE.

L’Eurosistema, cioè la BCE e le banche centrali nazionali, hanno già in bilancio più di un terzo dei debiti degli Stati dell’euro. L’Italia e gli altri paesi molto indebitati sono quindi già nelle mani della BCE, oltre che dei mercati e dell’alta finanza che ha un solo interesse: guadagnare il più possibile dai debiti dell’eurozona. A questo punto i governi nazionali – incluso quello di Meloni – hanno poca scelta: o ubbidire ai mercati e applicare l’austerità all’economia, provocando recessione, o essere commissariati dalla BCE e dalla UE e subire comunque crisi spaventose. Quindi la scelta è la crisi da una parte o la crisi dall’altra.

Le politiche alternative però esisterebbero: per esempio la cancellazione senza costi per nessuno dei debiti europei in pancia alla BCE, come hanno chiesto Thomas Piketty e altri 150 economisti francesi, italiani e europei; ma le proposte di Piketty e delle forze progressiste non vengono ascoltate perché la UE e la BCE sono impermeabili alla democrazia. L’altra possibilità è che i singoli governi nazionali per uscire dalla crisi emettano in piena autonomia dalla UE dei Titoli Fiscali quasi-moneta denominati in euro che avrebbero il vantaggio di non aumentare il debito pubblico e di essere perfettamente compatibili con le regole dell’eurozona e della BCE.



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