Una buona legge sulla gpa deve essere plurale

Una norma per la maternità surrogata deve tener conto degli interessi di tutti, specie se contrastanti. Altrimenti, il rischio che ne consegue è un corto circuito in direzione normativa, senza troppa pena per chi ne fa le spese.

Simona Argentieri

Volentieri accolgo l’invito di MicroMega a partecipare alla riflessione sul tormentato problema della gpa. Avvantaggiata dai due pregevoli articoli a pieno raggio di Cinzia Sciuto e Federica d’Alessio che mi hanno preceduta, mi consento qualche ulteriore considerazione.
Innanzi tutto, temo che la maggior parte delle attuali modalità di discussione collettiva siano gravate da punti di vista parziali e da confusione di livelli; come lo scambiare per valori universali o l’elevare a ideali morali le proprie idiosincrasie. Ad esempio, non ha senso invocare contro la gpa il concetto di “naturale”. Il confine individuale sé/non sé, supposto “naturale”, è già ampiamente scombussolato – per nostra fortuna – da trasfusioni, trapianti da umani e altri animali, da protesi di plastica e metallo. Che poi di una buona opportunità si possa fare maluso è cosa nota e scontata.

Per contro, la psicoanalisi, suffragata oggi dalle neuroscienze, è tenuta a dire che i nove mesi di gestazione non sono un periodo inerte e passivo. In quel lungo tempo di simbiosi la donna non “presta” solo l’utero, ma tutta sé stessa; che lo sappia e lo voglia o no, avvengono scambi di umori, ritmi e affetti sia pure primitivi, si attivano sensazioni e percezioni. Il feto riconosce e reagisce ai suoni dell’ambiente, alla voce della donna che lo ospita, che venga o no considerata madre. Tutto un substrato di vita che precede la nascita vera e propria e che viene interrotto, spezzato ma non cancellato al momento in cui il bambino viene al mondo e preso in carico dai genitori ufficialmente deputati. Anche se è doveroso aggiungere che non si possono fare ipotesi categoriche sugli effetti che avranno sui bambini le manipolazioni della gestazione. Non solo perché non abbiamo ancora dati sufficienti, ma soprattutto perché dobbiamo tener conto delle imprevedibili capacità plastiche di compensazione e di adattamento della psiche e del cervello. Purché tale imprevedibilità non diventi l’alibi per qualunque azzardo.
I singoli argomenti – anche quelli buoni e costituzionali come solidarietà e autodeterminazione – da soli non funzionano. (Penso a come sia facile falsificare il criterio di “dono”. Oppure quanto sia sfuggente valutare la libertà di scelta di donne forzate alla gestazione da condizioni economiche o di sottomissione alla potestà coniugale).

Una buona legge deve essere plurale, deve tener conto degli interessi di tutti, specie se contrastanti. Altrimenti, il rischio che ne consegue è un corto circuito in direzione normativa, senza troppa pena per chi ne fa le spese.
In questo senso, di recente ho avuto la possibilità di scrivere sulla Rivista dell’ADMI (l’Associazione delle donne magistrato, con la quale collaboro convintamente da molto tempo) un commento sulla sentenza della Corte Suprema di Cassazione relativa al caso di “un bambino nato all’estero da maternità surrogata”. Mi è sembrata buona e bella. “Il nato non è mai un disvalore”, sta scritto nelle prime pagine, e credo che chi le ha redatte abbia avuto in mente che quel bambino, al centro della contesa giuridica, un giorno le leggerà. Deve restare la preoccupazione basilare, dunque, di evitare in ogni modo che il nato stesso diventi campo di battaglia. La Corte costituzionale – cito – “non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti”.
Inoltre, non voglio rinunciare a ripetere (lo dico da tempo) che non è un buon segno di maturità collettiva la tendenza a spostare nell’ambito del diritto, invocando sempre nuove leggi salvifiche, ciò che doveva competere alla società civile, delegando al legislatore – oltre alla debita formulazione di argine e limite – un surplus di senso etico e psicologico che invece spetterebbe a noi tutti.

In ragione del mio tipo di competenza, penso inoltre che sarebbe importante puntare l’attenzione non sui casi eccezionali, ma sul problema immenso della moltitudine di coloro che nelle nostre civiltà occidentali avanzate – senza giungere a giudizio e con la collusione di una intera cultura – non vogliono riconoscere i propri limiti. O meglio, il senso del limite non è più un valore. Mentre pretende di assurgere a diritto (lo diciamo in tanti e da tanto tempo) la pretesa della genitorialità ad ogni costo, della quale la gpa è solo un sintomo e una conseguenza.
Ovviamente è difficilissimo stabilire quando un desiderio si trasforma in ossessione e il figlio diviene uno strumento perentorio per la conferma della propria identità. Lasciando a margine le situazioni estreme, faccio riferimento a casi ordinari di single e coppie che si sottopongono a torture, a sacrifici, a sotterfugi per garantirsi non un figlio come piccola persona “altra” da sé, ma come un trofeo narcisistico che dovrebbe aggiustare tutte le falle identitarie precedenti. Talora è una scorciatoia per acquisire uno stato di “normalità”.

Tale perentoria ricerca di conferma esteriore è inevitabilmente più forte, ma non esclusiva, nelle coppie atipiche, quali le unioni omosessuali, che – in ragione delle oggettive e a mio avviso insensate difficoltà e degli ostacoli alle adozioni ordinarie – finiscono col rendere paradossalmente più accessibile la genitorialità surrogata.
Penso quindi che la proposta di bollare come “reato universale” la gpa sia tanto inopportuna quanto inefficace; e che prima di formulare una proposta di legge ci sia ancora molto lavoro da fare (se lo vogliamo). Altrimenti la strategia del vietare e criminalizzare serve solo ad eludere le ansie del dubbio, la fatica dello studio, del conoscere e del cercare di capire, senza imboccare le scorciatoie negative della fuga indietro verso la restaurazione o in avanti verso l’illusione onnipotente.

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CREDITI FOTO Flickr | Banc d’Imatges Infermeres



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