Un fallimentare 9 maggio per Putin e una grande “Giornata dell’Europa” per Zelensky

A Mosca si celebra una triste “giornata della vittoria”, mentre Kiev guarda con fiducia al futuro di un’Ucraina in Europa.

Maurizio Delli Santi

A Mosca il tono dimesso delle commemorazioni del 9 maggio ha evidenziato la crisi interna, mentre Zelensky guarda con fiducia al futuro di un’Ucraina in Europa. È un primo segnale della legge del contrappasso: mentre un leader che combatte per la libertà del suo popolo è accolto in amicizia in Europa, un autocrate si deve guardare dai suoi soci e non può lasciare il suo Paese perché inseguito dalla Corte penale internazionale.
Anche le immagini delle cerimonie e degli incontri diplomatici hanno marcato le differenze e il mutamento degli scenari.  A Mosca, il tono dimesso delle celebrazioni del 9 Maggio per commemorare la Giornata della Vittoria nel 78° Anniversario della “Grande guerra patriottica” hanno segnato il momento  più basso di credibilità di un autocrate: ha portato un’altra guerra alle porte dell’Europa e ora si trova nelle evidenti difficoltà di reggere l’annunciata controffensiva. Putin non ha potuto schierare i reparti imponenti delle precedenti parate perché gli ultranazionalisti e lo stato maggiore gli hanno fatto presente che sarebbe stato rischioso sguarnire il fronte. Il capo della Wagner Prigozhin, che ha accusato esplicitamente i vertici militari di aver causato una carneficina di soldati russi, ha pure lanciato l’ultimo proclama: «Il Giorno della Vittoria è dei nostri nonni, noi non abbiamo meritato un singolo millimetro di questa vittoria». Pure per l’ultimo attacco di droni sui cieli del Cremlino – peraltro piuttosto controverso sulla effettiva matrice ucraina – la cerimonia è stata ridotta, e si è dovuto rinunciare alla sfilata del Reggimento degli Immortali, posto che le famiglie russe piangono oggi oltre 200mila vittime tra soldati rimasti uccisi o feriti nel corso della insulsa “operazione militare speciale” intrapresa il 22 febbraio 2022.

Il quadro dell’isolamento internazionale più cupo è poi tratteggiato dall’immagine della tribuna d’onore. In disparte, e ben lontani dalle prime file, si trovavano i personaggi discussi come il Ministro della Difesa Shoigu e il guerrafondaio Vicepresidente del Consiglio di sicurezza Medvedev. Putin è apparso contornato dal presidente della succube Bielorussia Lukashenko e dai rappresentanti della Comunità degli Stati Indipendenti, ovvero di quello che resta della ex Unione sovietica: gli incerti presidenti delle nazioni caucasiche Kazakistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Armenia, che però guardano con più attenzione alla Cina, l’altra loro potenza protettrice oggi certamente più affidabile, dove nei giorni successivi si sono recati in visita. Non sono certo comparsi i leader di nazioni “amiche” che pure non hanno applicato le sanzioni contro l’aggressione della Russia o si sono astenuti nelle Risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite, come appunto Cina, India, Turchia, Sudafrica e Brasile.  Anche il discorso di Putin non ha suscitato entusiasmi, anche perché ora ha parlato esplicitamente di “guerra”, seppure riprendendo il criterio della mistificazione e del ribaltamento della realtà: la colpa è dell’Occidente che ha «scatenato una vera guerra contro la nostra Patria», e delle sue «élite globaliste» che «dividono le società, provocano conflitti sanguinari, seminano russo-fobia e nazionalismi, distruggono i valori tradizionali».

Di tutt’altro tenore è stata invece l’ultima prospettiva offerta a Kiev, dove la figura di uno Zelensky certamente provato dalla guerra non ha tradito la statura del ruolo emerso in maniera netta già all’esordio del conflitto. Con una brigata aerotrasportata russa alle porte di Kiev, gli sarebbe stato più comodo un esilio dorato protetto dagli Stati Uniti lasciando combattere il popolo. Ma alla insistenza degli americani pronti a esfiltrarlo non ha esitato a rispondere: «Non mi serve un passaggio, mi servono armi». Proprio in contraltare al 9 maggio di Mosca, Zelensky ha scelto di celebrare la “Giornata dell’Europa” incontrando di fronte al muro dei caduti di Kiev la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. La scelta è stata di elevato valore simbolico per ricordare che se l’Ucraina combatte per respingere un’aggressione contraria al diritto internazionale oggi lo fa anche per la libertà dell’Europa. Ma ha avuto anche un significato concreto per affermare un ulteriore avvicinamento nel processo di adesione all’Unione Europea, quella condizione tanto attesa dagli ucraini che lo avevano inserito persino nei fondamenti della nuova Costituzione e che se fosse stata già realizzata probabilmente avrebbe salvato l’Ucraina dall’invasione. Von der Leyen in un abbraccio emblematico con Zelensky ha confermato che il sostegno a Kiev continuerà «per tutto il tempo necessario», e si è congratulata con le riforme apportate dall’Ucraina per aderire ai criteri della Commissione di Venezia che le consentiranno di riconoscersi a pieno titolo come Stato di diritto, e quindi sarà idonea a far parte della grande famiglia europea.

Zelensky non si è peraltro fermato all’iniziativa del 9 maggio. Il 13 maggio si è recato a Roma per incontrare il Presidente della Repubblica Mattarella, la premier Meloni e quindi il pontefice Papa Francesco. I resoconti delle agenzie parlano di dichiarazioni nette e senza ambiguità del Presidente Mattarella che si è rivolto a Zelensky rimarcando: «È un onore averla a Roma». E ha aggiunto: «Noi siamo perfettamente al vostro fianco. Confermo il pieno sostegno dell’Italia sul piano degli aiuti militari, finanziari, umanitari e della ricostruzione». Nessuna incertezza dunque sul fatto che vada ricercata «una pace vera, non una resa», posto che «sono in gioco non solo l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Ucraina, ma anche la libertà dei popoli e l’ordine internazionale».
Il presidente ucraino ha poi evidenziato il rapporto di fiducia che gli è stato manifestato in più occasioni dalla presidente del Consiglio Meloni, e anche qui i resoconti hanno documentato un incontro confidenziale e un rapporto di stima, tanto che Zelensky ha parlato con i giornalisti dell’ampia intesa «con Giorgia».  Zelensky ha ringraziato l’Italia «per aver dato rifugio ai nostri cittadini», per il sostegno militare e per le scelte compiute per diventare «più indipendente dalla Russia dal punto di vista energetico». E ha rimarcato di aver concordato con la presidente Meloni un impegno comune per coinvolgere le aziende italiane nella ricostruzione dell’Ucraina. Probabilmente il leader ucraino è ben consapevole che questo tasto potrebbe interessare specie quei meandri della compagine governativa legata ai distretti industriali che esportavano in Russia, che ora potrebbero mirare alla prospettiva di investire in una Ucraina da ricostruire. Ma Zelensky sa bene che anche per altri contesti specie dell’opposizione, come in verità in altre parti dell’Europa, rimane il rischio che con il tempo il sostegno all’Ucraina possa venire meno. Anche per questo, sebbene non abbia voluto parlarne espressamente, Zelensky non ha smentito che Kiev si sta realmente muovendo per lanciare una controffensiva che gli analisti militari ritengono possa essere decisiva per riconquistare i territori perduti.
Quanto all’incontro con papa Francesco, i commenti si sono soffermati sul passaggio di una frase meno diplomatica pronunciata da Zelensky: «Non servono mediatori, ma un piano di azioni per una pace giusta». In questo campo è difficile ipotizzare l’effettivo contesto in cui si sono svolti i colloqui con il pontefice. Certamente questi avranno avuto un risvolto umanitario data la cifra con cui più volte su questo tema si è speso papa Francesco. Ma è evidente che in questo momento, dopo le vicende dei massacri di civili a Bucha e in tante altre città dell’Ucraina e il dramma delle deportazioni di 20mila minori, sullo scenario di eventuali mediazioni per la pace Zelensky ha voluto dare un segnale forte di non sentirsi affatto indebolito e di essere pronto alla controffensiva non appena riceverà gli ultimi nuovi armamenti. In altri termini, ancora una volta ha voluto rimarcare che non è disposto ad accettare alcuna condizione che in nome della pace si possa rilevare un ulteriore tradimento per l’aspirazione all’integrità territoriale della Nazione e alla identità del suo popolo.

Il circuito delle visite internazionali di Zelensky è dunque proseguito in Germania, e anche qui l’accoglienza di uno dei principali paesi dell’Europa democratica è stata calorosa. Ad Aquisgrana il premio Carlo Magno intitolato al primo fautore dell’Europa unita è stato assegnato a Zelensky e al popolo ucraino, e il cancelliere Scholz ha ricordato che «l’Ucraina ha fatto la sua scelta: l’Europa». Il presidente ucraino ha quindi ringraziato per gli ultimi aiuti militari annunciati per 2,7 miliardi di euro: «Ringrazio la Germania per il più grande pacchetto di aiuti militari dall’inizio dell’invasione russa. La Germania è un alleato affidabile. Insieme stiamo avvicinando la pace». Sulla stessa scia ora proseguono gli incontri a Parigi e Londra, e forse anche in altre capitali dell’Europa.
Tutto questo non è ancora un segnale di vittoria, ma dà certamente un primo senso alla legge del contrappasso di dantesca memoria: da una parte c’è un leader che è accolto in amicizia in Europa, dall’altro un autocrate si deve guardare dai suoi accoliti più vicini e non può lasciare il suo Paese, perché è persino inseguito da un mandato d’arresto per crimini di guerra della Corte penale internazionale.

di Maurizio Delli Santi (membro dell’ International Law Association)

Foto Flickr | European Parliament



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