Un film da rivedere nella Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili

L’ultraottantenne regista senegalese Sembene Ousmane con questo film, non solo denuncia la barbara pratica delle escissioni ai genitali femminili, ma mette a nudo le responsabilità di un potere patriarcale edificato e retto sulla totale sottomissione delle donne.

Maria Mantello

L’ultraottantenne regista senegalese Sembene Ousmane con questo film, non solo denuncia la barbara pratica delle escissioni ai genitali femminili, ma mette a nudo le responsabilità di un potere patriarcale edificato e retto sulla totale sottomissione delle donne.

Queste, in età prepuberale vengono “portate nel bosco” e mutilate nei genitali, perché non sappiano mai cosa sia il piacere sessuale e divengano docili strumenti di riproduzione e di lavoro in famiglie dove è uso che l’uomo possa possedere più mogli.

E tuttavia sono proprio le donne a praticare su altre donne queste escissioni. Sono loro a volerle per le figlie. Perché una ragazza non escissa è “Bilakoro” e nessuno la vorrà sposare. E questo è insopportabile per il villaggio, dove il matrimonio è la sola prospettiva sociale concessa alle donne.

In questo villaggio africano vive Collé Ardo (interpretata dalla bravissima Fatoumata Coulibaly), una donna allegra e serena, forte e determinata. Collé dà rifugio a quattro bimbe riuscite a fuggire dal “taglio” delle mammane (le Salindane). Le piccole, con ancora indosso gli abiti sacrificali sono sfuggite al rito ed ora si gettano ai piedi di Collé per chiedere Moolaadé (protezione dal pericolo). Sanno che è la persona giusta a cui rivolgersi, perché sette anni prima non ha voluto che la figlia fosse escissa. Collé stessa, come del resto le altre donne del villaggio, è stata infibulata.

Per lei ogni rapporto sessuale è solo dolore. Due figli le sono morti di parto. E quell’unica figlia che ha avuto è nata col cesareo. Al varco del cortile familiare dove è la sua capanna e quelle delle altre due mogli, Collé ha steso il coloratissimo cordone, simbolo del Moolaadé: le bambine sono state protette dal pericolo e lì hanno avuto asilo. Nessuno può violare quel cordone, che è l’anima antichissima del villaggio nella sua stessa memoria costitutiva. Ne è la forza aggregativa ancestrale: superiore ad ogni re, a ogni dettato coranico dei capi.

Davanti a quel cordone arretrano sia le Salindane, sia i Dignitari. Di bocca in bocca veicolano adesso i racconti mitici dei terribili castighi abbattutisi sul villaggio quando il Moolaadé non è stato rispettato. I maschi si interrogano sul da farsi. Ed intanto, grazie alla forza di Collé, il suo Moolaadé diviene una speranza per tutte le donne. La loro ribellione comincia ormai a serpeggiare.

La stessa “moglie anziana” della famiglia della coraggiosa donna è dalla sua parte. Vogliono che “la ribelle” sia sottomessa. Collè è allora frustata a sangue pubblicamente dal marito. Ma non cede. E quella ennesima violenza, che «ogni donna sente sulla propria carne» fa crescere la solidarietà nei suoi confronti.

In una bellissima scena corale, al chiarore della luna piena, come risvegliate dal torpore. Vuoi per la violenza su Collé. Vuoi perché sono state sequestrate loro le radio: «aprono il cervello» e sono bruciate dai maschi in un gran falò. Vuoi per lo sdegno causato dall’uccisione del “mercenario” (“giustiziato” dai maschi del villaggio perché ha fermato la mano che flagellava Collé). Vuoi per l’ennesima morte di una bambina dopo l’escissione… O per tutto questo insieme. Il grido delle donne si fa univoco: «Nessuna nostra figlia sarà più tagliata». È più di un giuramento. È una rivoluzione dal basso. E con essa inizia ad incrinarsi anche il fronte maschile. Il figlio del maggior dignitario vuole sposare una Bilakoro, la figlia di Collè. «Il matrimonio è affar mio!». Il giogo dei matrimoni combinati si incrina.

Ma anche il marito di Collé, finalmente, rifiuta l’ipocrita gabbia dell’onorabilità maschilista. Non è più disposto a seguire gli ordini del fratello maggiore e dei capi del villaggio. «Ora Basta. Collè non è più una bambina», grida al fratello e ai capi tribù che pretenderebbero punizioni ancora più dure per la moglie.

Il vento della Libertà ormai si è alzato. Nel villaggio le donne l’hanno avuta vinta. Sono state incendiate le radio, ma non le loro voci. Il film si chiude con un auspicio e una speranza. Un’apertura al mondo, rappresentata da un’antenna televisiva che sovrasta la moschea.

 

 

Mutilazioni genitali femminili

Le “escissioni” a cui sono costrette le bambine in tante parti del mondo, consistono prevalentemente nella clitoridectomia: l’asportazione totale o parziale della clitoride. Un intervento accompagnato solitamente anche dal taglio delle piccole labbra. Ma la pratica della mutilazione raggiunge tutta la sua crudeltà nei casi di infibulazione, quando alle mutilazioni precedenti si aggiunge il raschiamento delle grandi labbra, che tenute unite (anche mediante cucitura) si cicratizzeranno occludendo completamente la vagina. Solo un piccolo orifizio consentirà il deflusso delle urine e del mestruo. Le conseguenze di tali mulilazioni sono devastanti. A cominciare dalle infezioni ad esse connesse (Hiv compreso) per i mezzi rudimentali e le scarsissime condizioni igieniche. I danni fisici e psichici sono inenarrabili per queste donne, che private con l’escissione di fondamenti biologici della loro stessa femminilità sono ridotte a “fattrici”.

Secondo i rapporti delle Nazioni Unite, sono 120 milioni le donne nel mondo che hanno subito l’escissione. Ad esse, ogni anno vanno aggiunte circa altre due milioni di bambine. Un fenomeno drammatico, che dall’Africa (dove si registra la maggioranza di queste mutilazioni), dalla penisola Arabica, dall’Indonesia sta arrivando anche in Europa, America, Oceania a seguito dei flussi migratori.

In Italia la legge che vieta simili pratiche è stata approvata il 22 dicembre del 2005

 

 



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