Un volgo disperso

Una rilettura di “Democrazia e socialismo nel Risorgimento” di Franco Della Peruta (1965) e “Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento” di Adriano Prosperi (2019).

Paolo Favilli

Franco Della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Roma, Editori Riunti, 1965
Adriano Prosperi, Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento, Torino, Einaudi, 2019

Due libri i cui temi e problemi possono essere proficuamente oggetto di una lettura incrociata, e che nello stesso tempo sono separati da un lasso temporale di qualche decennio. Un lasso temporale più ampio di quello suggerito dalla data di edizione dei volumi. Gli studi di Della Peruta a cui farò riferimento, infatti, risalgono agli inizi degli anni Cinquanta, (uno addirittura al 1948[1]) pubblicati prima in rivista, e raccolti poi, insieme ad altri contributi, nel volume del 1965.

I saggi ch’egli scrive in quegli anni sono componenti di quel profondo mutamento intervenuto nei giovani, spesso giovanissimi, studiosi del dopoguerra relativamente al modo di analizzare i rapporti tra politica, economia e «aspetti sociali». L’impegno per decodificare tutti i segnali che provengono dal «gorgoglio delle viscere vuote» dei ceti subalterni, diventa il punto di partenza della loro analisi storica. Il recente libro di Adriano Prosperi (già due edizioni: 2019 e 2021) porta un contributo assai importante per la comprensione dell’ampia gamma di significati che possono cogliersi da quel «gorgoglio», se lo sappiamo ascoltare davvero.

Che non ci sarebbero stati storici capaci di avere un «orecchio talmente fine» da udire il «gorgoglio delle viscere vuote», lo afferma con decisione l’abate Vella, protagonista di uno dei romanzi di più asciutta e alta tragicità di Leonardo Sciascia: Il consiglio d’Egitto, romanzo che ripercorre con fedeltà una vicenda realmente accaduta.

La vicenda vide protagonista, tra il 1782 ed il 1795, il cappellano (poi abate) Giuseppe Vella che, tramite la costruzione di falsi codici arabi relativi alla storia di Sicilia (araba e normanna), inserisce, nel clima riformatore promosso dal viceré Domenico Caracciolo, motivazioni favorevoli alle ragioni antifeudali della monarchia.

Non è questa la sede per discutere l’importanza dei falsi storici per la migliore comprensione dei contesti in cui vedono la luce[2], interessa invece riflettere sulle parole che Sciascia fa pronunciare all’avventuriero Vella mentre, intento alla falsificazione dei codici, gli si pone il problema della sacralità delle fonti.

Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quest’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno …. La storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie! Se ogni foglia scrivesse la sua storia, e se quest’albero scrivesse la sua, allora diremmo: eh sì la storia… Vostro nonno ha scritto la sua storia? e Vostro padre? e il mio? E i nostri avoli e trisavoli?… Sono discesi a marcire nella terra né più né meno che come foglie, senza lasciare storia. C’è ancora l’albero, sì, ci siamo noi come foglie nuove… La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fine da sentirlo?[3]

L’abate Vella, anche se non ne ha consapevolezza, coglie bene il rapporto tra esistenza di un sapere storico e la possibilità/capacita di ascoltare il «gorgoglio delle viscere vuote». La storia è un’impostura, la storia non esiste se…

Quando noi leggiamo gli studi di Franco Della Peruta sul mondo dei subalterni, operai e soprattutto contadini, cogliamo immediatamente, invece, la finezza d’udito negata agli storici dall’abate Vella. Finezza dell’udito coniugata, non a caso, con la capacità di costruire aperti sistemi di relazione tra il «broeud», la «pappascianscia»[4] di cui si nutre il contadino lombardo, cioè le condizioni materiali, e le forme possibili di soggettività delle foglie che cadono ininterrottamente dall’albero.

Il grado di estensione legato alle capacità della «finezza dell’udito» degli studiosi è certamente un aspetto della loro intelligenza storica, che, com’è ben noto, non è presente in maniera omogenea nemmeno tra i professionisti della disciplina. Della Peruta e Prosperi, che pure di tale grado di estensione hanno avuto dono più che ragguardevole, lo hanno reso strumento particolarmente efficace tramite esercizio e affinamento continuo degli attrezzi del «mestiere», in tutta la nobiltà con cui Marc Bloch usava la parola.

Tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta, per la generazione di giovani studiosi di cui faceva parte Della Peruta, ciò significava provarsi a utilizzare la cassetta degli strumenti di quello che veniva comunemente chiamato «materialismo storico». Compito tutt’altro che facile sia perché la loro conoscenza dei testi relativi alla questione teorico-metodologica era ancora piuttosto lacunosa, sia per le molte determinazioni connesse a un’espressione, peraltro, non marxiana. Ciononostante i risultati dei lavori sul campo furono, quasi sempre, innovativi e portatori di modelli conoscitivi originali. Tali lavori, infatti, si svolsero sulla base di un assunto tipicamente marxiano: «la logica specifica dell’oggetto specifico»[5]. Non tutti i protagonisti di quella stagione avevano coscienza di questo specifico riferimento, ma ne praticavano la logica nell’analisi empirica dell’oggetto di studio.

Alcuni anni dopo Pierre Vilar, uno storico marxista che pure faceva programmaticamente uso di modelli ad alta intensità teorica per esprimere la logica di funzionamento dei meccanismi che legano la dinamica delle strutture, metteva contemporaneamente l’accento sulla necessità, l’indispensabilità della ricerca empirica, fattuale, minuta, densa, senza la quale nessun modello teorico «marxista» poteva conservare capacità esplicative. «Ciò sia detto per i marxisti frettolosi – scriveva – che, mentre disdegnano superbamente l’“empirismo” delle ricerche storiche, basano le loro analisi (lunghe) su un sapere storico (corto)… Accade al contrario che Marx scriva venti pagine senza allusioni storiche a coronamento di venti anni di vera ricerca storica. Ma bisogna rendersene conto, e per questo essere storici»[6].

Per rimanere nell’ambito della conoscenza del mondo contadino, la costruzione di un modello di spiegazione della relazione tra tecniche produttive e rapporti di proprietà era certamente possibile. Carlo Poni, ad esempio, ha mostrato come si possa «trovare un rapporto tra la zappa e la vanga, il biroccio e lo Stato». Come ci sia «una tecnica padronale e una contadina di fare i fossi»[7]. E quindi che i rapporti di dominio erano ben dentro a tecniche agricole supposte naturali e oggettive.

Lo aveva fatto, però, sulla base di una ricerca assai minuta, durata anni, su «fossi e cavedagne» concretizzatasi in due volumi di molte centinaia di pagine[8].

Gli studi di Franco Della Peruta di cui stiamo parlando, scritti quasi trent’anni prima, erano indicatori di linee di svolgimento storiografico poi tradotte in ricerche specifiche di ampio respiro come quelle di Poni e di molti altri storici dell’agricoltura. La storia dell’agricoltura non coincide, però, con la storia del mondo contadino. Gli studi sulla storia dell’agricoltura, sul paesaggio agrario, non si contano, ma «i contadini, sia come individui sia come la complessa e differenziata realtà sociale che furono, il loro mondo morale, la loro cultura materiale, sono rimasti sullo sfondo, quasi invisibili»[9], ha affermato Adriano Prosperi. E Della Peruta, ritornando sui suoi primi lavori, ha messo in evidenza come questi abbiano provato a calarsi nel «vissuto dei ceti popolari» (il corsivo è mio), oggetto estraneo all’indagine «quando gli storici si occupavano ancora in modo esclusivo dei gruppi dirigenti»[10].

Il suo itinerario nell’innovazione storiografica di ispirazione marxista comincerà proprio con lo studio del mondo di una «classe oggetto», quella dei contadini. «Classe oggetto», definizione di Bourdieu, è definizione «provocatoria (…) ma nessuna esprime meglio la condizione di subalternità del contadino nella storia europea dei secoli scorsi: ricorda a tutti una condizione di esseri umani destinati a essere raccontati, descritti e rappresentati da altri, oggetto di commiserazione o di derisione, di paura o di pietà, ma sempre e solo per ribadirne la posizione subalterna»[11].

Ho citato dalla preziosa ricerca di Adriano Prosperi su quel mondo contadino che Della Peruta ha descritto come «povero fatto di coloni, braccianti, obbligati, mezzadri», mondo che «costituirà per tutto l’Ottocento e la prima metà del Novecento uno dei nodi centrali della nostra vita nazionale»[12]. Un mondo di cui egli esamina, in specifiche ricerche territoriali, le cento sfaccettature, ma all’interno di un contesto che ha una «radice unitaria», secondo un’espressione che Della Peruta utilizza più volte nei suoi studi sulle campagne lombarde.

Ricorro ancora alla ricerca su Un volgo disperso per rendere più chiaro il modello storiografico cui l’espressione «radice unitaria» fa riferimento. Scrive Prosperi: «C’è ancora una […] considerazione da fare sulla parola «contadino»: è facile immaginare che sia apparsa generica e ingannevole agli occhi di una tradizione italiana di studi e di pratiche sociali tra le più esperte di carte amministrative di grandi fattorie, e capace di distinguere tra i diversi livelli sociali e contrattuali all’interno della manodopera subalterna delle campagne». Non usandola, però, si corre il «rischio di cadere nell’inganno di categorie divisive dell’unica realtà comune: il lavoro della terra sotto padrone. Era il padrone che imponeva e teneva presenti la distinzione dei compiti e l’erogazione differenziata dei sempre magri compensi. (…). Lo sguardo del padrone non ha ingrassato il cavallo, né allora né poi»[13]. Un modello analitico particolarmente adatto a quel «nesso passato-presente» cui ci rimanda il fatto, come sottolinea Prosperi, che «nelle campagne italiane abbiamo visto di recente tornare i contadini. Assomigliano a quelli del millennio testé concluso: magri, stracciati, a piedi scalzi. Lavorano, come allora, dieci o dodici ore («da sole a sole», si diceva all’epoca) nelle infuocate ore dell’estate. Però, a ben guardare, delle differenze ci sono: molti di loro hanno la pelle più scura di quella dei contadini del tempo antico e le lingue che parlano sono quelle di paesi remoti»[14]. E, come allora, sotto l’occhio attento del padrone.

L’approccio analitico di Della Peruta declina il nesso passato-presente tramite lo studio di dinamiche interne alla supposta «classe oggetto». Dinamiche che dimostrano quanto fossero presenti elementi di soggettività che, sia pure nelle forme possibili nelle realtà di una subordinazione totale di quella che veniva rappresentata quasi una «razza arretrata e pericolosa rimasta bloccata a livello primitivo nel processo dell’evoluzione della specie»[15], cercavano di sottrarsi alle forme onnipresenti del dominio padronale.

Lo studio di Prosperi ci mostra tutte le difficoltà a cogliere elementi di soggettività nella «classe oggetto» relegata dietro il muro dell’analfabetismo. «Il fatto è che la scrittura e la lettura erano state loro negate. In questo la sorte dei contadini italiani è stata diversa da quella dei lavoratori della terra del resto d’Europa, trovando analogie solo con quelle degli schiavi e delle caste inferiori di altre parti del mondo. Così è inevitabile che l’universo morale di sentimenti e di pensieri dei contadini resti precluso allo storico. Solo il romanzo può ignorare questo limite»[16].

Non è un caso, dunque, che Della Peruta, convinto che nei bisogni, nelle passioni, nei dolori, si trovi la materia prima della «storia dei popoli», sia stato altrettanto convinto che l’espressione diretta di quei bisogni, quelle passioni, quei dolori dei senza voce non si trovassero nelle carte d’archivio delle quali, peraltro, era frequentatore abituale. Ed ecco allora ch’egli cerca, insieme a Ippolito Nievo, all’interno dell’universo contadino, nella sua separatezza rispetto al resto del paese, le ragioni delle prospettive aperte e dei limiti del processo risorgimentale. Cerca nelle «infelicissime condizioni materiali»[17] dei contadini «le ragioni intime di [quella] lacerante spaccatura» con il mondo padronale che non poteva non avere effetti sull’atteggiamento dei contadini riguardo alla questione dell’Unità nazionale. E insieme a Riccardo Bacchelli indaga nelle mille sfaccettature del «popolo minuto» delle campagne[18].

L’indagine e la narrazione che si svolgono in Un volgo disperso si basano su fonti importantissime ma quasi inutilizzate nella prospettiva in cui si muove Adriani Prosperi, che è quella di «cercare di capire che cosa ne fu di loro in quel lungo secolo che si aprì con l’unità nazionale e si concluse con la morte della nazione nella vergogna delle leggi razziali e nell’immane catastrofe della Seconda guerra mondiale. Un secolo che li ebbe come categoria spregiata, carne da cannone per guerre coloniali e conflitti mondiali»[19]. È proprio nell’uso che viene fatto di queste fonti che si coglie insieme la finezza dell’udito e gli strumenti del mestiere utilizzati con grande efficacia dall’autore. I lineamenti tracciati dopo esame con ottica grandangolare dentro carte finalizzate a tracciare i confini tra igiene e sporcizia, compongono un affresco in cui si mescolano con rara efficacia colori netti e sfumature di colore.

Quanto fosse «categoria spregiata» emerge dai numerosissimi contributi elaborati nei decenni post-unitari per dotare l’Italia di una «carta per l’igiene». Si tratta di contributi di grande rilievo, spesso frutto del lavoro di scienziati, di sinceri riformatori, accomunati però dal medesimo sguardo che rivolgevano sulla «classe oggetto»: «era uno sguardo dall’alto, [anche se] pieno di umana pietà per sofferenti e sfruttati». Lo sguardo, ad esempio, di Pasquale Villari quando visitava i quartieri popolari di Napoli. «Lo storico napoletano – scrive Prosperi – era tornato spesso nella sua città d’origine. E ogni volta, a quanto raccontava, per la sua «prima passeggiata» sceglieva i «quartieri più luridi». Si immagina il distinto e severo professore vincere la barriera dello sporco (…). Così grave da rendere incerta la natura umana degli esseri che popolavano quei luoghi. Forse – scriveva Villari – si era davanti a una mutazione dei “caratteri fisiologici della razza”. La parola non si affacciava per caso: era l’ombra dell’inferiorità biologica che stava calando sul Mezzogiorno e in generale sulle plebi italiane grazie al darwinismo che si respirava nell’aria»[20].

La «classe oggetto» che emerge da tanti dei contributi preparati per inchieste agrarie, e/o per costruire la «carta igienica» d’Italia, perde progressivamente il carattere dell’insieme sociale per assumere quello dell’insieme razziale. L’immagine dei contadini come «razza» subalterna per storia diventata natura, attraversa in maniera più o meno accentuata gran parte dei suddetti materiali. Quando poi era direttamente il padrone a descriverne le caratteristiche, lo faceva tramite un preciso calco dei manuali di antropologia e geografia coloniale di allora.

Scriveva il conte Gerolamo Romilli, grande proprietario di terre nella bergamasca e nel mantovano a proposito dell’«esemplare maschile» contadino: «Testa affogata fra le spalle, grossa, aguzza; nuca sporgente, faccia depressa e larga tanto quanto alta; fronte nullo spaziosa, rugata; naso dilatato, piccolo ed informe; occhi grigio castani, infossati piuttosto che sporgenti, di pupilla smorta priva di moto e di vivacità; (…) L’andatura è faticante, lenta; il passo lungo a piegamento di ginocchia, senza agilità né sveltezza, meno poi grazia; accompagnamento dal moto di va e vieni delle braccia cadenti a penzoloni e colle mani aperte; la testa piegata, cogli occhi stupiditi, la bocca semi aperta». L’esemplare femmina non differiva se non per il sesso ed era «di ingegno assai poco svegliato, per la trascuranza che ereditò dalle passate generazioni […] La conformazione poi del suo cranio e la materia cerebrale in esso contenuta svelarono alla fisiologia una potenza comprensiva assai limitata.»[21].

Quale soggettività è possibile nasca da quella che non viene rappresentata nemmeno come «classe» bensì come «razza oggetto»?

Quando, nel dicembre 2006, l’Università di Bologna gli conferisce una laurea ad honorem, Della Peruta tiene una lezione dal titolo: I contadini e il risorgimento, una lezione in cui sono evidenti i segni di una lunga continuità. Proprio in riferimento ai saggi scritti tra il 1951 ed il 1953 Della Peruta riprende il discorso sul metodo che vi è sotteso.

«L’esame dei rapporti di classe nelle campagne lombarde – afferma – è la necessaria premessa allo studio di alcuni importanti aspetti del Risorgimento in Lombardia. Infatti, soltanto tenendo presenti i rapporti di classe esistenti nelle campagne, le condizioni delle masse rurali, i loro bisogni e le loro aspirazioni, è possibile spiegare l’atteggiamento degli strati contadini, oscillanti tra rivoluzione e reazione, durante il ‘48»[22].

Sistema di relazioni dinamiche a partire da… una metodologia connaturata già al primo presentarsi della concezione materialistica della storia nella sfera dell’alta cultura in Italia.

Bisogna avere ben chiaro che ricerca e discorso di Della Peruta sulla storia del mondo contadino, sulla storia del lavoro e dei lavoratori, connettono due livelli diversi strettamente intrecciati, anche se l’uno esplicito e l’altro meno. Ricerca e discorso si concentrano su un oggetto specifico, un oggetto complesso che si articola su piani differenziati. A tale scopo l’uso del metodo, anzi di metodi correlati alle domande poste all’oggetto di studio, serve anche da pietra di paragone con una più ampia riflessione sui pensieri lunghi.

E qui si ritorna alla questione della «storia in costruzione» di cui ha parlato Vilar. Nell’analisi di Della Peruta sui moti contadini nella Lombardia del ‘48 riecheggiano motivi di sapore labroussiano. Una sorta di approccio sul piano del rapporto struttura/congiuntura. I meccanismi di lungo periodo della penetrazione del capitalismo nelle campagne attraverso processi non lineari, attraverso differenziazioni legate anche alle caratteristiche del «paesaggio agrario», e le crisi, economica e politica, della fine degli anni Quaranta dell’Ottocento.

Sono proprio gli incroci di questi diversi percorsi che portano allo scoperto gli aspetti di contraddizione dell’«improvviso ribollir di forze».

Ecco ritorna la «radice unitaria» così solida da destrutturare anche i modi di espressione del profondo sentimento religioso di cui è pervaso il mondo contadino. In quell’«anno dei miracoli» questi contadini, certamente religiosi, non apprezzano che i signori li precedano nella processione del SS a Ponte Valtellina. E di conseguenza non si tolgono il berretto davanti al baldacchino. A coloro che li esortano a farlo rispondono: «en gha per coion gnanca el Cristo»[23]. Il Cristo, insomma, di quell’atto formale se ne infischia. Il Cristo è con i contadini, non con i signori.

Per esprimersi con le parole di Ernest Labrousse, si può dire che l’analisi minuta di Della Peruta all’interno delle cento Italie agricole, abbia sempre cercato di coniugare il «pane degli uomini» con il «pane delle classi».

Ed è in questo contesto che la storia «integrale» di Franco della Peruta va inserita. All’interno di un percorso cui la dizione «storia del movimento contadino», così come comunemente intesa, rischia di non rendere tutta la pienezza problematica e conoscitiva. Ed è in questo contesto che la lettura del libro di Prosperi ci aiuta ad avanzare lungo quel sentiero, certo con cautela, ma con vista più acuta e udito più fine.

NOTE

[1] F. Della Peruta, Aspetti sociali del Mezzogiorno nel ‘48, in «Quaderni di Rinascita», 1948, pp. 94-100.

[2] G. Giarrizzo, Tutta un’impostura. La storia non esiste…, in AA. VV., La teatralità nell’opera di Leonardo Sciascia, Catania, Teatro Stabile, 1987.

[3] L. Sciascia, Il consiglio d’Egitto, Torino, Einaudi, p. 59.

[4] F. Della Peruta, L’alimentazione dei contadini nella Lombardia dell’Ottocento, in, Idem, Realtà e mito nell’Italia dell’Ottocento, Milano, FrancoAngel, 1996, pp. 183-198.

[5] K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, «Marx Engels Opere Complete (MEOC), vol. III, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 5-157. La cit. p. 103.

[6] P. Vilar, Storia marxista, storia in costruzione, in Problemi di metodo storico, a cura di Fernand Braudel, Bari, Laterza, 1973 pp. 546-602.. La cit. p. 552.

[7] C. Poni, Intervento al seminario su Una rifonda pp. 14-15.zione dell’archeologia medievale: la storia della cultura materiale, in «Archeologia medievale», 1976,

[8] C. Poni, Un paesaggio a due dimensioni: fosse e cavedagne della pianura Cispadana nei secoli XIV-XVIII, Bologna, il Mulino, 1976. Poi, Idem, Fossi e cavedagne benedicon le campagne, Bologna, il Mulino, 1982.

[9] A. Prosperi, Un volgo disperso, Contadini d’Italia nell’Ottocento, Torino, Einaudi, 2019, p. XII.

[10] F. Della Peruta, Sei domande sulla storia, a cura di Paola Ghione, in “Zapruder”, 2011, n. 25, pp. 140-145. Cit. p. 142.

[11]A. Prosperi, Un volgo disperso, Contadini d’Italia nell’Ottocento, cit. p. XIII.

[12] F. Della Peruta, Le origini e il primo sviluppo del mutualismo nell’ottocento, in Idem, Politica e società nell’Italia dell’Ottocento. Problemi, vicende e personaggi, Milano, FrancoAngeli, 1999, pp.115-140. La cit. p. 119.

[13] A. Prosperi, Postfazione alla nuova edizione (2021). Le cit. pp. 379. 381, 383.

[14]A. Prosperi, Un volgo disperso, Contadini d’Italia nell’Ottocento, cit., p. IX.

[15] Ivi, p. 183.

[16] A. Prosperi, Postfazione alla nuova edizione, cit., pp. 374-375.

[17] F. Della Peruta, Nievo “politico” e la questione contadina, in, Idem, Uomini e idee dell’Ottocento italiano, Milano, FrancoAngeli, 2002, pp. 153-195. Cit. p. 173.

[18] Riccardo Bacchelli e il mondo rurale padano, ivi, pp. 197-216.

[19]A. Prosperi, Un volgo disperso, Contadini d’Italia nell’Ottocento, cit., p. X.

[20] Ivi, p. 265.

[21] cit. in A. Prosperi, Un volgo disperso, Contadini d’Italia nell’Ottocento, cit. p. 284.

[22] F. Della Peruta, Le campagne lombarde nel Risorgimento, in, Idem, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Roma, Editori Riuniti,  1965, pp. 37- 58. («Società» 1951).

[23] Ivi, p. 101.



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